ITALIA
La statua di Montanelli è solo il dito
Mentre stampa e partiti politici si lanciano in un attacco senza quartiere contro gli imbrattatori della statua di Indro Montanelli a Milano, in pochi ne approfittano per aprire una discussione seria su razzismo, colonialismo e sessismo
È bastato qualche barattolo di vernice rossa su un pezzo di bronzo dorato per ricordare a milioni di giovani quanto è ridicolo il paese in cui viviamo. «Montanelli, la rivendicazione del raid», titola questa mattina il “Corriere della sera”. Sotto il pezzo di cronaca c’è il commento di Pierluigi Battista che se la prende con gli studenti autori del gesto: «fanatici e intolleranti», «iconoclasti», «integralisti ideologici». Per concludere che: «si preferisce accanirsi contro i simboli del passato e mostrarsi intolleranti con la memoria di un uomo bersagliato dalle pallottole dei brigatisti». Il richiamo non poteva mancare! Del resto, informa il giornale di via Solferino, le indagini «sono coordinate dall’Antiterrorismo guidato da Alberto Nobili».
Ci sarebbe da ridere se la situazione non fosse serissima. Non tanto per quello che scrive il quotidiano, che da giorni porta avanti una campagna di vittimizzazione del giovane Indro, né per l’azione della Procura, che alla fine ha potuto aprire soltanto un’indagine per «imbrattamento». È l’estensione del ridicolo che colpisce.
«L’oltraggio alla statua di Indro Montanelli, imbrattata con vernice rossa, è un segnale inquietante della deriva di odio e intolleranza che rischia di sporcare anche le più nobili intenzioni. Montanelli fu gambizzato nel 1977 dalle Brigate Rosse perché considerato un nemico, secondo quella cultura dell’odio e della violenza su cui crebbe e si fortificò il terrorismo, di destra e di sinistra, nel nostro Paese», il capogruppo Pd in commissione Giustizia alla Camera Alfredo Bazoli.
«Ignorare la storia e riscrivere le sentenze, è il nuovo passatempo degli estremisti. L’imbrattatura della statua dedicata a Indro Montanelli non riuscirà certo a cambiare la memoria collettiva sul valore professionale del “toscanaccio”», il capogruppo Pd a Palazzo Madama Andrea Marcucci.
«Un gesto vile che condanno, come tutte le azioni compiute nella notte e nell’anonimato, e che riflette una natura squadrista», la segretaria del Pd Milano Metropolitana Silvia Roggiani.
«Non è difficile: democratico è chi manifesta il proprio pensiero con coraggio e rispetto, a fronte alta; il vandalo è propriamente, e tecnicamente, uno squadrista», l’assessore alla Cultura del Comune Filippo Del Corno (Sinistra per Milano).
«L’imbrattamento della statua a Indro Montanelli un atto odioso. La battaglia contro le discriminazioni e il razzismo non la si fa abbattendo statue o imbrattando monumenti», il presidente dell’Anpi milanese Roberto Cenati.
Quando a febbraio 2018 Luca Traini provò a fare una strage, dopo i distinguo di circostanza, i leader della destra furono molto meno netti nelle condanne e nessuno agitò i fantasmi dello stragismo nero, che a differenza delle Brigate Rosse è una realtà viva, vegeta e globale. Salvini affermò: «È chiaro ed evidente che un’immigrazione fuori controllo, un’invasione come quella organizzata, voluta e finanziata in questi anni, porta allo scontro sociale». E Meloni la buttò sull’Italia «in piena emergenza sicurezza» a causa delle politiche di centrosinistra. Traini aveva fatto un tiro al bersaglio con una pistola vera su dei neri vivi, ma anche grazie alle prese di parola dei leader di Lega e FdI la sua furia omicida fece comunque discutere dei temi cari alla destra.
Al contrario, la vernice sulla statua invece di far parlare di razzismo, colonialismo e sessismo produce un effetto opposto: colpevolizzare e criminalizzare qualsiasi azione conflittuale. Anche simbolica. Anche sulla testa di bronzo di una statua.
Soprattutto grazie del cosiddetto “centro-sinistra”. La dismissione e la smobilitazione del conflitto su tutti i livelli è il vero compito che queste “forze” stanno giocando negli ultimi anni. Pedine completamente subalterne ai discorsi più reazionari. Salvo poi lamentarsi, ma solo dai banchi dell’opposizione, del fascismo che avanza. Qualcosa di simile accade anche sul piano sindacale: mentre il presidente di Confidustria Bonomi ringhia e morde per difendere la sua classe, i confederali rilasciano interviste e chiedono sommessamente la cogestione delle aziende.
GUARDATE LA LUNA
Intorno all’azione di ieri si sono sollevate pochissime voci fuori. «Ma se anziché discutere sul simbolo in sé, su Montanelli in sé, ci si concentrasse su almeno uno dei temi evocati? – ha scritto su Facebook lo scrittore e direttore del Salone del libro di Torino Nicola Lagioia – L’Italia del 2020 è un paese che rispetta le donne? In Italia non c’è mai stato un Presidente della Repubblica donna, un Presidente del Consiglio donna, il sistema di potere dei partiti fa sì che non ci siano donne (la sinistra sta persino messa peggio che la destra, perdonate la semplificazione) che possano in questo momento realisticamente ambire a governare il paese. Con l’esclusione di Norma Rangeri, del “manifesto”, credo non esistano donne che dirigono quotidiani nazionali. Guardate i rettori nelle università. La lista delle disparità è lunghissima. Parlo del sistema di potere (politica, cultura, giornalismo) perché è rappresentativo anche del resto. Possiamo ammettere che in Italia abbiamo un problema serio, adesso, nel 2020? Se non si capisce che parte di quella rabbia deriva da questa situazione secondo me si è capito poco della questione».
«Questa storia che ciclicamente esce fuori sarebbe importante che non si limitasse a un dibattito statua sì statua no, ma che si allargasse e diventasse una presa di coscienza su cosa è stato il dominio sui corpi in colonia e l’alleanza tra patriarcati diversi in colonia […] – aveva scritto nei giorni scorsi Igiaba Scego sul suo profilo Facebook – Il punto è che gli stereotipi coloniali e patriarcali colpiscono i corpi anche ora nel presente. È quello il punto di tutto. I corpi di oggi sono ancora letti con le lenti di ieri, lenti inferiorizzanti. E questo porta le persone a soffrire oggi, a non essere prese sul serio, a subire molestie, discriminazioni sul posto di lavoro».
Altro che vandalismo o squadrismo (contro un pezzo di bronzo). Il sanzionamento colorato della statua di Montanelli è una precisa azione politica che si inserisce dentro i movimenti globali del nostro tempo e solleva questioni specifiche sul presente che viviamo.
Da un lato, dà seguito alla prima azione simbolica contro la statua, realizzata dal movimento femminista Non Una Di Meno a marzo 2019, e richiama esplicitamente una pratica di conflitto sull’immaginario e sulla significazione degli spazi pubblici esplosa dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna. Dall’altro parla di due questioni quanto mai attuali: la violenza contro le donne e le vecchie e nuove forme di colonialismo e razzismo. Non c’è nessun attacco alla libertà di stampa o di opinione nella protesta. E questo lo sanno tutti.
IL POVERO INDRO
La campagna di difesa della statua dalla proposta di rimozione avanzata dai “Sentinelli di Milano” è stata portata avanti dal “Corriere” e da molti giornalisti bianchi uomini eterosessuali che di Montanelli si sentono orfani. Due gli argomenti principali per sminuire il fatto, accertato e rivendicato, che il giornalista ha comprato e stuprato una ragazzina di 12 anni. Primo: il contesto spazio-temporale. Cioè: in Africa e a quel tempo (gli anni Trenta del Novecento) queste cose si potevano fare. O addirittura, come ha scritto Beppe Severgnini, erano una forma di rispetto per la cultura locale: «Appena arrivato in Africa Montanelli aveva accettato di prendere come compagna un’adolescente abissina, secondo la tradizione locale. La ragazza si chiamava Destà» (“Corriere della Sera”, 11 giugno 2020). Secondo: il gesto isolato. Cioè: tutti sbagliano e se si dovesse guardare alle esistenze umane nel loro complesso nessuna sarebbe immacolata, non ci sarebbero quindi statue. Tutto vero, sebbene in tanti possano tranquillamente confermare che l’acquisto e lo stupro di una bambina di 12 anni non è errore comune ai più.
In ogni caso, la vera operazione di riscrittura del passato non è quella di chi ha colorato la statua, ma di chi prova a tutti i costi a rendere potabile al sentire comune odierno l’acquisto e l’utilizzo sessuale di una bambina, di una minorenne.
La miglior risposta alle argomentazioni degli epigoni viene direttamente dalle parole del «grande maestro». Non quelle dette e scritte mentre era ancora «inebriato dall’avventura etiopica, un po’ perché era un’avventura e un po’ perché, come tutti i giovani dell’epoca, avevo nel sangue la Patria, l’Onore e il lavaggio della cosiddetta “onta di Adua”» (“Corriere della sera”, 12 febbraio 2000), ma le altre, quelle pronunciate in tv e impresse sui giornali molti anni dopo. Al 1969, quando il movimento femminista era già molto attivo e stava per essere approvata la legge sul divorzio, risale il botta e risposta televisivo con la scrittrice Elvira Banotti in cui Montanelli afferma con assoluta serenità che «aveva regolarmente comprato dal padre la bambina» e che «in Europa sarebbe stata violenza ma in Africa no».
Del febbraio 2000 è invece la già citata risposta a una lettrice nella rubrica “La stanza di Montanelli” sul “Corriere”. Altri stralci significativi:
«Si trattava di trovare una compagna intatta per ragioni sanitarie (in quei Paesi tropicali la sifilide era, e credo che ancora sia, largamente diffusa) e di stabilirne col padre il pezzo. Dopo tre giorni di contrattazioni a tutto campo tornò con la ragazza e un contratto redatto dal capo-paese in amarico, che non era un contratto di matrimonio ma – come oggi si direbbe – una specie di «leasing», cioè un uso a termine. Prezzo 350 lire (la richiesta era partita da 500), più l’acquisto di un «tucul», cioè una capanna di fango e paglia del costo di 180 lire».
«Faticai molto a superare il suo odore [della ragazza, ndr], dovuto al sego di capra di cui erano intrisi i suoi capelli, e ancora di più a stabilire un rapporto sessuale perché era fin dalla nascita infibulata: il che, oltre a opporre ai miei desideri una barriera pressoché insormontabile (ci volle, per demolirla, il brutale intervento dela madre), la rendeva del tutto insensibile».
Queste parole sono state scritte un anno prima della morte del giornalista e sei prima della costruzione della statua. La vera domanda che bisognerebbe farsi, allora, non è perché vi è stata versata sopra della vernice rosa prima e rossa poi, ma perché qualcuno ha pensato di mettere il pezzo di bronzo in mezzo a quei giardini. A quale operazione di revisionismo storico è funzionale?