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La “rivoluzione” di Immanuel Wallerstein

Con la teoria del “sistema-mondo”, il sociologo statunitense scomparso il 31 agosto scorso a New York, ha trasformato radicalmente la nostra concezione del capitalismo, della storia e della lotta di classe.

Il 31 agosto si è spento a New York Immanuel Maurice Wallerstein, importantissimo sociologo noto a livello mondiale soprattutto per i suoi studi determinanti per la costituzione e lo sviluppo della prospettiva analitica del sistema-mondo. Nella metropoli statunitense egli vi era nato nel 1930, e vi si era formato, prima studiando – il bachelor (1951), il master (1954) e il dottorato di ricerca (1959) – e poi insegnando (fino al 1971) alla Columbia University. La formazione di Wallerstein fu nutrita dalla stimolante presenza di intellettuali provenienti da tutto il mondo – Karl Polanyi e Herbert Marcuse, per citarne alcuni –, ma furono le lotte studentesche a segnarne il percorso. Attraversata, fin dalla fine degli anni Cinquanta, dall’effervescenza collettiva che si respirava al Greenwhich Village e dalle proteste contro il maccartismo e dall’onda delle battaglie per i diritti civili, la Columbia University divenne campo della rivolta che scoppiò nella primavera del 1968, a pochi giorni dall’assassinio di Martin Luther King. L’opposizione alla guerra in Vietnam e la costituzione di un ampio fronte antirazzista, che vedeva dalla stessa parte studenti e abitanti di Harlem, divenne momento di riflessione della condizione studentesca e del più ampio ruolo giocato dall’istituzione universitaria nella riproduzione dei rapporti di potere nella società statunitense e su scala mondiale. La partecipazione diretta di Wallerstein alla rivolta fu determinante per la sua posizione di docente di “sinistra” della Columbia, che lasciò nel 1971 per trasferirsi alla McGill University e poi a Binghamton nel 1976.

Le esperienze parigina e africana furono altrettanto determinanti. Il suo iniziale interesse scientifico verso l’India da poco indipendente – e soprattutto per la lotta non violenta di Gandhi contro il dominio britannico e per il pensiero di Nehru –, grazie alla frequentazione di giovani studenti internazionali, prima a New York e poi a Dakar, fu riorientato verso i movimenti di indipendenza nazionale: come riconobbe nella sua autobiografia, fu così che decise di mettere innanzitutto l’Africa al centro della sua riflessione intellettuale e del suo “impegno di solidarietà”.

La preparazione della tesi di dottorato lo portò sul campo in Africa Occidentale e il suo nuovo interesse lo fece approdare a Parigi, per approfondire lo studio del colonialismo: fu Balandier, scrive Goldfrank (2000), a insegnargli che l’unità di analisi per capire la trasformazione sociale non era la tribù, ma la colonia. In Francia, Wallerstein conoscerà il pensiero di Braudel e la produzione teorica della scuola degli Annales. Nel 1960 incontrerà Frantz Fanon e in seguito condividerà il “passaggio africano” anche con Samir Amin e Giovanni Arrighi.

Se Braudel fu punto di svolta per definire il sistema-mondo come unità di analisi, fu il dibattito latino-americano a offrire a Wallerstein le categorie analitiche centrali per teorizzare le dinamiche di funzionamento e trasformazione del capitalismo o, nei termini di Wallerstein, l’economia-mondo moderna. La rottura epistemica di quel filone di pensiero e di militanza politica che costituirà la scuola della dipendenza aveva efficacemente sfidato e reso inadeguate le spiegazioni endogene della situazione di “arretratezza” del Terzo Mondo, dimostrando come la “dipendenza”– termine adottato a fronte del concetto di imperialismo – si inscrivesse nel rapporto asimmetrico fra centro e periferia nel processo di accumulazione su scala mondiale e che il “sottosviluppo” e la “tradizione”, lungi dall’essere uno stadio antecedente la modernità, era il risultato di quella stessa modernità verso la quale i paesi periferici erano destinati ad arrivare.

Nel contesto di questa effervescenza intellettuale e politica venne forgiata quella che molti, sin dall’inizio, salutarono come la “rivoluzione paradigmatica” di Wallerstein. Molte delle categorie e punti di vista mutuati dal dibattito internazionale vennero rielaborati alla luce di nuovi concetti, e collocati all’interno di una diversa architettura teorica.

Un contributo che crediamo sia anche una lezione profondamente politica. Introducendo il sistema-mondo come unità di analisi, Wallerstein ha costretto le scienze sociali a superare il “nazionalismo metodologico”, ossia l’idea che studiare la società e l’economia significhi ridurre il proprio campo di analisi alla nazione o la politica allo Stato. Allargare il punto di vista ha significato definire una visione teorica capace di comprendere il capitalismo alla luce dei suoi meccanismi globali di accumulazione e riproduzione: le commodity chains, la divisione mondiale del lavoro, il sistema interstatale, le differenze culturali che contribuiscono a definire la pluralità del sistema.

Ciò ha aperto una prospettiva completamente diversa nella lettura della storia mondiale del capitalismo, della nostra contemporaneità e del futuro possibile. La modernità, che nelle narrazioni ideologiche dominanti è pensata come fenomeno scaturito da una supposta superiorità dell’Europa, è stata fortemente nutrita da quelle aree del mondo a un certo punto etichettate come Terzo Mondo. Ciò significa che queste aree non possono essere pensate come anacronismo del presente, per citare il paradosso evidenziato da Dipesh Chakrabarty (2004), ma elemento costitutivo della moderna Europa, dunque appartenenza, condivisione e produzione collettiva del medesimo mondo (Gunder Frank 1998).

L’affermazione secondo la quale il sistema-mondo moderno va studiato a partire dai processi storicamente determinati di controllo sulla produzione, l’appropriazione e l’utilizzazione della ricchezza sociale, ha spinto a collocare su scala mondiale l’ineguaglianza strutturale che muove il capitalismo. E l’individuazione, al medesimo livello, delle forme storiche del conflitto capitale-lavoro. Ha permesso, inoltre, di delineare le traiettorie del capitalismo portando alla luce la funzione storica che l’agricoltura ha giocato nell’industrializzazione e nella divisione internazionale del lavoro, ruolo troppo spesso assunto come secondario rispetto all’industria, ritenuta invece luogo della dominanza concettuale e politica del movimento operaio – a sua volta interpretato, da alcune ortodossie, quale il soggetto pressoché esclusivo della trasformazione rivoluzionaria. Un compito difficile: dialogare con l’analisi tradizionale delle classi, mettendo però a tema la complessa eterogeneità empirica delle forme capitalistiche.

L’idea della coesistenza, nella storia dell’umanità, di tre differenti sistemi-storici (mini-sistemi, imperi-mondo, economie-mondo), ciascuno definito da una propria complessità sociale e una specifica modalità di riproduzione, ha permesso di superare l’evoluzionismo e la teleologia di una Storia universale destinata, di necessità, a compiersi nel capitalismo nella forma assunta dall’Occidente. Lungi dall’essere destinati a quella “Fine della storia” teorizzata da Fukuyama, il destino non è il ‘pre’ del capitalismo, ma la possibilità di aprirsi al ‘non’.

Infine, assumendo che il moderno sistema-mondo è un sistema storico, che come tale ha un inizio e avrà una fine, Wallerstein ha da subito posto il problema di individuare le forze sociali che ne avrebbero decretato la dissoluzione: i movimenti antisistemici. Aver posto la questione dell’indagine del conflitto sociale al livello del sistema-mondo ha avuto, come implicazione, quella di rileggere i movimenti sociali dell’Ottocento e del Novecento nelle loro articolazioni internazionali e nella loro capacità, al di là delle forme specifiche locali o nazionali, di produrre trasformazioni epocali su scala mondiale; ha permesso, soprattutto, di cogliere, politicamente il ruolo che battaglie apparentemente locali possono svolgere nell’antagonismo sistemico.

Ancora più importante è la lezione sulla “scienza” e sulla produzione di conoscenza come lavoro collettivo che Wallerstein ci ha lasciato, lezione che sembra particolarmente rilevante in un momento storico nel quale l’attuale logica neoliberista di produzione scientifica ci restituisce la falsa immagine del sapere – e delle molteplici forme di vantaggio che ne derivano – come impresa di singoli individui e quindi come merce indistinta privatamente appropriabile e patentabile sotto il “diritto” di proprietà intellettuale.

L’impianto analitico di Wallerstein, invece, seppur frutto di costruzione originale, si è continuamente nutrito e ridefinito nel riconoscimento del pensiero altrui e nell’interazione costante con altri studiosi, primi fra tutti Terence Hopkins e Fernand Braudel, più tardi Ilya Prigogine. Abbiamo già detto della teoria latino-americana, dalla quale Wallerstein mutua una serie di concetti fondamentali per il suo schema teorico: “periferia” (Prebish e Singer), “dipendenza” (Dos Santos), “scambio ineguale” (Emmanuel), “catena metropoli-satellite” (Frank), “accumulazione su scala mondiale” (Amin). Importante è anche l’apporto di Janet Abu-Lughod nella rilettura del rapporto storico fra Occidente e Oriente e la dimostrazione che l’Europa riuscì ad assumere solo molto tardi una posizione preminente nell’economia-mondo e solo superando un’iniziale posizione di marginalità. Notevole è anche la fase caratterizzata dallo scambio con Giovanni Arrighi, che segna un processo di innovazione categoriale di quella che ormai era diventata una “scuola”: la rilettura del capitalismo come modo di produzione; l’idea di “piani di operatività” del capitale nella divisione “assiale” del lavoro; il superamento dell’imperialismo per come concepito nel passaggio dall’Ottocento al Novecento, a favore della categoria di egemonia nella lettura del sistema interstatale; infine, la teoria della lotta di classe come motore dello sviluppo del sistema, nella prefigurazione di una possibile rottura del capitalismo come sistema storico. E l’apporto, a questa riflessione, di Beverly Silver sulle forme differenti assunte dalla lotta di classe su scala mondiale.

Questa capacità di Wallerstein di farsi attraversare dal pensiero di studiosi e allievi più o meno illustri che negli anni sono approdati e hanno dato nuova linfa alla “sua” scuola, problematizzando elementi del suo schema analitico, e la necessità di interagire costantemente e tener conto delle critiche più o meno feroci sollevate nel dibattito internazionale, ha sempre rappresentato il nucleo dinamico del suo itinerario intellettuale. La portata di questa capacità non può essere compresa se non a partire dall’originalità del suo pensiero, ma soprattutto da quella che Wallerstein considerava una necessaria posizione critica della scienza: l’urgenza di individuare, sul piano teorico e politico assieme, i punti di rottura del suo “sistema-mondo moderno”, che sembrava invece riassorbire le crisi, lo portano verso la scienza della complessità di Ilya Prigogine, la messa a tema della struttura della conoscenza al livello sistemico e degli assunti epistemici delle scienze sociali. Lo portano, inoltre, a un rapporto sempre intenso e diretto con quel “movimento dei movimenti” che rappresentava l’incarnazione dell’antagonismo sistemico.

L’opportunità di riflettere più approfonditamente sulla struttura della conoscenza arriva negli anni Novanta con i lavori della Commissione Gulbenkian per la ristrutturazione delle scienze sociali, presieduta da Wallerstein e composta da studiosi provenienti da molteplici discipline. L’intento è quello di confrontarsi con le nuove tendenze epistemologiche della teoria della complessità – ma non secondario nel dibattito è il ruolo dei cultural studies e della critica postcoloniale – ricostruendo lo sviluppo storico delle scienze sociali sia rispetto alla divisione disciplinare interna, sia rispetto alla separazione con le scienze naturali.

Nella sintesi di Wallerstein si tratta di “disapprendere” le scienze sociali e di “aprirle” alla multidisciplinarietà, mettendone a tema la storicità. E non solo per superarne la crisi imminente. L’organizzazione capitalistica dei saperi accademici in recinti disciplinari ha spezzato la totalità della vita sociale e umana in sfere di conoscenza reificate e reificanti, decretando la superiorità della cultura scientifica su quella umanistica in virtù di una presunta oggettività nell’affermazione legittima di una verità che, in quanto oggettivamente dimostrabile, non può che darsi come universale. Il punto è, ci insegna Wallerstein, che l’universalizzazione ideologica di quel sapere, fortemente imbevuto di eurocentrismo, ha funzionato come legittimazione e riproduzione dei rapporti di dominio e potere. L’organizzazione statuale dell’università, a sua volta, è stata, e continua a essere, cinghia di trasmissione dell’universalismo eurocentrico, trasformandolo in cultura dominante. Come non cogliere, in queste affermazioni, il sospetto che Wallerstein, anche per l’esperienza personale che viene da lontano, ha sempre nutrito nei confronti dell’establishment universitario

E qui torniamo al rapporto che Wallerstein ha intrattenuto con i movimenti sociali, anche nella ricerca incessante dei punti di crisi degli strumenti epistemici della comprensione teorica della realtà storica e dell’attualità. Nel ricostruire genealogicamente la crisi imminente su tutti e tre i piani, Wallerstein e i teorici del sistema-mondo hanno privilegiato il momento soggettivo: la decolonizzazione e la “rivoluzione mondiale” del ’68, i cultural studies e la teoria della complessità, che Wallerstein ha trattato come “movimenti di protesta”; infine, l’articolato movimento di critica e contrasto degli effetti della globalizzazione, con il quale egli è stato in dialogo fino alla sua morte, in vista della possibilità di incunearsi, attraverso la teoria e l’azione, nella crisi strutturale del capitalismo e di costruire una concreta transizione verso un mondo migliore.

In questa sede abbiamo volutamente tralasciato le critiche che in questi decenni sono state mosse al pensiero di Wallerstein e le debolezze teoriche risultanti dal suo impianto concettuale – che sono state sottolineate, innanzitutto, dai suoi compagni di strada, Giovanni Arrighi e Andre Gunder Frank. Da una parte, sono talmente numerose da non poter trovare posto qui; dall’altra, ci saranno momenti più opportuni per ripercorrerle e discuterle adeguatamente. Tuttavia, qui possiamo sottolineare che – come sa chi si occupa quotidianamente di produzione e trasmissione sociale della conoscenza –, le critiche sono tanto più agevoli e numerose, quanto maggiori sono la chiarezza analitica e l’onestà intellettuale del bersaglio che suscita, stimola e ricerca un vero e aperto confronto intellettuale con l’altro. Anche gli attacchi ricevuti, quindi, devono essere qui considerati come un segno di merito di Wallerstein, che dello sforzo per disoccultare i presupposti politici della falsa oggettività del pensiero dominante, della sfida teorica giocata allo scopo di aprire nuovi terreni politici e del coraggio di assumere una posizione etica sul mondo che abitiamo, ne ha fatto gli assunti della sua scienza.

In conclusione, si tratta di salutare Wallerstein sulla soglia della lezione e delle difficili incombenze che ci ha lasciato. Soglia che consiste, innanzitutto, nella necessità di tornare a delineare una teoria delle classi, dell’accumulazione e del conflitto articolata su scala mondiale. Ciò non al fine di sviluppare una conoscenza che trovi in sé o in meri narcisismi accademici la propria giustificazione, ma per costruire un sapere mosso dalla passione collettiva di interpretare la realtà, per migliorarla.

 

Annamaria Vitale è docente presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria