approfondimenti
La tragedia del turismo (di qualità) urbano
Non dovremmo, date queste premesse, provare a capovolgere tutto? Al posto del turismo di qualità provare a desiderare, costruire, abitare delle città di qualità? E quindi vivibili?
Non sono d’oggi, non di ieri,
vivono sempre, nessuno sa quando comparvero né di dove
(Antigone, Sofocle)
Prologo
Nell’aprile 2018, un articolo di “The Telegraph” spiegava perché Overtourism sarebbe dovuta diventare la parola dell’anno. Identificato come un problema di portata globale, l’overtourism è stato definito come l’eccessiva crescita del numero di visitatori, causa della massificazione di aree in cui i residenti subiscono le conseguenze dei picchi turistici stagionali. Più in generale rappresenta la fonte di profondi cambiamenti all’accesso a strutture e servizi e di un progressivo deterioramento dello stile di vita locale.
Se a livello internazionale le criticità di tale fenomeno erano state messe in luce da studiosi del settore già da alcuni decenni, negli ultimi anni la questione ha attirato l’attenzione anche di entità quali l’Organizzazione Mondiale del Turismo, agenzia specializzata delle Nazioni Unite, che nel 2018 ha pubblicato un volume intitolato Overtourism’? – Understanding and Managing Urban Tourism Growth beyond Perceptions, Executive Summary, e la Commissione TRAN (Trasporto e Turismo) del Parlamento Europeo, che nello stesso anno ha commissionato lo studio Overtourism: impact and possible policy responses.
Sembrerebbe pertanto che la sfida attuale si riduca alla creazione di strategie che possano arginare il crescente malcontento sociale. Da anni si discute su come si possa migliorare e rendere più efficiente una destinazione turistica, ma poche volte il focus si è concentrato su politiche dirette al miglioramento della qualità di vita di chi risiede in tali luoghi e non per forza trae beneficio diretto dall’attività turistica.
Per nulla estranea a queste dinamiche, anche la città di Venezia ha visto un sempre maggiore utilizzo di un certo tipo di narrazione. Come fossero dei mantra, tanto l’amministrazione locale quanto i dibattiti cittadini, invocano la destagionalizzazione, la decongestione, la decentralizzazione, la diversificazione dei flussi che devono andare a braccetto con il tanto auspicato turismo di qualità (TDQ) in modo da poter arginare il chiassoso e ingombrante turismo di massa (TDM).
Coro
Ma che cos’è questo TDQ? Perché dovremmo incentivarlo? Siamo sicuri che ne trarremo enormi vantaggi nelle città e nei territori in cui viviamo?
Episodio I
TDQ vs Guggenheim
Definire chi siano i tanto agognati TDQ che da più parti (amministrazioni locali, istituzioni europee, economisti ed esperti di turismo sostenibile) si vorrebbe richiamare nelle strade dei centri storici attanagliati dal turismo di massa (TDM) si rivela operazione non facile. Ben consci che ogni città è caratterizzata da uno specifico sviluppo turistico, proveremo a decostruire tale narrazione analizzando alcuni dati del contesto lagunare veneto, eletto nelle analisi sulla turistificazione e, nei fatti, capitale del turismo di massa.
Ogni qual volta nei dibattiti pubblici si parla di TDQ vengono menzionate sale museali vuote, poco frequentate, mostre e collezioni ignorate, trascurate, chiese, isole minori nascoste, pezzi di città raramente presi in considerazione. Qualche esempio: il Museo di arte moderna e contemporanea di Ca’ Pesaro, da una parte, e dall’altra, a solo un chilometro di distanza, l’affollatissimo museo a cielo aperto che è piazza San Marco. Il silenzioso Museo del Settecento veneziano di Ca’ Rezzonico e l’ammasso di visitatori in coda davanti a Palazzo Ducale, tra gondole, piccioni e souvenir.
Ed ecco che il Turista di Qualità si presenta come un visitatore attento, intellettuale, interessato, consapevole di dove va e perché, che sceglie, seleziona, distingue. Silenzioso, contemplativo, quasi solitario. Discreto. Certo, un po’ snob. Quasi impercettibile. Che ama profondamente la città, la sceglie e la rispetta. E che, soprattutto, visita i musei.
La soluzione sembra a portata di mano: se da una parte la città è congestionata, sarebbe sufficiente mettere in campo una proposta diversificata, appunto di qualità.
Ma ecco l’eccezione: le sale frequentatissime della Fondazione Guggenheim di Venezia. In una zona «un po’ appartata rispetto ai circuiti turistici di massa», la casa che fu di Peggy attira ogni giorno non pochi visitatori. Le affluenze del Guggenheim dimostrano che il tanto agognato TDQ che riempie i musei c’è già! Nel 2017: si registrano 427.209 presenze, con una media giornaliera di 1.327 persone. Probabilmente l’arte contemporanea attira. I Turisti Di Qualità vanno al Guggenheim ma disdegnano Ca’ Rezzonico in una disputa intellettuale tra ‘700 e ‘900.
Il marchio Guggenheim è diventato un franchising culturale globale: le percentuali di presenza si rincorrono tra le sedi di New York, Venezia e Bilbao. Oltre all’attenta proposta culturale si aggiunge evidentemente un’efficace campagna di marketing e, a Venezia, il mito di Peggy e le tombe dei cagnolini in giardino…
La gente quindi al Guggenheim ci va. La proposta diversificata già esiste. Ma Venezia resta la capitale del TDM.
Coro
Ma il visitatore di mostre affollate è ancora un TDQ?
Episodio II
TDQ VS Mostre affollate
Guardiamo per un momento la situazione da una prospettiva più ampia. Anno 2017, musei, Italia. Oltre due milioni di visitatori (2.219.122 per l’esattezza) agli Uffizi; sempre a Firenze, poco più di un milione e mezzo per la Galleria dell’Accademia (1.623.690); se ci spostiamo a Torino, si registrano poco meno di un milione di presenze alla Venaria Reale (1.039.657) e sempre nel 2017 assistiamo alla segnalazione con tanto di premiazione e festeggiamenti del milionesimo visitatore del MUDEC – Museo delle Culture di Milano, spazio inaugurato soltanto due anni prima. E sono tutti dati (del Mibact relativi ai Musei in Italia) in crescita rispetto al 2016.
Le mostre si rivelano già grandi eventi di attrazione turistica. L’industria turistica sta infatti incentivando questo tipo di turismo da esposizione, culturale, “di qualità”, appunto: ne conteggia presenze, successi di pubblico, prevendite, proroghe e tutto esaurito.
I dati relativi alle mostre temporanee – sempre per l’anno 2017 – vedono in testa due eventi veneziani, Biennale Arte con 615.152 presenze, seguita da “Treasures from the Wreck of the Unbelievable” di Damien Hirst, che ha portato a Palazzo Grassi e a Punta della Dogana 360mila persone (9 aprile-3 dicembre); al terzo posto troviamo “Storie dell’impressionismo” (29 ottobre – 1 maggio), che ha richiamato al Museo di Santa Caterina di Treviso 330.474 visitatori (Dati Mibact relativi alle mostre temporanee per l’anno 2017).
Coro
I numeri ci sono: musei e mostre attirano. La gente per l’arte si muove. Ma questo turismo cosiddetto “di qualità”, culturalmente predisposto e così bramato, a cui tutti ambiscono, in che modo spazza via quell’altro, quello chiassoso, poco portato alla contemplazione?
In città over-turistificate come Venezia, Firenze ma anche Matera, Napoli, Palermo, è difficile immaginare come il visitatore di qualità, una volta arrivato a destinazione, possa d’incanto liberare piazza San Marco, decongestionare il Ponte Vecchio, svuotare Castel dell’Ovo e il Teatro Massimo… Difficile credere che il turista culturale possa dotarsi di una misteriosa capacità di allontanare tutti gli altri. Che possa sprigionare una forza centripeta di tal fatta in grado di spazzare via le masse, impedendo loro di partire.
Episodio III
TDQ VS TDM
Nel 1848, l’articolo Modern Tourist apparso nel “Blackwood’s Edinburgh Magazine”, definisce le ferrovie come «il crudele flagello» che ha ricoperto l’Europa di turisti, pacchi viventi che a malapena sanno riconoscere i nomi delle città in cui transitano. Se non bastasse, nel 1903, Shand, turista nostalgico dell’antico Grand Tour, pubblica a Londra un libretto intitolato Come si viaggiava nei bei tempi passati. Reminiscenze degli anni Sessanta, paragonate con le esperienze del presente, dove si legge: «Quarant’anni fa c’erano hotel gradevoli, non c’era la massa sgradevole… Allora i turisti erano una rarità, non c’era la plebe viaggiante a buon mercato di ogni giorno».
Il TDQ è necessariamente un po’ snob. Il TDQ, quello che piace, quello di cui tutti parlano non sarà alla fine un modo carino per definire il turismo di lusso? Il “Sole-24 ore” dell’agosto del 2018 pubblica un post del fondatore di Planethotel.com, che per professione assiste gli investitori del settore turistico alberghiero, il quale definisce il TDQ per la location esclusiva, la raffinatezza e riservatezza degli spazi, il comfort, la garanzia di sicurezza e privacy e «il distacco dalla massa dei turisti». Quello che facciamo ogni volta che tiriamo fuori questa storia del TDQ non è che un discorso inevitabilmente classista. Non tutti possono permettersi di viaggiare, anzi. Non devono, ché se viaggiamo tutti, alla fine roviniamo il piacere a quelli che spendono.
Coro
Quando si parla di turismo e di mete turistiche, la qualità è indirettamente proporzionale alla quantità. In una sorta di gara alla scoperta del meno noto, meno battuto, meno turistico1.
Episodio IV
TDQ VS Autenticità
La parola chiave è delocalizzare. Il TDQ si porta dietro oltre alla diversificazione, alla destagionalizzazione anche quello della delocalizzazione nel tentativo di garantire da una parte esperienze di vero autentico, dall’altra quella di spostare i turisti negli angoli più remoti della città. Per capire se questa possa essere una soluzione valida, tentiamo con un’esperienza sul campo. La signora che sta davanti a noi proprio di quella Venezia, nascosta e sconosciuta, ha potuto godere. Sta al telefono con una sua amica e si lamenta. A voce alta. Dice che l’isola di Torcello è davvero brutta. Non c’è niente. Giusto due bancarelle in croce. Una chiesa malmessa. E due bar dove mangiare. A questa signora, che non sappiamo se etichettare come una turista di bassa, media o alta qualità, più che Torcello, isola pressoché disabitata (conta 10 abitanti) nel bel mezzo della Laguna Nord a circa 40 minuti di vaporetto da Venezia, avrebbe dovuto optare piuttosto per Calle Larga XXII Marzo (adiacente a San Marco), con le sue boutique e le griffe di alta moda, previa veloce capatina al ponte dei Sospiri e via. Lei soddisfatta, e forse pure noi. Che se non avessero messo in testa a tutti di andare a Torcello, non avessero organizzato migliaia di tour delle isole della Laguna, forse non ci sarebbero nemmeno quelle due bancarelle di paccottiglie messe là probabilmente solo per accontentare quella signora che, insoddisfatta, si è ritrovata in un posto in cui non voleva andare.
Dobbiamo chiederci perché ci è andata. Chi ce l’ha portata. Come quando rientri dal supermercato e ti ritrovi con tre pacchi di girelle Motta e se non ci fosse stato il 3×2 tu quelle girelle non le avresti mai comprate che la cioccolata nemmeno poi ti piace così tanto. Ecco svelato l’arcano: Torcello è un prodotto. E viene venduto come tale. Ci mettono il collegamento, il vaporetto gran turismo, due bancarelle di souvenir superflui e piuttosto omologati e subito diventa “meta turistica”. Di quelle di qualità. Per quella Venezia autentica, vera, nascosta di cui prima.
Torcello ma, in effetti, l’intera città Venezia, così come Palermo, Malta, è diventata (costruita e pubblicizzata) come attrazione e bene di consumo.
Esodo
Qualità del turismo VS qualità dell’abitare
Per aiutarci a gestire l’overtourism, questione con cui bisognerà confrontarsi con sempre maggiore frequenza nel futuro prossimo, lo studio della Commissione TRAN pubblicato alla fine dell’anno scorso presenta una rassegna delle politiche messe in atto, o suggerite, fino ad oggi. Di 121 misure, la maggior parte vede come protagonista il miglioramento dell’offerta e dell’esperienza turistica, ma ben poche (una decina circa) fanno riferimento diretto ai residenti, al controllo o decrescita della presente monocultura che caratterizzata i centri urbani.
Non dovremmo, date queste premesse, provare a capovolgere tutto? Al posto del turismo di qualità provare a desiderare, costruire, abitare delle città di qualità? E quindi vivibili?
Perché le città over-turistificate non è tanto il turismo di massa che le soffoca, quanto quell’economia del profitto (grande e a tutti i costi) che quel turismo d’élite o di massa, ricco o meno ricco, spinge, e a dismisura. Quell’economia che acquista case e palazzi e ne fa hotel. Che gestisce catene di negozi e bar che fanno terra bruciata ai negozi di vicinato. Che finanzia il raddoppio dell’aeroporto, garantisce il passaggio delle navi da crociera, costruisce nuovi alberghi, compra aree verdi e le trasforma in resort, sponsorizza grandi eventi. La città è il prodotto finito di un complesso processo industriale che mette in campo grandi capitali finanziari, operazioni di marketing, pesanti infrastrutture, lavoro stagionale e precario. E allo stesso tempo la città stessa è il mezzo, lo strumento e la materia prima di quella produzione. Ne è la risorsa e il prodotto finale.
1 «Quando tutti vogliono una villetta in montagna non c’è più quella montagna che andavano a cercare: essa è diventata una periferia urbana… Nello stesso modo, per portare la gente a sciare è necessario industrializzare la montagna, ma la stessa industrializzazione scalda il clima e sposta sempre più in alto il livello delle nevicate, condannando quindi a termine lo sci. Il turismo distrugge se stesso, proprio come lo sci…». Marco D’Eramo, Il selfie del mondo, indagine sull’età del turismo, Feltrinelli 2017.