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La Società della Performance: della vita come prodotto
Il libro di Maura Gancitano e Andrea Colamedici “La società della performance: come uscire dalla caverna” (edizioni Tlön) affronta la questione della performance in quanto dispositivo essenziale di riproduzione della società neoliberale, individuando anche un modo per uscirne
Cosa accade nel momento in cui svanisce la distanza fra il palco e la platea? Cosa accade quando lo spettatore cessa di assistere allo spettacolo e ne diventa parte integrante? Da questa domanda nasce uno dei grandi temi della contemporaneità: come si vive nel momento in cui la vita, i corpi, i desideri divengono fonte inesauribile di produzione, fabbriche di rappresentazioni messe a loro volta sul mercato? Il tanto auspicato superamento di molte barriere fisiche e temporali permesso dalle moderne tecnologie ICT ha contribuito a strutturare una società votata alla produzione performante, che se da un lato avanza senza sosta verso un futuro tanto grandioso quanto incerto, dall’altro non riesce a liberarsi delle scorie tossiche che questo processo produce inevitabilmente. Nonostante gli enormi progressi a livello tecnologico, donne, uomini e macchine formano ancora un unico ingranaggio all’interno di un processo distruttivo e predatorio che trae energia dalla relazione vampirica che contribuisce a stabilire fra le varie parti. Da queste e da tante altre domande prende vita l’ultimo libro di Maura Gancitano e Andrea Colamedici, La società della Performance, appena uscito per Edizioni Tlön; una riflessione necessaria, condotta sui corpi e sulle soggettività che ogni giorno girano a vuoto nell’ingranaggio della modernità.
Partendo da autori di riferimento come Guy Debord e Byung Chul-Han il libro si apre con l’individuazione e la descrizione di quella che gli autori indicano come figura nuova in grado al tempo stesso di costruire e far girare l’ingranaggio: la figura del performer. Proseguendo in un certo modo il ragionamento proposto da Debord a fine anni 60’, il performer sarebbe in questo senso la figura che emerge nel momento in cui il passaggio alla società dello spettacolo si è definitivamente concluso; in un mondo spettacolarizzato la differenza fra produttore consumatore è ormai un ricordo, la necessità del sistema capitalistico di fagocitare ogni esteriorità pur di continuare a funzionare a pieno ritmo, fa sì che l’orizzonte di produzione del valore diventi la nuda vita dei corpi, con i suoi affetti, le sue emozioni e i suoi desideri. È in questo contesto che la figura ormai vecchia del prosumer lascia spazio a quella radicalmente nuova del performer: il performer è colui che ha interiorizzato così a fondo il meccanismo da divenire a sua volta non solo produttore di valore e contenuti, ma da divenire il famigerato imprenditore di sé stesso. La logica tradizionale e patriarcale del self made man incontra in questo punto quella neoliberale della vita come impresa. È in questo punto esatto che avviene il passaggio messo in chiaro da Byong Chul Han ripreso da Colamedici e Gancitano, il momento in cui si passa dalla soggettualità alla progettualità, da soggetto a progetto: «Ogni essere umano che vive in una società tecnologicamente avanzata, che accesso al web e ha un profilo su un social network è automaticamente un brand, cioè un marchio, un’attività, un progetto che dunque va promosso perché rimanga in vita. Se non sei online e non condividi ogni aspetto della tua esistenza – anche il più insignificante – non esisti, il tuo progetto muore, e dunque muori anche tu».
Questa cura di sé intesa come vuota progettualità, spiegano gli autori, ha un aspetto ambivalente: da un lato è perfettamente funzionale al sistema che ruota intorno all’economia contemporanea, la performance a questo proposito è un medium perfetto «è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire digitale, inconsistente, olografico, e dunque infinitamente replicabile con il minimo sforzo», dall’altro è quella forza che se esercitata in maniera collettiva è in grado di mantenere gli individui in un perenne stato di ansia da prestazione, facilitandone il controllo a livello sociale. La performance eccellente di ieri non pone al riparo dal fallimento di oggi. Una singola performance sbagliata e tutto il sistema, tutto il proprio progetto di vita rischia di collassare. La società della performance incanala la forza desiderante in un progetto, che per quanto fluido e variabile, raggiunge comunque il suo scopo ovvero l’espulsione di ogni esternalità che non sia immediatamente performativa e quindi creatrice di valore monetizzabile.
«La performance è in questo senso il prodotto per eccellenza, perché replicabile all’infinito con il minimo sforzo. Metti online un video e questo continuerà a produrre visibilità, e dunque ad essere monetizzabile, senza che tu debba fare altro. È la base dell’economia contemporanea, e il modello è entrato così tanto nel nostro modo di pensare che crediamo sia ovvio, e identifichiamo il prodotto con la nostra vita».
La vita come prodotto è la prima condizione necessaria alla trasformazione da spettatore a performer. Il mercato del lavoro fornisce in quest’ottica tutto il corollario simbolico necessario: da un lato la costante esaltazione di ritmi, figure professionali e gerarchie lette unicamente attraverso la lente della monetizzazione, della convertibilità del ranking in valore; dall’altra un odio diffuso, accusatorio e colpevolizzante indirizzato verso chi ha la colpa di esistere al di fuori di questo rigido schema di mercato. Nell’eterno presente di questa situazione la vita diviene, secondo Gancitano e Colamendici, precaria.La precarietà costringe al movimento senza pausa, l’idea di performance necessaria spinge gli individui in una spirale di iper-produzione ed iper-attività alienante; nel momento in cui ci si ferma, si sente il peso a volte devastante di una società creata per non fermarsi mai, ansia, depressione e solitudine, in tre parole i mali del ventesimo secolo.
Nonostante tutto, la via per uscire da questo meccanismo esiste, e passa proprio da quell’esternalità, da quello scarto ineliminabile rispetto alla dimensione schizofrenica della performatività: in un sistema dove la polarizzazione è lo standard, dove il rafforzamento del feedback crea echo chambers piene di odio e risentimento, l’uscita dalla caverna passa dall’educazione sentimentale, da quella forma radicalmente altra del prendersi cura, non solo di sé stessi ma anche degli altri. In una parola comunità. Ripartire dai corpi, dalle soggettività, vuol dire innanzi tutto invertire la tendenza di un processo che vorrebbe ogni identità isolata e incapace di comunicare con le altre, vuol dire riscoprire l’unità delle lotte e degli orizzonti in cui queste lotte si inscrivono. Vuol dire ripartire dai quartieri, dalle periferie e da tutti quei luoghi dove gli ultimi sono stati lasciati indietro, per affermare con chiarezza che la salvezza è una pratica quotidiana, ed è possibile solo se la si esercita insieme.