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CULT
L’antirazzismo come stile di vita
The Specials, le sottoculture giovanili e l’eredità del two-tone 40 anni dopo. Quarant’anni fa i The Specials irrompevano nel mercato discografico con il loro primo memorabile album, trascinando migliaia di giovani sulle piste da ballo al suono di quelli sarebbero divenuti negli anni a seguire dei veri e propri classici della musica pop
Esattamente quarant’anni fa The Specials irrompevano nel mercato discografico con il loro primo memorabile album (The Specials, 1979), trascinando migliaia di giovani sulle piste da ballo al suono di quelli sarebbero divenuti negli anni a seguire dei veri e propri classici della musica pop: A Message to youRudy, It’s up you, BlankExpression, Too muchtooyoung, Concrete Jungle, StupidMarriage o You’rewonderingnow. Un incantesimo frutto di una miscela semplice ma esaltante, too hot (come annuncia uno dei brani dell’album), carnale fino al midollo poiché espressione della volontà di rivincita del corpo (meticcio e proletario) contro l’artificiosità barocca, virtuosistica e formale, macchinica e cerebrale (e anche bianca), in cui era incappato il rock dai primi anni ’70.
Mentre il dominio del progressive, in tutte le sue diverse sfumature (Yes, i primi Genesis, Van Morrison, Emerson Lake & Palmer, ecc.), parlava più che altro all’orecchio e alla ragione (musicale) attraverso una vocazione concertistica, riuscendo così a conquistare finalmente il proprio posto nel paradiso delle forme espressive dell’Alta cultura occidentale, la rivolta punk-ska-post-punk di fine anni ’70 tornava alle origini nere e plebee del rock. Mescolando però ad altri generi (in particolare lo ska giamaicano degli anni sessanta, il reggae/dub in versione Black British), interpellando in modo diretto il corpo, i sensi, i malesseri(ancora) viscerali, ma anche la voglia di (ri)vivere dei giovani inglesi in mezzo le rovine del neoliberalismo nascente.
Lo ska in versione Black-British di The Specials, Madness, The Selecters, Bad Manners, ecc., come il punk e il post-punk, è uno stile musicale che non (solo) si ascolta, ma soprattutto si balla. Musica popolare, meticcia, urbana, sintomo di angoscia e sofferenza, ma anche di un desiderio collettivo di gioia e godimento postcoloniale, ovvero di una contro-condotta quotidiana da opporre alle ragioni mercantili, razziste, disciplinari e securitarie emergenti allora come nuove risposte politiche di potere per governare la vita nella crisi; del capitalismo fordista post-bellico, certo, ma anche della Gran Bretagna coloniale, imperiale, bianca e patriarcale. Come scrisse Iain Chambers nel suo formidabile Urban Rythms (1984), il palcoscenico della musica pop è la città, in tutte le sue contraddizioni materiali e culturali, «la città è il “corpo” urbano, il luogo dell’immaginazione contemporanea; e attraverso la riproduzione tecnologica dell’immaginario, le strutture delle metropoli – sotto forma di copie e di variazioni locali – penetrano in ogni angolo della nostra vita» (p. 198).
L’immaginario che muove le note e le parole dei gruppi Ska-Two-Tone è prima di tutto un immaginario antirazzista, carnale e metropolitano, non affatto astratto e dottrinale, come quello dominante nelle sinistre più tradizionali. Ed è proprio a partire da questa sua caratteristica specificamente plebea che oggi può divenire per noi – in una realtà economicamente stagnante e attraversata più o meno dagli stessi affetti negativi (violenza razzista, neofascismo, risentimento, securitarismo, depressione, ecc.) della Gran Bretagna di quel periodo – estremamente significativo. La two-tone music poneva l’antirazzismo non solo al centro della propria ribellione e del proprio immaginario sul futuro, ma soprattutto come un’esigenza microfisica, come pratica necessariamente culturale e quotidiana, integrale a uno stile di vita alternativo. È quanto ci trasmettono note e parole di, per esempio, A racist friend (1984):
Il fiore cresciuto nella “giungla di cemento”
Ma facciamo un po’ di storia. Quarant’anni fa, al culmine di un decennio attraversato da profonde tensioni etniche e sociali, Margaret Thatcher arrivava a Downing Street segnando un punto di non ritorno nella storia politica e culturale del Regno Unito del dopoguerra. La sua proposta politica – un mix di conservatorismo sociale e di liberalismo economico basato sulle teorie di Friedrich Von Hayek – riuscì a intercettare le ansie e le paure che attraversavano la società inglese, offrendosi come argine al crescente senso di insicurezza e come garante del ritorno all’ordine e alla disciplina. In un periodo di grave recessione economica la sua ricetta “lacrime e sangue”assestò un duro colpo al welfare state britannico attraverso privatizzazioni e tagli alla spesa pubblica che si tradussero in un ulteriore innalzamento dei livelli di disoccupazione e povertà di sempre più larghe fasce della popolazione.
Inoltre, anche se con la vittoria del partito conservatore il National Front e altre formazioni di matrice fascista andarono incontro a una rapida perdita di consensi, le aggressioni razziste proseguirono indisturbate, insieme alla progressiva razzializzazione della sfera pubblica, del consenso politico e della coercizione fisica. Il tutto all’interno di un clima politico in cui si offriva alla popolazione bianca inglese un nuovo “contratto razziale” di cittadinanza, in cui si prometteva di scaricare l’intero costo della crisi sui giovani (e migranti) neri, attraverso il ricorso a una capillare repressione poliziesca, alla carcerazione di massa, all’esclusione e alla segregazione sancita direttamente dalle politiche di Stato, ecc. È l’atmosfera crepuscolare e distopica di cui si nutre uno dei brani più noti dell’album, Concrete Jungle: «Concrete jungle, animals are after me. Concrete jungle, itain’tsafe on the streets. Concrete jungle, glad I got my mates with me».
Eppure quelli a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta non furono solo gli anni bui della recessione economica, della disoccupazione galoppante e della deriva razzista. Al contrario, furono anche anni caratterizzati da un grande fermento sociale e culturale, da una rivoluzione dell’immaginario giovanile e da nuove identità e stili di vita, durante i quali tra i giovani della classe operaia bianca e tra i loro coetanei appartenenti alle comunità nere e asiatiche prese piede una nuova potente consapevolezza antirazzista. In questo contesto, un ruolo fondamentale fu giocato dalle sottoculture giovanili. Mentre la sinistra di tradizione marxista e socialista “classica” (e bianca) si ostinava a proporre una lettura meramente ideologica, laburista e sovrastrutturale, del razzismo, del tutto scissa dall’esperienza quotidiana del proletariato giovanile, infatti, le forme di aggregazione e le pratiche sociali che cominciavano a diffondersi nello stesso periodo tra le nuove generazioni offrivano invece un modello in grado di riconnettere la politica antirazzista alla vita di tutti i giorni, articolandone una critica pratico-concreta prima ancora che teorica e concettuale.
Era questo il terreno su cui si è innestato l’intero movimento coagulatosi attorno all’esperienza di Rock Against Racism. Come osservava Paul Gilroy in Two Sides of Antiracism (1987), uno dei saggi più stimolanti di There Ain’t no Black in the Union Jack (1987), la sfida al razzismo si giocava in quegli anni sul terreno dell’identità e delle politiche culturali prima ancora che su quello, tradizionalmente considerato prioritario a sinistra, della appartenenza di classe: se non altro perché il razzismo, come dispositivo di governo e di controllo sociale, altera e distorce la logica meramente economica della disuguaglianza (e quindi della lotta) di classe. Se negli anni Cinquanta e Sessanta le sottoculture riflettono in forma esasperata le ambivalenze e gli antagonismi che attraversano la società inglese nel suo complesso, infatti, nel corso degli anni Settanta queste diventano anche il vettore di un travagliato processo di riorganizzazione e trasformazione dell’immaginario generazionale, attraverso il quale gli adolescenti appartenenti alla classe operaia bianca cominciavano a ripensare il proprio rapporto con la cultura dominante e con le altre culture subalterne.
Sintomatico del momento, White Riot, lo storico brano di The Clash in cui i giovani sottoproletari bianchi, sempre più colpiti dalla crisi e dalla stagnazione economica, assumono le forme storiche delle rivolte nere urbane come un’importante risorsa per la propria soggettivazione. In questo modo attraverso le sottoculture prenderanno forma un sistema di valori e un repertorio simbolico condivisi, intorno ai quali comincerà a intrecciarsi il vissuto quotidiano di migliaia di giovani provenienti da contesti spazialmente dispersi ed etnicamente eterogenei, che si ritroveranno improvvisamente uniti in un’inedita alleanza interrazziale.
Coventry, Ghost Town: la two-tone generation
Da questo punto di vista, se la fine degli anni Settanta rappresenta il momento in cui le pulsioni razziste che hanno segnato i due decenni precedenti trovano una sintesi ideale nella controrivoluzione neoliberale di Margaret Thatcher, questi sono anche gli anni in cui le tensioni transculturali che hanno attraversato le sottoculture dei due decenni precedenti si ricompongono in un progetto e una pratica politica antirazzista, arrivando a sfidare apertamente il razzismo della società britannica. In questa contro storia delle culture popolari, formidabilmente narrata da una buona parte della produzione dei Cultural Studies britannici sotto la guida di Stuart Hall, il 1979 rappresenta una data cruciale. Mentre Margaret Thatcher si avvia alle elezioni cavalcando le paure e il malcontento della società britannica, a Coventry, a circa 200 km da Londra, un giovane skinhead e il suo gruppo stanno letteralmente per ribaltare la scena sottoculturale europea.
Il suo nome è Jerry Dammers e con Terry Hall, Lynval Golding, Horace Panter, Neville Staple (cantante nero della band) e Silverton Hutchinson diventeranno noti al mondo come The Specials. Il loro stile richiama l’estetica skinhead e quella rude boy miscelando un’attitudine e delle sonorità decisamente punk alla tradizione musicale dello ska e del reggae ha colpito e incuriosito anche Joe Strummer, che nella primavera del 1978 propone loro di aprire alcuni concerti dell’On Parole UK Tourdei Clash. La Coventry degli Specials, il loro “corpo-urbano”, per tornare alla metafora di Chambers, è stato immortalato in uno dei loro single più noti, Ghost Town, del 1981: una città oramai “fantasma”, in cui gli effetti del primo thatcherismo hanno finito per distruggere non solo l’apparato industriale e le possibilità di lavoro per le nuove generazioni, ma anche ogni forma di socialità urbana. Meta di importanti flussi migratori provenienti dai Caraibi e dall’Asia nei primi anni ‘50, come altre città “industriali” del centro-nord inglese, Coventry si è trasformata in una desolante distopia post-industriale: «This town is coming like a ghost town. All the clubs have been closed down. This place is coming like a ghost town. Bands won’t play no more. Too much fighting on the dance floor. Do you remember the good old days before the ghost town?We danced and sang, and the music played in a de boom town».
Come ricorda Simon Reynolds nel suo Post-Punk 1978-1984, Ghost Town finì per rivelarsi «il prodotto politicamente più tempestivo dai tempi di Godsave the Queen dei Sex Pistols». Da ricordare poi che nelle tre settimane in cui il brano rimase al numero 1 del top-ranking, vi furono diversi riots razziali in molte città del paese: Brixton, Toxteh (Liverpool), Wolverhampton e Birmingham, ma soprattutto nella stessa Coventry. Nonostante la giovane età, i ragazzi di Coventry possono quindi già vantare nel 1979 un curriculum di tutto rispetto, ma questo non basta per convincere una casa discografica a finanziare il loro primo singolo. Stanco delle continue porte in faccia, Dammers decide quindi di passare al contrattacco fondando la propria etichetta personale.
Nasce così la 2-Tone Records, un progetto nel quale le energie e gli stili delle sottoculture degli anni Sessanta e Settanta si fonderanno in una esplosiva miscela transculturale, dando vita ad una delle prime e più originali espressioni artistiche autenticamente interraziali delle culture giovanili del dopoguerra. Two-tone, con i noti disegni in bianco e nero “a scacchi”, che contraddistinguono il celebre logo dell’etichetta, ideato da Dammers e Horace Panter con il supporto del grafico John “Teflon” Sims per sottolineare il meticciato e l’ibridazione come il potente dispositivo simbolico di una nuova generazione, di un nuovo stile di vita metropolitano, ovvero di una nuova contro-cultura geneticamente, per così dire, antirazzista.
Vale la pena ricordare che la maggior parte dei gruppi two-tone, ad eccezione di Madness, erano fatti di bianchi e neri. È ancora Paul Gilroy a notare come l’operazione stilistica ed estetica del two-tone sia consistita in un vero e proprio innesto di un pezzo della cultura del proletariato giovanile britannico sul tronco della cultura popolare urbana nera e della tradizione afrocaraibica .Unendo sulle piste da ballo e sotto ai palchi skinheads e rude boys, punks, mods, rastas, così come adolescenti non legati a nessuna specifica sottocultura, il two-tone non si limitò a gettare un ponte tra i giovani delle comunità delle West-indie con i loro coetanei della classe operaia bianca, ma offrì loro un immaginario e uno stile di vita in grado di immunizzarli dalla retorica razzista e identitaria che aveva ormai egemonizzato il discorso pubblico.
La composizione interraziale dei gruppi two-tone, le sonorità meticce e le tematiche legate alle quotidiane esperienze del razzismo e dell’ingiustizia sociale infatti invitavano esplicitamente i giovani a ripensare le categorie di razza, cultura e identità, mostrando loro nella pratica come queste rappresentassero delle costruzioni sociali dai contorni fluidi e instabili, piuttosto che delle entità monolitiche immutabili. Il two-tone era bianco e nero, inglese e giamaicano, punk e reggae e,come testimoniato dalle folle dei primi concerti di gruppi come The Specials, The Selectere Madness (altri due nomi storici dell’etichetta fondata da Dammers), questo mix suonava maledettamente bene. Come suona maledettamente bene anche quello che è forse il loro brano più bello, Gangsters, del 1979.
Si tratta di una composizione che rispecchiava tutto l’amore dei giovani bianchi inglesi per gli elementi culturali e musicali portati nell’Isola dai loro coetanei giamaicani, la stima identificatoria per i rude boys, il culto di Prince Buster (Gangsters sembra una libera remake di Al Capone di Buster), l’amore per il ballo e lo ska della Giamaica. Tutti elementi presenti anche nel classico più classico dello stile two-tone, A Message to you Rudy, ma anche in buona parte della produzione musicale degli altri gruppi raccolti dall’etichetta, uno su tutti Madness, il cui nome richiama in modo esplicito un noto brano classico di Prince Buster. Non era difficile per l’audience two-tone rispecchiarsi nell’esperienza dei rude boys giamaicani: seguaci irriducibili dello ska, giovani disoccupati e demoralizzati, in lotta costante con la legge e le forze dell’ordine, alla costante ricerca di una scappatoia dalle miserie della vita quotidiana attraverso la musica, i vestiti eleganti e il divertimento. A cui però questa nuova generazione di inglesi non esitava nell’aggiungere l’antirazzismo come “forma” e “principio” di vita: «as a whole way of life», si potrebbe dire attraverso la nota espressione di Raymond Williams.
Antirazzismo come pratica contro antirazzismo dottrinale
La musica two-tone, il movimento antirazzista nato intorno a Rock Against Racism, così come buona parte della produzione del Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham, più noti come gli studi culturali britannici, sulle sottoculture giovanili, sugli stili musicali, sulla cultura pop e su razzismo e antirazzismo, possono costituire un ottimo punto di riferimento per ripensare e migliorare, e anche per decolonizzare, il nostro antirazzismo. Dalle nostre parti, l’antirazzismo, come pratica teorica e politica, nelle sue forme più note, laddove cerca altri punti di riferimento, o anche un dialogo, continua a guardare, tanto esplicitamente quanto implicitamente, alla tradizione francese più o meno “classica”.
L’antirazzismo maturato attorno alle lotte antirazziste in Gran Bretagna negli anni Sessanta e Settanta resta invece meno presente. E tuttavia data la congiuntura “sovranista” che stiamo vivendo, nella sua lugubre miscela di neoliberalismo, securitarismo, sessismo e razzismo, l’esperienza britannica avrebbe molto da dirci, anche perché si tratta di un archivio che, a differenza della tradizione francese, porta maggiormente iscritta l’impronta dell’Atlantico Nero, vale a dire delle controculture storiche delle popolazioni nere di tutto il mondo nella loro lotta contro ogni forma ogni forma di suprematismo bianco. Uno dei suoi principali contributi, al centro anche dello stile del two-tone, è che l’antirazzismo non può esaurirsi in un astratto appello alla lotta contro il neofascismo, così come non può focalizzarsi soltanto su questioni legate allo sfruttamento del lavoro o a mancati permessi d’asilo e di soggiorno isolandole da tutto il resto.
Come scriveva Gilroy in Two Sides of Antiracism: «un approccio di questo genere non fa che alimentare l’idea secondo cui il razzismo è una specie di aberrazione sociale, un fenomeno del tutto eccezionale, il prodotto di alcuni atteggiamenti e soggetti perfettamente estremi e identificabili, e quindi un aspetto del tutto “esterno”e “scisso”, e “non-affatto-integrato”, rispetto alla struttura sociale e politica entro cui si manifesta». Come a dire che le lotte antirazziste non potevano riguardare soltanto il British National Front oppure “questa” o quella “legge”. L’antirazzismo, dunque, come l’anti-sessismo, non può non mettere in discussione ogni aspetto della vita sociale: deve riguardare tutto e tutt*: e quanto meno “ideologizzato”, e più “quotidiano”e “capillare”, tanto più (politicamente) efficace come movimento di mutamento e di ricomposizione sociale. Sembra essere questa la lezione principale da trarre dall’esperienza della two-tone music, ovvero di uno dei momenti più significativi dell’insorgenza postcoloniale in Europa.
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