ITALIA
«L’alluvione ha mostrato le crepe strutturali di un modello di sviluppo»: intervista a PLAT
Intervistiamo la Piattaforma di Intervento Sociale (PLAT) che ha convocato la manifestazione del 17 giugno a Bologna ad un mese dall’alluvione in Emilia Romagna. La risposta di un territorio devastato da cambiamenti climatici e dal sistema capitalista è opportunità per ricreare convergenza tra movimenti
L’Emilia-Romagna è paradigma di un modello di sviluppo ad alta intensità, in cui ogni centimetro di suolo libero è conteso tra frutteti, industrie, strade, allevamenti intensivi e turismo di massa. Ora che questo sistema ha mostrato tutta la sua fragilità, in che modo credete che questo sistema possa essere messo in discussione? E, in questo contesto, quale significato avrà la parola “ricostruzione”?
La storia della regione ha la sua peculiarità nel particolare mix che, dal Dopoguerra in avanti, si è costruito tra l’amministrazione del PCI (con le sue logiche e la costellazione di corpi intermedi che lo accompagnavano, dal sindacato alle cooperative e, in seguito, dalle assicurazioni ad esempio) e l’intreccio con lo sviluppo capitalistico della ricostruzione post-bellica e il successivo “boom economico”. Ci fu chi, negli anni, parlò di una sorta di “socialismo reale emiliano”. Un modello economico-politico che, simbolicamente, mostrò le sue crepe col movimento del 1977 esploso nel cuore della “red Bologna”, ma che ha a suo modo retto fino agli anni Zero. Da lì in avanti le cose si complessificano. Il Partito Democratico in queste terre nasce anche come fusione tra cooperative rosse e bianche, arrivando a esprimere un ministro del lavoro che prima era presidente di Legacoop (Poletti). Da supposta avanguardia quale “terra del lavoro” l’Emilia-Romagna diviene avanguardia della precarizzazione. E non scordiamoci che l’Emilia è una delle culle del grillismo, con il primo Vaffa day in piazza a Bologna nel 2007 e Pizzarotti primo sindaco grillino a Parma.
Nei Duemila il modello economico emiliano si inserisce appieno nelle catene globali del valore (tanto che oggi si contende con la Lombardia la leadership sul primo PIL in Italia). Nascono una serie di forme di branding territoriale che si alternano negli anni (Motor Valley, Logistics Valley, Packaging Valley). Il primo grande magazzino italiano di Amazon apre non a caso a Piacenza (per una storia della regione attualizzata con la recente crisi rimandiamo a questo podcast: Emilia Romagna). I pezzi pregiati dell’industria locale (chimica, farmaceutica, motori) si buttano totalmente sull’esportazione. Il territorio sempre più deregolamentato/neoliberalizzato si riempie di snodi logistici, magazzini, installazioni turistiche, supermercati, arrivano accolti trionfalmente player globali come Philip Morris e di recente un’altra forma di branding, la Food Valley, che ricostruisce il territorio come un grande hub per i flussi turistici. Ultima frontiera: la Data Valley, con la costruzione del Tecnopolo di Bologna.
L’alluvione del 17 maggio ha messo in luce le crepe strutturali di questo modello di sviluppo, indubbiamente, a livello di “percezione di massa”. Ma da quel che si sta vedendo in questi giorni, non stupirà, sul fronte istituzionale ed economico si scommette tutto sul fatto che – passato lo shock e la potenziale domanda di cambiamento radicale dei primi momenti – si possa partire il prima possibile a ricostruire “tutto come prima”. È in qualche modo il pilota automatico del capitalismo globale contemporaneo, che senza contropoteri e movimenti in grado di imporre un potere di veto alle sue decisioni e di aprire nuovi spaziotempi di immaginazione e sperimentazione politica proseguirà senza dubbio come prima, più di prima, peggio di prima. La parola “ricostruzione” indica dunque, a nostro parere, un potenziale campo di contesa politica del prossimo periodo nei nostri territori. La mobilitazione costruita in queste settimane ha questo come suo obiettivo più ambizioso, il poter riuscire a incidere sul ridisegno della territorialità regionale, sulla destinazione dei fondi, sugli indirizzi politici. Cogliere le possibilità di trasformazione insite nella crisi per un salto di paradigma.
Di fronte al dramma dell’alluvione, fin da subito vi siete attivati/e con interventi solidali tra le popolazioni colpite. Quale bilancio fate di questa esperienza e in che modo le pratiche mutualistiche si inseriscono dentro la mobilitazione che avete lanciato?
Crediamo che la lettura più sincera di quanto avvenuto sia che si sia data una mobilitazione spontanea di migliaia e migliaia di persone in tutta la regione, che ha trovato in forme come le nostre (e tante altre) degli spazi organizzativi. Diciamo che PLAT ha funzionato un po’ come una infrastruttura della solidarietà, nel senso che è un’esperienza che esisteva da un anno ed è stata “pronta” ad essere attraversata da questo flusso di mobilitazione mettendosi al contempo al servizio della stessa. Segnaliamo che oltre agli spazi fisici di PLAT, all’interno di una corte popolare del quartiere Bolognina, è stato davvero interessante anche l’uso di Telegram – il gruppo di PLAT lì ha funzionato come vero strumento organizzativo (d’altro canto da alcuni anni Telegram pare il social più efficacemente utilizzato dai movimenti globali). Il tentativo che abbiamo fatto come compagn è stato quello sin da subito di intrecciare più piani: quello del mutualismo, quello della contestazione politica e quello della scommessa sulla possibilità di durata oltre la fase “emergenziale” – la prospettiva della ricostruzione, che chiamiamo “ricostruzione sociale”.
Nulla di nuovo, ma il rischio delle pratiche mutualistiche “a sé stanti” è che non si riescano mai a tradurre anche in termini di conflittualità sociale e che si richiudano una volta esauritosi il momento “eccezionale” che le attiva. A nostro avviso, lo diciamo anche a noi stess e con molta umiltà, è quanto successo con le forme di mutualismo in pandemia, di cui non ci pare siano rimaste fortissime tracce. Quando il 17 maggio ci sembrava di rivivere un po’ l’esperienza del primo lockdown, ci si è subito posta la necessità di provare a fare qualcosa di un po’ nuovo.
È un ragionamento che facciamo da qualche tempo, ancora inconcluso, ma uno dei limiti dei movimenti degli ultimi decenni ci pare sia stato quello di rimanere sempre racchiusi all’interno del binarismo tra forme “costituenti” vs “destituenti”. Andare al di là di questo schema di pensiero è stata un po’ la sfida teorica che ci siamo poste in questa piccola esperienza. Provare appunto ad articolare sin da subito l’espressione di mutualismo e solidarietà, la giusta rabbia provocata dalla catastrofe alluvionale, e la possibilità di un orizzonte di mobilitazione di lungo periodo con l’allusione a una ricostruzione sociale che non può che partire dall’indicare delle controparti andando a scaricare quintali di fango sotto il palazzo della Regione il prossimo 17 giugno. Uno dei primi testi che abbiamo scritto, non a caso, si è chiamato We are not fucking Angels. Per questo il corteo del 17 declinerà assieme il “Fermiamoli!” e il tema della “Ricostruzione sociale”.
Aggiungiamo che un po’ di giorni fa siamo state all’assemblea del movimento No Base di Coltano, dove abbiamo discusso la possibilità di intrecciare nella data del 17 un forte punto di vista contro la guerra. La sfida strategica del riportare in piazza un’opposizione sociale alla guerra ci pare infatti che non possa (quantomeno non solo) articolarsi in manifestazioni “ideologiche” (“pacifiste”) contro la guerra – per quanto importanti in questo clima politico. Ci sembra invece che l’istanza anti-bellica dovrebbe articolarsi in tutte le mobilitazioni. Al momento (ma forse le prime condizioni si stanno creando) non ci sono le condizioni purtroppo per un netto NO politico alla guerra, l’abbiamo ben visto in quest’ultimo anno. Tuttavia un’opposizione sociale alla guerra rimane un tema per il quale è necessario passare. Finora non ci si è riuscite, e purtroppo non servono ipotesi velleitarie, chiusure identitarie, bei discorsi tondi, ma ci sembra piuttosto necessario stare nelle contraddizioni che si aprono e da lì cercare di far emergere il tema.
Il governo è così complice del capitalismo fossile che ha spudoratamente disposto nuovi rigassificatori nel decreto alluvione. Nonostante spesso vengano rappresentate come questioni separate, o addirittura come spiegazioni alternative, la mala gestione del territorio e la crisi climatica sono strettamente intrecciate. In che modo all’interno del percorso che avete lanciato state articolando questo discorso?
I concetti elaborati dai movimenti e dall’intellettualità ecologista negli ultimi anni sono stati cardinali per la costruzione del discorso politico in queste settimane. È d’altro canto importante far notare come le luci dei riflettori mediatici abbiano illuminato alcune località e oscurato altre – ad esempio le zone appenniniche, non colpite direttamente da ondate d’acqua ma devastate dalle frane sono state per lo più marginalizzate. Ma tutta la gestione idro-geologica del territorio di questi decenni – e il sotteso modello di crescita economica – sta venendo attaccata politicamente in queste settimane. Nella contestazione di Fridays for Future a Bonaccini e Lepore (presidente di regione e sindaco di Bologna) del 9 giugno lo striscione riportava la scritta “Non è maltempo – è malterritorio!”.
Va inoltre aggiunto che la manifestazione del prossimo 17 giugno chiede la moratoria immediata alla costruzione di due grandi opere simboliche della volontà di non voler cambiare paradigma: il Passante di Mezzo e il rigassificatore di Ravenna.
Ci teniamo però a riprendere quanto accennavamo prima, ossia che una delle scommesse che stiamo provando a giocare è quella di costruire una possibilità di durata a questa mobilitazione, individuando nella “ricostruzione” un campo di battaglia possibile per i prossimi tempi. Su questo il progetto collettivo che si sta iniziando a costruire si basa sull’idea di affiancare alla contestazione politica anche la creazione di una infrastruttura sociale – un luogo diffuso che possa funzionare come scambio di pratiche e tessitura di nuove relazioni. A partire da una assemblea convocata per il 18 giugno l’idea è quella di devolvere i fondi che si stanno raccogliendo con un crowdfounding e con tante altre iniziative alla ricostruzione (ma diversamente e si spera meglio rispetto a prima) di vari presidi sociali nei territori alluvionati da mettere in rete.
Nel documento dell’assemblea del 27 maggio richiamate alla memoria il corteo del 22 ottobre in cui si perseguiva una convergenza di lotte che poi ha stentato a decollare in questo primo anno di governo Meloni. In che modo la mobilitazione contro il disastro dell’alluvione romagnola può rappresentare uno spazio per rilanciare un processo di convergenza? A quali altri movimenti e lotte guardate?
Per Bologna la manifestazione di convergenza ha rappresentato una tappa importante, non solo per la giornata del 22 ottobre in sé ma per il processo che ha attivato per la sua costruzione e per le energie che ha sprigionato nei mesi successivi. Non è certamente tutto “merito” del 22 ottobre, ma crediamo che se questi mesi in città sono stati caratterizzati da una rilevante effervescenza giovanile su più piani e dal rilancio di vari fronti di lotta sia dovuto anche a quello. È altresì indubbio che la speranza che quella data potesse essere un trampolino di lancio per un ciclo di mobilitazioni contro il governo Meloni è andata infranta. I motivi sono variegati… Da un lato si è forse pensata in maniera eccessivamente “lineare” la temporalità della convergenza. Dall’altra ci pare che molte realtà si siano un po’ ritratte di fronte alla necessità di contaminazione e sperimentazione che quella prospettiva richiedeva. Poi ci sono anche tanti fattori soggettivi e “oggettivi” che ci portiamo dietro da anni in Italia, oltre al fatto che è da molto tempo che non esiste più (e tendenzialmente non esisterà mai più – non è detto che sia un male…) un “movimento” per come se ne parlava in passato e che le lotte stentano a esprimersi e affermarsi (questo un vero problema…).
La mobilitazione del 17 giugno si pone in continuità con l’esperimento autunnale come campo di relazioni, come immaginario, come metodo politico – sicuramente in un contesto radicalmente cambiato e dentro a una processualità differente. Pensiamo però che una attitudine “convergente” dovrebbe caratterizzare i percorsi politici dei prossimi periodi. Abbiamo ad esempio guardato con curiosità a quanto si è mosso con “Ci vuole un reddito”, ci pare più che mai necessario il tentativo che si sta provando a costruire contro la guerra a partire dal movimento No Base di Coltano, stiamo attente a quanto può muoversi sul fronte sindacale di fronte a possibili scioperi (se solo a quelle latitudini si riuscisse ad andare un minimo oltre le ritualità…), ci sembra interessante il processo di radicalizzazione che sta caratterizzando varie realtà ecologiste… Quello che ci sembra è comunque che in questa fase l’indicazione proposta da GKN del «per questo, per altro, per tutto» come metodo politico sia efficace. Anche perché, ad esempio, nell’assemblea cui fate riferimento, nella quale sono intervenute decine e decine di differenti realtà, una cosa emersa con chiarezza erano gli ampi tratti comuni e la potenzialità ricompositiva. Ci sembra in altre parole necessario un radicale cambio di attitudine, di fronte a cambiamenti epocali come la pandemia, la guerra, l’impressionante accelerazione della digitalizzazione… È una questione anche di teoria politica, che ha bisogno di essere rinnovata. Giusto come spunto, da questo autunno stiamo provando a ragionare in termini di ecologie di movimento e di ecosistemi di lotte per trovare strumenti utili a tessere convergenza. Certo, Bologna non è sicuramente un contesto “rappresentativo” in assoluto, ha forti specificità, ma ci pare che questo ragionamento abbia pagato anche nel co-costruire e interpretare il bel fermento sociale di continue piccole lotte che emergono continuamente da mesi in città.
In contemporanea alla vostra manifestazione, a Maurienne in Francia vi sarà un corteo transnazionale lanciato dal movimento No Tav e Soulèvements de la Terre, per tracciare il legame tra tutela ecosistemica del bene idrico e lotta contro le grandi opere. Il collegamento con i temi del vostro corteo a Bologna sembra quasi immediato, creerete qualche ponte tra i due appuntamenti?
Aggiungiamo che nella stessa giornata del 17 giugno è convocata un’altra importante manifestazione, quella No Ponte a Messina. È una bella immagine quella della simultaneità di tre mobilitazioni su tematiche immediatamente riconoscibili e in dialogo tra loro. Probabilmente porle esplicitamente in connessione sarebbe più una auto-narrazione politicista che un effettivo avanzamento politico, ma è indubbio che la coincidenza sia suggestiva e che sarà necessario lavorarci sopra. A livello di relazioni poi questi percorsi si stanno parlando, ad esempio No Tav e Soulèvements de la Terre sono intervenute al festival che si è svolto domenica 11 giugno a Bologna di lancio del 17. Diciamo che aprire l’estate con tre mobilitazioni in simultanea può essere un buon volano da far sedimentare nei tanti campeggi e momenti di lotta di luglio e agosto e ci auguriamo che già da settembre possano rimettersi in moto, legandoci a quanto detto sopra, processi convergenti. Il fatto che ci siano tre mobilitazioni contemporanee, che insistono tutte su temi climatici e grandi opere, è comunque un qualcosa su cui ragionare. Che cosa significa ripartire dalle lotte su questi temi? Una domanda su cui non abbiamo ancora avuto tempo per ragionare a sufficienza, ma che vale sicuramente la pena porsi. Non si tratta crediamo di individuare UNA lotta ricompositiva, ma di ragionare su come la costellazione di conflitti in gioco può creare risonanze e potenziamento reciproco, senza cadere nel tranello del porre «tutto sullo stesso piano liscio» da un lato o del volere aprioristicamente costruire delle gerarchie delle lotte. Di nuovo, ci pare vada approfondito il dispositivo politico della convergenza, ossia del costruire i “per questo” attorno ai quali possono di volta in volta affluire tanti “per altro” nell’orizzonte di un “per tutto”.
Immagine di copertina di Michele Lapini e Sandro Pellicciotta