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EUROPA
L’Albania e il doppio volto delle frontiere. Intervista con Francesco Vietti
Francesco Vietti, antropologo delle migrazioni, analizza il ruolo dei flussi migratori e turistici, e l’interazione tra questi, nella ridefinizione dell’immaginario collettivo sull’Albania. L’intervista approfondisce le attuali politiche migratorie che prevedono il confinamento dei migranti e l’impatto simbolico e materiale di queste pratiche, inserendo il “modello Albania” nel più ampio contesto mediterraneo
L’Albania è attraversata da profonde trasformazioni che ne ridefiniscono la dimensione socio-economica, il ruolo geopolitico nel Mediterraneo e l’immaginario collettivo. Da una parte, il Paese si presenta come una meta turistica emergente, grazie alla valorizzazione economica delle sue coste e all’attrazione di investimenti infrastrutturali. Dall’altra, si colloca al centro di complesse dinamiche migratorie, assumendo una posizione chiave nei processi di esternalizzazione e delocalizzazione delle frontiere. Questa duplice identità, come frontiera e destinazione, genera tensioni e sfide a più livelli.
In questo contesto, l’opera di Francesco Vietti, antropologo delle migrazioni e autore del libro Hotel Albania (Carocci, 2012), offre uno sguardo privilegiato su queste dinamiche. Vietti, attraverso il suo percorso di ricerca, evidenzia come il turismo e le migrazioni siano fenomeni interconnessi che plasmano l’immaginario collettivo e la percezione internazionale del Paese, tanto internamente quanto all’esterno. Partendo dall’analisi dei flussi migratori e turistici nella prima decade del nuovo millennio, il libro descrive un’Albania che cambia volto rispetto al passato comunista e postcomunista. Le tendenze descritte da Vietti in Hotel Albania e nelle ricerche successive – allargate a molti altri contesti del Mediterraneo – consentono dunque di cogliere tutta le rilevanza delle novità più recenti – il confinamento dei migranti in strutture come quelle di Gjader e Shengjin –e di iscriverle in una prospettiva più ricca e complessa.
In un momento storico in cui l’Albania sembra acquisire una certa centralità nella gestione dei flussi migratori, le ricerche di Vietti sono un’opportunità per analizzare le dinamiche della mobilità forzata, del turismo e della loro interconnessione. Il caso albanese diventa così paradigmatico di fenomeni osservabili in altri contesti mediterranei, pur mantenendo caratteristiche specifiche che lo rendono un laboratorio privilegiato per cogliere i caratteri delle politiche migratorie europee e le potenziali linee di resistenza alla progressiva erosione dei diritti.
Nel tuo libro Hotel Albania hai esplorato le trasformazioni dell’Albania in un momento storico cruciale, analizzando il ruolo emergente del turismo e delle migrazioni, in particolare quelle di ritorno. Negli anni successivi, queste dinamiche si sono intensificate e complicate. I flussi turistici si sono moltiplicati e la costruzione di centri di confinamento dei migranti provenienti da Paesi considerati sicuri ha aggiunto un ulteriore livello di complessità. Come interpreti il confinamento dei migranti a Gjader e Shengjin in relazione ai fenomeni di mobilità che hai analizzato in Hotel Albania? Quali sono le implicazioni materiali e simboliche di queste pratiche?
Per me tutto questo fa parte di un percorso di ricerca iniziato in Albania e che poi si è esteso ad altri contesti del Mediterraneo. Le prime ricerche che ho fatto riguardavano le migrazioni transnazionali tra Moldavia e Italia, e recentemente ho rivisto situazioni simili legate alla mobilità forzata in Ucraina.
Il caso albanese è stato centrale nel mio percorso di ricerca tra il 2005 e il 2012, quando analizzavo i viaggi di ritorno delle seconde generazioni di italo-albanesi. Questi flussi erano legati alle vacanze estive, ma avevano un impatto economico importante: le rimesse e gli investimenti della diaspora contribuivano allo sviluppo delle infrastrutture turistiche lungo la costa, creando una circolarità tra mobilità migratoria e turistica.
Oggi, però, assistiamo a una dinamica nuova. Nel caso dei centri di Gjader e Shengjin, non solo ci troviamo di fronte a un caso di immobilità forzata, ma queste strutture si trovano in aree di attrazione turistica, il che crea tensioni tra due dimensioni. Da un lato, quella turistica, che punta a rendere invisibile la presenza dei migranti; dall’altro, quella politica, che utilizza questa presenza per rendere visibile il suo esercizio di controllo.
L’Italia sembra trattare l’Albania come una frontiera esterna, delegando al paese la gestione della mobilità indesiderata. Questo approccio non risolve i problemi della migrazione, ma li sposta, scaricandone il peso su paesi considerati periferici.
Nel tuo libro hai delineato un’archeologia del fenomeno turistico, analizzando sia i flussi che gli influssi culturali e politici che ne hanno guidato l’evoluzione. Se oggi dovessi aggiungere un nuovo capitolo, come descriveresti la fase attuale, caratterizzata dalla moltiplicazione dei flussi turistici e dall’evoluzione dell’immaginario collettivo sull’Albania?
Partirei dall’idea di come il turismo abbia assunto nuove forme, molto più diversificate e internazionalizzate rispetto agli anni Duemila, quando iniziai a osservare i ritorni stagionali della diaspora albanese.
In quegli anni c’era una forte componente emozionale legata al “ritorno a casa” per chi viveva in Italia o in Grecia: i migranti portavano investimenti economici, costruivano alberghi, case vacanze e contribuivano in modo tangibile alla narrazione di un’Albania che rinasceva dopo gli anni difficili del post-comunismo. Quello che vediamo oggi è più complesso.
Oggi, l’immaginario turistico dell’Albania è molto più globalizzato. Ci sono flussi di turisti provenienti da altri paesi europei, che cercano nuove mete economiche, meno battute rispetto alle destinazioni più note. Questo ha generato una pressione crescente e una evidente tensione tra sviluppo e sostenibilità.
In che modo l’attuale politica italiana dei trasferimenti coatti verso l’Albania può influenzare l’immaginario collettivo e la percezione internazionale del paese?
Questa politica rischia di avere un duplice effetto sull’immagine dell’Albania. Da una parte, l’Italia e l’Unione Europea presentano l’Albania come un partner affidabile, un esempio positivo di cooperazione transnazionale. Ma questo è il lato ufficiale della narrazione. Dall’altra parte, c’è un sottotesto più problematico.
Accettare il ruolo di “frontiera esterna” dell’Europa rafforza uno stereotipo che vede l’Albania come una zona cuscinetto, una periferia utile solo per contenere i problemi europei. Questo perpetua un immaginario coloniale: l’Albania viene dipinta come un paese subalterno, incapace di emanciparsi dalle dinamiche di potere che l’Europa occidentale impone.
Per la percezione internazionale, il rischio è che l’Albania venga associata più a queste politiche di confinamento che al suo potenziale culturale, turistico e sociale. È un’immagine riduttiva, che potrebbe ostacolare lo sviluppo di narrazioni più complesse.
Tuttavia, c’è anche un altro aspetto interessante: queste politiche mettono sotto i riflettori il sistema europeo di gestione delle migrazioni. Se i centri albanesi vengono visti come un’estensione dei centri di permanenza per il rimpatrio italiani, allora cresce la consapevolezza pubblica sulle condizioni disumane che spesso caratterizzano questi luoghi. È un paradosso: l’Albania potrebbe involontariamente contribuire a una maggiore critica delle politiche migratorie dell’Unione Europea.
Per il governo italiano, l’obiettivo sembra chiaro: confinare le persone migranti fuori dal territorio nazionale e dal discorso pubblico. Tuttavia, i risultati finora appaiono disastrosi: qual è, secondo te, la posta in gioco per il governo e per la società albanese?
Per il governo albanese, la posta in gioco è molto alta e non si limita alla dimensione economica. Accettare questa collaborazione con l’Italia significa rafforzare le relazioni diplomatiche e mostrare all’Unione Europea di essere un partner affidabile. In altre parole, è una questione di legittimazione internazionale.
Questo avviene a costo di sacrificare parte della sovranità nazionale e di accettare pressioni esterne che non sempre rispettano i bisogni e le sensibilità della società locale. Questo potrebbe generare tensioni interne, soprattutto se i cittadini percepiscono che il loro paese viene utilizzato come “laboratorio” per politiche che altrove non sarebbero accettabili.
Per la società albanese, invece, la posta in gioco riguarda i diritti e la dignità delle persone migranti, ma anche la capacità di resistere a queste pressioni e proporre alternative più giuste. La società civile albanese ha già dimostrato di essere molto attiva su diversi fronti e credo che continuerà a giocare un ruolo fondamentale nel monitorare e denunciare eventuali abusi.
Negli ultimi anni hai studiato il nesso tra migrazioni e flussi turistici in vari contesti del Mediterraneo, ricerche confluite nel recente volume “Unexpected Encounters. Migrants and Tourists in the Mediterranean” (Berghahn Books 2024). Ritieni che il “modello Albania” sia paradigmatico di tendenze più generali, oppure presenti caratteristiche uniche?
Il “modello Albania” è interessante perché riflette tendenze che possiamo osservare in molti altri contesti mediterranei, ma ha anche alcune peculiarità uniche.
Ad esempio, in luoghi come Lampedusa o le isole greche, vediamo una coesistenza spesso conflittuale tra turismo e migrazione: località turistiche che diventano anche punti di arrivo per i migranti, con tensioni evidenti tra questi due tipi di mobilità. L’Albania sta entrando in questa dinamica, ma con una differenza importante: il suo ruolo è più legato all’esternalizzazione delle politiche europee e questo crea una maggiore pressione da parte dell’UE.
Un aspetto peculiare del caso albanese è la partecipazione della diaspora e della società civile, che hanno dimostrato di essere molto attive e possono fare la differenza nel modellare un approccio più inclusivo e sostenibile. Questo rende il “modello Albania” un laboratorio interessante da osservare, sia per i rischi che presenta sia per le opportunità di innovazione che potrebbe offrire.
Con il romanzo Semuren (Castelvecchi, 2024) hai anticipato, in chiave distopica, l’apertura di campi per migranti in Albania, immaginandone un utilizzo diverso. Come è nata l’idea? E quale può essere, per te, il ruolo della dimensione narrativa nel racconto pubblico di fenomeni così complessi?
La narrativa ha un potere unico: può umanizzare storie e fenomeni che spesso vengono trattati in modo freddo o tecnico. Con Semuren, volevo ribaltare gli immaginari tradizionali, immaginando un’Italia che diventa paese di emigrazione e un’Albania che accoglie migranti italiani in fuga da un regime autoritario.
L’idea è nata da una riflessione sulla ciclicità della storia: oggi pensiamo all’Italia come paese di destinazione, ma non dobbiamo dimenticare che è stato un paese di emigrazione per decenni. Usare una chiave distopica mi ha permesso di creare uno scenario estremo, che però mette in luce le contraddizioni e le ipocrisie delle politiche migratorie attuali.
Credo che la narrativa possa giocare un ruolo cruciale nel sensibilizzare l’opinione pubblica, creando empatia e stimolando una riflessione più profonda su temi complessi come le migrazioni e le disuguaglianze globali.
Il ruolo dell’Albania nella gestione dei flussi migratori resterà episodico o potrebbe acquisire una centralità strutturale?
Credo che quanto l’Europa sta ora sperimentando con l’Albania sia destinato ad acquisire una centralità strutturale nel sistema europeo di gestione delle migrazioni. Questo è parte di una strategia più ampia di esternalizzazione dei confini, che investe non solo l’Albania ma anche altri paesi coinvolti dall’allargamento dell’UE, come nel caso della Moldavia, un paese che, come ho ricordato prima, seguo ormai da molti anni e che sta ora attraversando una fase particolarmente delicata della sua storia, ritrovandosi sul confine delle aree di influenza geopolitica dell’Europa e della Russia.
Questo percorso non è ovviamente privo di rischi. Accettare questo ruolo significa accettare anche una serie di compromessi politici, economici e sociali che potrebbero minare la sovranità e la stabilità interna.
Immagine di copertina: Marta D’Avanzo
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