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La profezia di Cernobyl

La miniserie sul disastro nucleare che più di trent’anni fa sconvolse il mondo intero, proietta quel trauma fino ai nostri giorni e mostra che Cernobyl, più che l’ultimo inglorioso capitolo di un impero morente, fu l’annuncio di un nuovo tipo di società che ancora noi siamo.

«Qual è il prezzo delle menzogne? Non le scambieremo certo per la verità. Il vero pericolo è che se sentiamo troppe bugie, non riconosciamo più la verità. E allora che possiamo fare? Cosa ci rimane se non abbandonare anche la speranza di conoscere la verità e accontentarci di sentire solo delle storie? In queste storie non importa chi siano gli eroi. Tutto ciò che vogliamo sapere è: chi bisogna incolpare?».

 

 

Le parole che il protagonista Valerij Alekseevič Legasov pronuncia all’inizio della prima puntata della miniserie Chernobyl arrivano dritte fino ai nostri giorni. È questo, forse, il motivo per cui la serie prodotta da HBO e centrata sulla catena di eventi che nel 1986 fece seguito all’esplosione del reattore 4 nella centrale nucleare ucraina, è diventata in pochissimo tempo uno degli eventi televisivi più acclamati dalla critica e dal pubblico. Con una realizzazione tecnicamente ineccepibile, un ritmo incalzante e ansiogeno, la serie scritta da Craig Mazin riporta alla memoria un trauma pressoché rimosso dalla coscienza collettiva: più di trent’anni fa, l’idea che l’origine del disastro fosse da ricercare nel regime sovietico – con la sua negligenza e le sue tecnologie obsolete – consentì ai contemporanei di domare nel tempo le paure che si erano immediatamente scatenate a livello mondiale. La miniserie riesce invece nella difficile impresa di riattivare il trauma, riportando l’”evento Cernobyl” a quello che effettivamente fu, un presagio e una profezia. Nell’introduzione a “Preghiera per Cernobyl”, il libro di Svjatlana Aleksievič che ha ispirato la serie, si legge: «Pensavo di avere scritto del passato. Invece era il futuro».

 

 

 

La “guerra dall’interno” del tardo-capitalismo

Nella prima puntata, quando a pochi minuti dall’esplosione la scena sonora è dominata dai segnali di allarme all’interno della centrale, uno degli operatori – inconsapevole come gli altri dell’entità dell’incidente – chiede insistentemente al suo collega: «è una guerra? Stanno bombardando?». Da quel momento in poi, la serie rappresenta gli accadimenti che seguono l’incidente come fossero quelli di una guerra senza conflitto. In più occasioni i protagonisti paragonano gli effetti di Cernobyl a quelli provocati dall’atomica caduta su Hiroshima alla fine della seconda guerra mondiale (Cernobyl rilasciò radiazioni 400 volte superiori).

Le scene che nella serie descrivono le azioni intraprese dal governo sovietico per bonificare la zona e sfollare le città contaminate – con equipaggiamenti e tute speciali, carri, elicotteri e l’impiego congiunto di civili e militari – sono quelle di una “mobilitazione totale” che ricorda da vicino il coinvolgimento delle popolazioni nei conflitti bellici. Lo stesso occultamente della verità circa l’entità del disastro da parte del governo segue la stessa logica del “segreto di Stato” che informa le situazioni di guerra.

Noi oggi lo abbiamo dimenticato, ma quando nell’aprile del 1986 esplose il reattore della centrale di Cernobyl, lo scenario di una guerra nucleare faceva parte dell’immaginario e delle paure dei contemporanei. Nei mesi e negli anni successivi a quell’incidente, i sovietici si ritrovarono d’improvviso a vivere gli orribili effetti di un conflitto nucleare che la “guerra fredda” aveva inscritto nelle loro coscienze come una possibilità sempre latente, anche se terrificante. Quella volta però, quello scenario catastrofico si era realizzato non come l’esito di un conflitto militare per la supremazia del mondo, né come il prezzo estremo e spaventoso di una lotta tra regimi sociali, economici e politici in competizione: erano stati loro stessi ad averlo prodotto. Cernobyl non fu solo il più grande incidente nucleare che l’umanità avesse mai conosciuto, fu, per loro, un incidente della Storia; il prodotto paradossale di un modello di sviluppo – il più razionalizzato e pianificato del mondo – andato imprevedibilmente “fuori controllo”. Quel paradosso però, si capirà più tardi, non apparteneva affatto solo al blocco comunista, riguardava già il mondo intero.

Per una coincidenza fortuita quanto rilevatrice, proprio nello stesso anno dell’incidente di Cernobyl il sociologo tedesco Ulrich Beck pubblicò il suo celebre saggio sulla “società del rischio”. In quel libro del 1986 Beck sosteneva che le società contemporanee stavano producendo esse stesse – come effetto del loro sviluppo economico e tecnico-scientifico – una serie di minacce astratte, incalcolabili e indipendenti dalla volontà umana che pure le aveva generate. I rischi per Beck – come le sostanze tossiche prodotte dall’inquinamento industriale – sono impercettibili, così come i loro effetti imponderabili, perché dislocati nello spazio e nel tempo – proprio come la nube radioattiva che non smetterà di mietere vittime a distanza di anni e migliaia di chilometri. Nonostante Cernobyl non figuri nel libro (fu scritto poco prima degli eventi), la “radioattività” era già presa da Beck come l’emblema assoluto dei rischi della civiltà tardo-industriale: autoprodotti dall’uomo e massimamente “astratti”.

La serie riconsegna allo sguardo e alla percezione quel condensato di paure nei confronti di quella sostanza intangibile che è la radioattività. Delle cinque puntate rimarrà impressa la grande capacità registica nel farci vedere e sentire l’effetto invisibile e muto delle radiazioni attraverso un complesso gioco di sospensione dello sguardo della camera nel vuoto e di quello del silenzio; talvolta è solo l’aumento d’intensità del rumore del dosimetro utilizzato per misurare il livello delle radiazioni a mostrare l’azione di una sostanza che c’è nonostante noi non possiamo vederla né sentirla.

Inoltre, l’impiantarsi delle società del rischio dimostrava che né la Politica né la Scienza sarebbero state in grado di controllare l’ipercomplessità delle forme di vita, né di prevederne gli esiti. Anche in questo senso Cernobyl fu il segno di un presagio: le società capitalistiche – tanto quelle pianificate quanto quelle di mercato – si sarebbero ritrovate presto o tardi davanti a sé l’immane potenziale di distruzione che esse stesse avevano prodotto. Beck, come altri sociologi progressisti a lui contemporanei, indicò nella capacità di auto-riflessione delle società di fronte ai nuovi rischi, la possibilità di una nuova politica che contenesse gli effetti più disastrosi della globalizzazione neoliberista. Oggi sappiamo che quell’ipotesi politica è fallita e che sulle sue macerie è germinata la nostra epoca oscura.

 

 

Guardando la serie, è fin troppo banale non pensare ai disastri ambientali dei nostri giorni o alla recente attenzione globale nei confronti del cambiamento climatico, così come banale è riconoscere nell’irresponsabile volontà delle autorità sovietiche di nascondere le cause e gli effetti dell’incidente la stessa logica che informa il “negazionismo climatico” di buona parte dei leader globali e delle classi dirigenti del capitalismo contemporaneo. Questo cortocircuito tra la realtà sovietica e quella contemporanea è facilitata (e probabilmente invocata) dall’uso nei dialoghi in lingua inglese: più che un mero espediente commerciale, l’inglese presenta al pubblico globale i discorsi dei grigi funzionari dell’Unione Sovietica come se parlassero non da una civiltà distante e da una storia sepolta, ma al nostro mondo e al nostro tempo.

In fondo, come si chiarirà nell’ultima puntata, fu il desiderio di scalare una posizione di potere all’interno di una catena gerarchica e al contempo l’impulso produttivistico alla crescita (non diminuire l’energia utile alla produzione industriale) a essere all’origine della decisione di condurre in condizioni di massima insicurezza quel maledetto test nella centrale. Oggi che le “ragioni del Capitale” hanno completamente soppiantato e assorbito la “ragione di Stato”, le condizioni che produssero Cernobyl non smettono di moltiplicarsi in ogni parte del globo, ora riunificato da una fobia della catastrofe che la serie televisiva ha riattivato molto meglio che in qualsiasi film di genere apocalittico.

 

Politiche della verità e della menzogna

La lotta per la verità costituisce la traccia più apertamente politica della serie. Il protagonista, lo scienziato Legasov, non smetterà di far valere le ragioni del sapere scientifico – per la messa in sicurezza del sito, per evitare nuove esplosioni e per contenere la diffusione della contaminazione – contro la razionalità dei funzionari del governo tesa invece a minimizzare gli effetti del disastro e a nasconderne le responsabilità politiche. Quella lotta, inizialmente, fu persa dallo scienziato, tanto che per rivelare finalmente la “sua” verità sulle reali cause del disastro si sentì costretto a togliersi la vita.

Ma quella sconfitta fu solo temporanea: mano a mano che emergerà la verità, a farne le spese sarà soprattutto l’autoritarismo sovietico che vide intaccata la base del suo potere.

 

 

Nei titoli di coda compare una frase attribuita a Gorbaciov secondo cui «la catastrofe di Cernobyl forse fu la vera causa del crollo dell’Impero Sovietico». Se è del tutto inappropriato pensare che quella fu la ragione della fine del socialismo reale nell’Europa centro-orientale, è altrettanto vero che il disastro di Cernobyl rappresentò al mondo intero il fallimento di un modello di sviluppo che aveva ormai da tempo smesso di essere competitivo con il capitalismo occidentale. Ma più di questo, Cernobyl mostrò una crepa che riguardava la capacità delle autorità sovietiche di controllare la produzione sociale della verità (in questo caso sulla reale entità e sulle cause del disastro) dentro la logica della ragion di Stato. Quando nel 1988 Gorbaciov decretò la fine della “dottrina Brežnev”, per annunciare alle Nazioni Unite la volontà del paese-guida di rispettare la libertà di scelta dei paesi satelliti senza intervenire militarmente, scelse le seguenti parole: «Non aspiriamo più a essere gli ultimi depositari della verità».

Il controllo della verità era diventato oramai impossibile: l’intellettualità di massa che si era formata sulle ceneri della grande industria minava alla base il funzionamento dell’autorità sovietica. Quando i movimenti della dissidenza si diffusero nei paesi dell’Est, Gorbaciov era consapevole che se anche avesse potuto fermarli militarmente non avrebbe in ogni caso più potuto restaurare quel potere.

Se c’è un’indicazione politica che nella serie sembra più di altre proiettarsi ai nostri tempi, è che la “lotta per la verità” costituisce ancora oggi il campo di battaglia principale per combattere il nuovo autoritarismo, il quale – al pari del vecchio – continua a giustificarsi con l’uso sistematico della forza e della menzogna.

Proprio in questo senso lo stesso autore della serie, Craig Mazin, ha dichiarato al “Los Angeles Times” a proposito di Trump: «We look at this president who lies, outrageous lies, not little ones but outstandingly absurd lies. The truth isn’t even in the conversation. It’s just forgotten or obscured to the point where we can’t see it. That’s what Chernobyl is about».

Ma è proprio in questa proiezione – nel rinnovato valore politico della scienza come antagonista del potere – che qualcosa non torna. Perché se Cernobyl mostra il formarsi della crepa nel controllo della verità da parte dell’autorità burocratica, al contempo è anche l’inizio di un nuovo tempo che vede la stessa scienza perdere il monopolio della produzione sociale della verità: il campo lasciato vuoto dal regime arbitrario del potere non sarà mai più riempito dalla ricostituzione di un’autorità legata alla verità scientifica. Negli anni che ci separano da Cernobyl, la verità si è frammentata in miriadi di specializzazioni ed è stata rifeudalizzata dalle pseudo-autorità degli “esperti”.

Benché ancora intriso di menzogne, il nuovo autoritarismo non si appoggia più ad alcun nuovo monopolio della verità, quanto piuttosto sul suo rovescio: l’assenza di un suo fondamento riconosciuto. I protagonisti della nuova svolta reazionaria globale piantano il loro potere sulla moltiplicazione di micro-sfere identitarie che non rispondono più ad alcuna logica contro-fattuale, quanto a verità che si confermano nella più assoluta e incontestabile auto-referenzialità.

 

 

Gli “eroi” di Cernobyl

Se la lotta di Legasov conquista il primo piano, la serie è animata da una miriade di figure in secondo piano però non meno rilevanti. Da una parte, le migliaia di uomini e donne che scelgono di mettere a rischio la propria vita per salvare quante più persone possibili dagli effetti del disastro nucleare in un sacrificio anonimo e incalcolabile: le infermiere che curano i malati sapendo di poter essere a loro volta contaminate; i minatori riottosi che scavano un fosso per evitare che la contaminazione raggiungesse le falde acquifere, i “liquidatori” che hanno ripulito l’area dalla grafite e dal materiale radioattivo.

Dall’altra parte, Ulana Khomyuk, scienziata dell’istituto per l’energia nucleare che affiancherà Legasov nella sua battaglia. Nei titoli di coda gli autori spiegano che quella figura è una pura invenzione cinematografica per ricordare quella parte di comunità scientifica sovietica che non si piegò alla versione ufficiale sulle cause dell’incidente e che lavorò strenuamente alla verità.

Questa moltitudine anonima è nella serie – come fu del resto nella realtà – la rappresentante di un desiderio collettivo per la vita irriducibile a qualsiasi ragion di Stato. È in fondo questo che la serie ci mostra come il risvolto sempre possibile di una catastrofe: l’emergere della responsabilità comune per la sopravvivenza di tutti. Quando questa responsabilità si allea con il sapere collettivo dissidente, è forse possibile avere una base per guadagnare il futuro. Che sia anche questa, in ultimo, la profezia di Cernobyl?