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OPINIONI

Sotto la vernice: chi era il generale Baldissera

Chi era il generale Baldissera e a quali vicende della storia coloniale italiana è legato? Un breve riepilogo di una delle (tante) pagine rimosse dalla memoria storica nazionale

«Sperimentata inutile l’indulgenza era necessario mutar sistema; dimostrare il divario che passa tra la tolleranza e la debolezza. Era necessario incutere terrore per tener soggetti quei barbari». Come riporta Angelo Del Boca nel suo Gli italiani in Africa Orientale – dall’Unità alla marcia su Roma, così il generale Baldissera si giustificava a mezzo stampa dall’accusa di aver fatto trucidare indiscriminatamente circa 800 abissini, minimizzandone il numero a “otto o dieci”. Quello che sempre Del Boca indica come il più odioso scandalo della storia coloniale italiana era scoppiato grazie alle rivelazioni del tenente dei carabinieri Dario Liveraghi che, accusato insieme a un secondo funzionario coloniale, Eteocle Cagnassi, di aver mandato a morte un ricco mercante musulmano a scopo di lucro aveva rivelato in un memoriale inviato al quotidiano “il Secolo” di Milano i metodi della giustizia italiana in Eritrea. I quali comprendevano torture sistematiche, atroci sevizie per estorcere confessioni ai prigionieri anche fino alla loro morte, nessuna assistenza in caso di malattie, veri e propri eccidi di chi era sospettato di voler disertare.

Come conferma lo storico e giornalista Alberto Stramaccioni in Crimini di guerra: storia e memoria del caso italiano negli ultimi due decenni del XIX secolo «l’esercito italiano sviluppò una sistematica azione repressiva nell’Africa Orientale, affidandola ai diversi governatori militari. Vennero costruiti infatti ben sette campi di prigionia in Eritrea (Assab, Massaua, Asmara, Cheren, Adi-Ugri, Adi-Caieh e Nocra nelle isole Dahlak), ma quello di Nocra (attivo dal 1887 al 1941), diretto all’inizio da Baratieri, governatore militare e civile ed ex garibaldino, si segnalò per le particolari condizioni disumane in cui vennero tenuti molte centinaia di prigionieri».

 

Ognuna di queste prigioni conteneva tra i 500 e i 1500 detenuti, non pochi in considerazione del fatto che all’epoca la popolazione eritrea era composta di circa duecentomila persone.

 

La dimensione sistematica di questa modalità di governance delle colonie può farci quindi dire che l’azione del generale Baldissera non fu guidata da un individuale gusto sadico, ma era espressione razionale di come lo Stato italiano concepiva la conquista del Corno d’Africa e il rapporto con le popolazioni locali.
D’altronde Baldissera si trovò a sostituire Baratieri in una situazione difficilissima per i colonizzatori subito dopo la pesante sconfitta di Adua. E qui arriviamo a un altro classico elemento mistificatorio della narrazione coloniale italiana: spesso si fa riferimento a divisioni tribali e nazionali, come a giustificare l’intervento italiano e l’assenza di due chiare parti in conflitto.

In realtà come riporta il testo The Battle of Adwa: Reflections on Ethiopia’s historic victory against european colonialism a cura di Paulos Milkias e Getachew Metaferia le popolazioni locali erano compattamente schierate contro l’invasore italiano e ben felici della sconfitta impartita ad Adua. Come spesso accaduto nelle vicende coloniali fu proprio l’esercito italiano, anche sotto Baldissera, a fomentare divisioni interne rifacendosi al più classico dei divide et impera e all’ingaggio di bande locali assoldate. E proprio il timore che dall’Italia arrivasse l’ordine di scioglierle portò probabilmente all’insabbiamento degli eccidi.

 

“Battle of Adwa”, dettaglio, da wikimedia:commons.org

 

Lo scandalo che coinvolse il generale Baldissera, assieme ai suoi pari grado Cossato e Orero, ebbe portata talmente ampia da costringere il presidente del Consiglio Rudinì a costituire una commissione d’inchiesta che terminò i suoi lavori nel 1891 prosciogliendo il generale da tutte le accuse e facendo ricadere tutta la colpa sui gendarmi eritrei, le stesse vittime e la loro “indole selvaggia”.

 

Ma già all’epoca, riporta Del Boca in Italiani brava gente? Un mito duro a morire il giornalista Achille Bizzoni  definì il rapporto della suddetta Commissione «un documento incredibile, medioevale, che avrebbe dovuto essere sequestrato come apologia del delitto […] una smaccata difesa dell’assassino».

 

D’altronde la faccenda rischiava di macchiare pesantemente l’immagina coloniale italiana, a tal punto da far intervenire il re Umberto I in persona che, sempre come riporta Del Boca, oltre a voler incontrare direttamente i sette membri della Commissione alla vigilia della loro partenza per Massaua scriveva al Capo del governo il 19 luglio 1891: «Prima di tutto mi sta a cuore nell’interesse del Paese e dell’esercito di porre tutti i generali che ebbero a che fare con la Colonia Eritrea, da Saletta a Baldissera sino a Gandolfi e Driquet, all’infuori delle discussioni passionate. Se ci saranno stati errori si giudicheranno severamente, col criterio di gente d’onore verso onorati ufficiali, ma non si debbono abbandonare valorosi soldati che sono in grado di rendere ancora servigi alla Patria alle impressioni fugaci di chi procede con vedute e considerazioni quasi esclusivamente politiche», chiedendo esplicitamente che la relazione «debba essere e rimanere chiusa sotto suggello».

La cosa davvero incredibile è che questo invito del monarca dell’epoca sembra valere ancora oggi. Ancora oggi in Italia le responsabilità dell’esperienza coloniale si tengono sotto suggello, sono negate, relativizzate, distorte, espulse da qualsiasi possibilità di discorso pubblico. Non è previsto, ad esempio, in alcun modo che parte del programma scolastico riguardi gli studi postcoloniali. La questione non riguarda certo l’affermazione di una semplice verità storica. La domanda più impellente in realtà è con quale cognizione di causa i cittadini di oggi e di domani possano affrontare questioni complesse come i flussi migratori e le conseguenti politiche se non hanno idea delle loro origini, anche di quelle più recenti?
Nell’abbozzare una risposta viene il dubbio, per non dire la quasi certezza, che non si tratti di una distratta dimenticanza, ma di una deliberata scelta.

 

Se per farci tornare la memoria su questi terribili eventi serve un po’ di vernice su un busto di marmo forse il beneficio che ne avremo come cittadine e cittadini supera di gran lunga il danno ad un’opera di pietra.

 

Un’ultima postilla: negli ultimi due giorni, tra le polemiche suscitate dall’azione svolta al Pincio dalla Rete Restiamo Umani, ha spiccato il commento dell’unico discendente del generale Baldissera, che su Facebook ha commentato il fatto: «se in questo momento in tanti stanno googlando Antonio Baldissera e magari si fanno una cultura sugli orrori del colonialismo italiano in Etiopia ed Eritrea, e il prezzo da pagare è una secchiata di colore lavabile su un cazzo di busto, io ci sto. L’ultima volta in cui se ne era appena appena parlato, di una fase vergognosa della nostra storia era stato nel 2018, nel centenario della morte del generale. Va bene così, le cose da condannare sono ben altre».

Evidentemente c’è più consapevolezza storica in chi è indirettamente coinvolto sul piano personale rispetto a figure istituzionali quali la sindaca di Roma. Il che è ulteriore ragione di profondo rammarico.

 

Foto di copertina da Rete Restiamo Umani