OPINIONI
Palestina: la storia capovolta
Tutto il discorso pubblico sulla “questione palestinese” è ormai appiattito sulle posizioni della destra sovranista. In attesa della nascita di un’opposizione sociale dentro Israele, soltanto i movimenti di solidarietà possono ricostruire il filo rosso che unisce resistenze e lotte nel mondo globalizzato, provando a tenere insieme la migliore tradizione dell’antifascismo e della lotta all’antisemitismo
La foto di gruppo al Portico d’Ottavia gela il sangue. Uno scatto che racchiude e misura con nitidezza l’orrore del discorso pubblico sulla “questione palestinese”, ridotta ormai, in contro luce, a legittimazione dell’apartheid israeliano, sostegno alla guerra permanente contro i civili, indifferenza davanti alla colonizzazione dello spazio urbano e sociale degli arabi, nei territori occupati come in Israele.
Una storia feroce, quella degli arabi di Palestina, che sembra ormai senza via d’uscita. Verrebbe da dire: il crudele destino per un “popolo sbagliato”, nel posto sbagliato, nel momento sbagliato, tradito e venduto dalla cattiva coscienza dei governi occidentali, anche da alcuni di coloro che, solo una manciata di anni prima dal 1948, facevano affari con gli inventori delle camere a gas.
Un popolo in diaspora, che non merita dignità nemmeno quando viene assassinato: i suoi morti sono senza nome, vittime collaterali di «operazioni militari» che «restano uccise», “terroristi” just in time anche quando hanno il volto di un bambino di 8 anni.
L’abbraccio di Salvini e soci sancisce un passaggio simbolico, il sigillo alla narrazione vincente, che viaggia senza opposizione nelle redazioni dei grandi giornali, nei tg, nella vulgata della (quasi) totalità della rappresentanza politica: Israele è minacciato nella sua esistenza.
Un capovolgimento di senso, della storia e dei fatti, addirittura della cronaca spicciola, che potrebbe trovare la sua adeguata colonna sonora nei video amatoriali che membri dell’esercito israeliano stanno pubblicando su Tik Tok in queste ore.
Soldati e soldatesse, belli e smart, che cantano e ballano in un momento di pausa poco prima, o poco dopo, di qualche raffica di mitra, demolizione di casa, arresto arbitrario di bambini. Una storia fatta di nemesi, che riguardano tutti, oppressi, oppressori e opportunisti.
La cultura ebraica moderna, che ha fondato la cultura politica dei rivoluzionari di ogni latitudine, che ha forgiato i modelli politici laici e democratici, che ha sbeffeggiato autoritarismi e teocrazie di ogni colore, che ha fatto del “divenire minoranza” la sua cifra ontologica di riscossa a disposizione degli ultimi della terra, viene rovesciata nel suo opposto.
Le scorie del suo simulacro avvelenato diventano le fondamenta di una teocrazia pop, in cui convivono – ad esempio – fondamentalismo religioso, apartheid e una scena culturale “all’avanguardia” (pensiamo solo ai festival musicali psy-trance, tra i più importanti del mondo).
Una sorta di “locura” allucinata, tra leggi segregazioniste, paesaggi psichedelici e posture “queer”” super laiciste.
Un governo a trazione militare che riduce la Cisgiordania a terra di reclutamento di schiavi, ne ruba acqua e terre, gentrifica città e villaggi, costruisce un sistema educativo fondato sul razzismo di stato, rende Gaza un campo di concentramento all’aperto. Come il Cile di Pinochet divenne la palestra dell’orrore della Scuola di Chicago, la Palestina si trasforma in un laboratorio nazi-neoliberale di sfruttamento senza confini, fisici e sociali, una sorta di estrattivismo assoluto criminale.
Non li vedete anche voi, al bar, mentre bevono un buon caffè sghignazzando sull’ultima barzelletta nazista? Quel candidato che viene dalla curva della squadra “a forma di svastica”, quel consigliere comunale che sulla sua pagina FB rimpiange Hitler, quel bravo padre di famiglia che brinda ogni volta che affonda un barcone.
Loro, quelli del complotto giudaico della crisi finanziaria, del naso pericolosamente adunco di Gad Lerner, delle volontarie delle Ong che meritano di essere stuprate dai negri che accolgono. E bene, il maggior rappresentante di questa “pancia del paese”, costruita a tavolino in trent’anni insieme agli eredi di Montanelli, alle fiamme tricolori, ai fratelli d’Italia, ai popoli padani, ai cpt di Napolitano, proprio lui viene incoronato al Portico d’Ottavia mentre lancia pogrom contro i migranti di seconda e terza generazione.
Tra l’approvazione o il silenzio di quella comunità ebraica romana che un tempo nutrì di idee e protagonisti le migliori storie sovversive di questo paese.
Il piatto è servito: la destra sovranista, anti immigrati, complottista, sciovinista, xenofoba – la pistola fumante del peggior capitalismo italiano – ha concluso il suo percorso storico, ha rimesso a posto gli orologi e si scopre spalla a spalla con il fascismo identitario filo-israeliano.
I miei primi ricordi del rapporto tra “sinistra” e questione palestinese affondano dalle parti di un nome che sapeva di filastrocca, Tel al-Zaatar. Poi arrivano altri nomi: Sabra e Chatila, Beirut, Tunisi, Olp, Al Fatha, Fronte popolare per la liberazione della Palestina, Fronte democratico per la liberazione della Palestina e così via.
Le immagini sono nette e sorprendenti: donne in prima fila con kefiah e ak47, poeti struggenti e scrittori rigorosi, artisti apolidi, delegati commossi ai congressi di partito. I palestinesi diventano la rivoluzione più compiuta senza vincere mai, sono laici, di sinistra, internazionalisti. Sono «le stesse melanzane cucinate in mille modi diversi in tutti gli angoli del mondo».
Sono quelli che rifiutano la “razza” e scindono territorio e religione, che hanno un membro arabo di religione ebraica nel consiglio dell’Olp, che democratizzano lo spazio delle “liberazioni nazionali”, che immaginano una Palestina storica dentro un modello sociale progressivo.
Negli anfratti della memoria personale e collettiva non c’è traccia di incertezza o opacità: sostenere la lotta dei Palestinesi significa onorare nel modo migliore la memoria dell’antifascismo e della lotta all’antisemitismo. Una linea coerente, forte come l’acciaio.
La prima Intifada del 1987, la scelta della disobbedienza di massa, il video rubato delle braccia spezzate dai soldati israeliani, l’escalation di Hamas fomentata e sostenuta da Tel Aviv, la seconda Intifada, gli accordi traditi di Oslo del 1993, i martiri e i kamikaze, la mobilitazione internazionale del 2002 che spezza l’assedio al compound di Arafat, la solidarietà che abbraccia la Palestina.
Ma anche quella Palestina che non c’è più, vittima dell’involuzione burocratica e repressiva dell’Autorità di governo, della sua corruzione, ridotta a rappresentanza senza stato, impotente davanti alle politiche annessioniste di Israele. E, accanto a questo, lo sviluppo di Hamas come risposta identitaria e modello di “welfare di guerra”, che avanza sulle ceneri della sinistra palestinese.
In questo scorcio di fine e nuovo secolo, la “sinistra” è già scomparsa dalle vecchie mappe; sono i movimenti sociali, alter globalisti o di nuova generazione che prendono il testimone, reinventano le forme della solidarietà e della complicità, condividono stili di vita e di lotta, provano a ricostruire il filo rosso che unisce le tante resistenze nel mondo globalizzato.
Alla ricerca della rivoluzione più difficile: la nascita di un’opposizione sociale dentro Israele, in grado di rompere l’unità nazionale, di incrinare il muro sciovinista, teocratico e neoliberale. Una “sinistra” che non trova più le proprie ragioni sociali a queste domande e nel desiderio di trasformazione, non poteva che finire in quell’abbraccio funesto.
Ancora una volta, la storia dei Palestinesi ci chiede il conto. Come in un gioco di specchi, tra Gerusalemme est e Tel Aviv, tra Jenin e Tulkarem, tra Gaza e Jaffa, vediamo il riflesso di quello che siamo e di quello che saremo. «Non è possibile che fuori non c’è più nessuno».
Foto di copertina da Flickr