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L’anomalia Atlantide

Dal 2001 fino al suo sgombero nel 2015 il cassero di Porta Santo Stefano a Bologna, rinominato Atlantide occupata, è stato uno dei luoghi più importanti della scena punk hardcore italiana. Un libro da poco pubblicato con più di 500 foto e i contributi scritti di chi c’era e di chi ci ha suonato, ne documenta i 14 anni di vita

Ho conosciuto Atlantide il 18 di maggio del 2008, vivevo ancora a Roma. C’imbarcammo in una di quelle trasferte di gruppo in cui non importava chi suonasse e in cui ci si convinceva di poter fare “alla vecchia”, occupando un vagone d’un treno senza la minima preoccupazione per la riuscita del viaggio. Erano avventure che puntualmente finivano col fioccar delle multe, un po’ perché un’armata Brancaleone di loschi figuri vestiti di nero e toppe non è esattamente un deterrente per il controllo poliziesco, un po’ perché quei treni non erano l’intercity direzione Genova partito il 18 luglio del 2001, e gli altri viaggiatori di certo non si distinguevano per lo stesso spirito di solidarietà. Poco importava però, perché da ovunque potessi partire, Atlantide era il centro gravitazionale del punk hardcore, che ti calamitava con quella “anomalia bolognese” per cui questa città si è sempre distinta in tutte le sue manifestazioni politiche e culturali, e che lentamente ma instancabilmente mi ha convinto a diventarne cittadino tre anni più tardi.

 

Foto di Stefano Belacchi

 

Questi ricordi di ciò che è stato, la memoria collettiva, sono fondamentali per la costruzione e riproduzione di un sentire comune che non si voglia depositato nel passato ma sia propulsivo per la creazione dei nostri futuri, e quanto è stato iniziato nelle pagine di questo libro penso possa essere solo l’inizio di una grande raccolta di esperienze che attraversano e trascendono l’Atlantide e quei quattordici anni di concerti indimenticabili, perché ogni storia ci aiuti a comprendere ed affrontare meglio il nostro presente.

La storiografia tradizionale ci ha abituato a pensare alle narrative che plasmano la nostra umanità come una serie concatenata di eventi eccezionali che rompono il quieto vivere delle nostre esistenze, degli ordigni la cui miccia può essere solo accesa dall’istante in cui l’impeto del singolo decide di forzare gli ingranaggi del tempo. Ma ogni storia che decidiamo di vivere o di raccontare è una storia per forza di cose collettiva, in cui flussi e movimenti di corpi, sensazioni, manifestazioni artistiche e politiche collidono per dare forma al caos in un atto intrinsecamente trasformativo. Proprio queste tensioni e questo caos generativo sono quanto di più vicino possiamo trovare a dei protagonisti se vogliamo raccontare cosa sia successo al punk hardcore dentro l’Atlantide Occupata in quattordici anni impossibili da replicare. Per raccontare questi anni densissimi che hanno segnato la storia recente della controcultura bolognese non si poteva che rompere le convenzioni narrative, per dar vita ad una meta-narrativa che nasce dalle immagini e dai ricordi di chi nel corso degli anni ha contribuito a costruire un’esperienza la cui freschezza accarezza ancora la pelle di tantə. Una raccolta di pura vita preziosissima, che regala la piena coscienza d’aver creato e vissuto collettivamente uno stato di eccezione permanente all’interno di uno spazio sociale che ha fatto della rottura del convenzionale la propria cifra politica ed artistica. Uno spazio che è possibile rileggere e far rivivere solo liberandoci da ogni convenzione, da quelle delle nostre aspettative a quelle dei nostri linguaggi tradizionali.

 

Foto di Timo

 

Se lo stato di forzato isolamento sociale pandemico ha generato una lezione eminentemente politica è quella dell’impossibilità di sacrificare il singolo all’interno della collettività. Ogni esperienza, ogni vita, ogni ricordo contribuisce in egual misura a formare il “noi” sul quale costruiamo tuttə assieme le nostre identità politiche e culturali, che sono lo strumento di cui ci serviamo per la quotidiana lotta per la trasformazione dello stato di cose esistente. Sfogliando queste pagine, ritrovandosi nelle testimonianze di tantə, riconoscendosi assieme a tantə nei volti stampati sulla carta, ci si ricorda di come nessunə, all’interno degli spazi sociali d’eccezione, debba sentirsi annullato in un “noi” sovradeterminante, perché chiunque li attraversi, anche solo per una volta, diventa parte della loro storia, sentendosene parte.

Ho sempre pensato che, a differenza di altri generi musicali, il punk hardcore non sia scindibile dalla sua manifestazione fisica, anche se ascoltato dal divano di casa. È un impeto di corpi che urlano all’unisono contro il mondo che li circonda, e la depoliticizzazione di questo corpo collettivo è il nemico più infido contro cui combattere all’interno del capitalismo dell’intrattenimento che riduce ogni movimento culturale a sottocultura standardizzata. Atlantide era l’anomalia bolognese che te lo ricordava. Convivenza ed ibridazione fra punk ed i collettivi Antagonismo Gay/S-maschieramenti e Clitoristrix regalavano l’opportunità di urlare in faccia a tuttə che, proprio perché sempre più capitalizzato, anche all’interno di un movimento musicale che si vuole antagonista all’ordine sociale vigente non si può prescindere dal fare i conti con i propri privilegi. Atlantide ti sbatteva in faccia, ogni volta che varcavi quella soglia, il privilegio di nascita che si vive vincendo alla lotteria della genetica di un mondo bianco e patriarcale, le cui categorie incorporiamo per forza di cose durante i nostri processi di socializzazione e di crescita, e che abbiamo il dovere di abbattere. Atlantide ha restituito spinta ad un movimento musicale che ha l’obbligo di non poter essere travolgente solo per i timpani di chi ne vive i concerti.

 

Foto di Valeria Altavilla

 

Rivivere i tanti ricordi di una realtà che non c’è più ci obbliga a fare i conti con il nostro presente. Ci impone, come qualsiasi memoria, a pensare a come fare tesoro di ciò che è stato per adeguarlo alle sfide dei nostri giorni, per non permettere che tutta questa vita si riduca ad un mucchio di meravigliose cartoline da rispolverare alla bisogna. Uno degli insegnamenti delle/dei compagnə della prima ora – insegnamento che non sono mai riuscito totalmente ad assimilare – è stato quello di non affezionarsi mai troppo ai nostri spazi, perché per definizione transitori. Questi spazi però si presentano come un corpo vivo, che al tempo stesso plasma e viene plasmato da chi li vive, divenendo parte fondamentale di tanti personali processi di crescita. Sono spazi che si definiscono in netta contrapposizione rispetto a quelli che Marc Augé definiva “i nonluoghi della surmodernità”, luoghi incentrati unicamente nel presente precarizzato della provvisorietà relazionale e di un individualismo solitario in cui nessuno vi abita. E allora forse dovremmo cominciare ad usare le nostre storie collettive per definire i nostri spazi non solo in contrapposizione ad un presente che ci vuole espulsi dai suoi meccanismi di riproduzione, ma per cominciare a creare degli “ultra-luoghi”, degli spazi-oltre, affinché ogni singolo pezzo di queste storie collettive che ognuno di noi porta con sé trascenda il passato e sia il seme che possa far fiorire una nuova storia. Una storia di tuttə.

Troppo spesso negli ultimi anni della storia dei movimenti di Bologna abbiamo visto porte chiudersi e murarsi, ruspe demolire sogni e desideri. Troppo spesso abbiamo dovuto sentire i nostri volti solcarsi di amare lacrime di rabbia mentre la gentrificazione culturale in salsa felsinea privava al corpo vivo della sua città imprescindibili spazi sociali trasformativi, tentando di normalizzare esperienze di per sé ingovernabili per potersi appropriare di quanto la pubblica morale ritenesse legittimo ed espellerne le forze più vive sventolando lo spauracchio del degrado. Che queste pagine, questi volti, queste testimonianze e queste energie ci servano da memoria proattiva, per tornare a sentire presto vicino il giorno del sole. Perché anche se siamo delle generazioni costrette a sanguinare, il nostro sangue brucia di vita. E lo spirito continua…

 

La foto di copertina è di Valeria Altavilla. Nel testo foto di Stefano Belacchi, Valeria Altavilla e Timo