approfondimenti

MONDO
La prima Conferenza delle donne curde per la nuova Siria
Zehriban Hussein, dell’Accademia di Jineoloji del Nord-Est Siria, racconta il significato storico della prima Conferenza delle donne curde, il ruolo centrale della leadership delle donne e la visione di un nuovo Medio Oriente
Nel Nord-Est della Siria, il movimento di liberazione delle donne ha storicamente occupato una posizione centrale nei processi di trasformazione politica e sociale. Negli ultimi mesi, questo protagonismo si è ulteriormente consolidato attraverso una serie di iniziative volte a rafforzare un nuovo modello di convivenza democratica e pluralista. Tra queste, spicca la prima Conferenza delle donne curde, svoltasi lo scorso marzo a Qamishlo, nel cuore dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord e dell’Est (DAANES). Un appuntamento storico che ha riunito attiviste e rappresentanti politiche provenienti da diverse aree del Kurdistan siriano e che ha segnato un passaggio cruciale verso la definizione di un progetto politico fondato sulla partecipazione femminile, l’autonomia democratica e la valorizzazione della pluralità culturale.
Abbiamo intervistato Zehriban Hussein, membro dell’Accademia di Jineoloji, per approfondire le prospettive emerse dalla conferenza, il ruolo centrale delle donne nella costruzione dell’autonomia democratica, le tensioni tuttora aperte con il governo centrale di Damasco e il significato più ampio che il paradigma della liberazione delle donne assume oggi nella lotta per una nuova Siria e un nuovo Medio Oriente.
Quali sono stati gli obiettivi principali della prima Conferenza delle donne curde e quali risultati concreti sono emersi da questo incontro?
Le questioni relative alla Conferenza delle donne curde– la prima di questo tipo organizzata in Rojava – così come quelle inserite nel più ampio contesto politico del Nord-Est della Siria (NES), rivestono un’importanza cruciale. La convocazione di questa conferenza ha segnato un passaggio significativo nel percorso verso il riconoscimento e la tutela dei diritti delle donne nella futura Siria. Al contempo, essa ha posto le fondamenta per una più ampia Conferenza Nazionale Curda, il cui obiettivo dichiarato è quello di promuovere l’unità curda, ovvero l’unità tra i partiti curdi. Ora attendiamo la convocazione di questa conferenza.
Vorrei tuttavia porre l’accento su un elemento fondamentale: sebbene questa sia stata la prima conferenza ufficiale delle donne curde organizzata in Rojava, il lavoro delle organizzazioni femminili sul territorio affonda le radici in un impegno di lunga data. Normalmente il lavoro all’interno delle organizzazioni delle donne si svolge organizzando riunioni e conferenze con l’obiettivo di delineare un piano a lungo termine, che costituisce poi la base per impostare l’attività successiva e definire strategie e tattiche comuni. In Rojava, un simile metodo di lavoro è presente da almeno quattordici o quindici anni, se non di più. Le donne curde hanno giocato un ruolo essenziale nella guida della rivoluzione, affrontando ostacoli enormi e opponendosi con determinazione a un sistema gerarchico che le escludeva. È in questo contesto che hanno dato vita a strutture autonome – come Mala Jin, Asayish Jin, Kongreya Star (all’epoca Yekîtiya Star) – gettando le basi che sarebbero diventate pilastri della rivoluzione stessa. Dunque, questa conferenza non può essere considerata realmente la “prima”, poiché nei fatti molti passi sono già stati compiuti per costruire e rafforzare l’organizzazione e l’unità delle donne curde. Il suo scopo principale – come ho detto all’inizio – è stato quello di affermare il ruolo delle donne nella nuova Siria: in ambito politico, legale e in tutti gli aspetti della vita. Il diritto allo studio, al lavoro, al voto, a una vita dignitosa, alla libertà di prendere decisioni e fare scelte riguardanti la propria esistenza. Tutto questo in linea con il paradigma della modernità democratica.

La conferenza si è aperta con un’analisi della situazione politica; successivamente, le partecipanti hanno espresso opinioni, osservazioni e proposte, da cui sono emerse discussioni articolate. L’obiettivo è stato quello di gettare le basi per un nuovo modello di società in Siria. Anche se si è svolta nella NES – che resta parte integrante del territorio siriano – le nostre aspirazioni non si limitano a questa regione. Vogliamo un nuovo Medio Oriente, dove le donne che vivono in questa area geografica, le quali sono state così spezzate e rese schiave, possano realizzare una rivoluzione delle donne, che permetta loro di governare la propria vita e vivere la propria cultura.
Le donne, con le loro lingue, religioni, culture e colori, devono poter partecipare attivamente alla vita. Esse non sono tutte uguali: portano con sé differenze di cultura e di pensiero. Ed è proprio questa diversità che dà bellezza alla vita. La nostra diversità è un valore essenziale e la nostra aspirazione è raggiungere l’unità all’interno di questa diversità. La conferenza ha lavorato in questa direzione.
Il ruolo delle donne all’interno della DAANES è diventato sempre più centrale. Ritenete che la leadership femminile sia ormai consolidata o debba ancora confrontarsi con sfide strutturali?
Sì, le donne ricoprono un ruolo attivo all’interno della DAANES. Anche nella quotidianità, nel tessuto ordinario della vita sociale, esse partecipano in modo determinante alla costruzione di un nuovo modello di convivenza. Questa trasformazione del pensiero è il risultato del lavoro e della dedizione delle donne che hanno guidato la rivoluzione e di coloro che hanno perso la vita per renderla possibile. Negli ultimi quattordici o quindici anni – e persino prima – le donne curde hanno raggiunto un livello di consapevolezza e competenza tale da poter prendere parte ai processi decisionali. Per questo motivo, qui, non si sono trovate di fronte a ostacoli insormontabili: sono perfettamente in grado di assumere la guida.
Oggi nessuno può negare che il sistema della co-presidenza sia stato implementato in modo solido, pur con alcune criticità che ancora emergono. Anche la creazione di una forza armata femminile – le YPJ – ha avuto un impatto enorme nel cambiare la mentalità della società.
Dal punto di vista politico, è vero che, con l’introduzione del sistema della co-presidenza, molte donne hanno trovato spazio all’interno delle strutture istituzionali. Tuttavia, nella pratica quotidiana non sono mancate le critiche: c’era chi si domandava l’utilità di tale assetto, o chi sosteneva che fosse sufficiente un presidente affiancato da un vice. Queste obiezioni riflettevano una mentalità profondamente segnata dal modello statale centralista, una visione che esclude l’uguaglianza, ignora la cooperazione e si fonda sul principio del potere unilaterale. Al contrario, il nostro obiettivo era costruire un sistema capace di abbracciare le dialettiche della vita stessa, in radicale contrapposizione con l’ordine imposto dallo Stato.
In particolare in Rojava, questa mentalità statale era stata imposta con forza. Il regime baathista aveva promosso per anni un pensiero gerarchico, che aveva lasciato un segno profondo nella società. Ma con la costruzione della rivoluzione, questa contraddizione ha iniziato a ridursi. Donne e uomini hanno preso coscienza di ciò che il sistema della co-presidenza stava apportando alla rivoluzione e di quanti aspetti positivi esso comportasse.
Alla luce del progetto costituzionale proposto dal governo di transizione siriano guidato da Ahmad al-Shara’, in che modo si rileva una mancanza di attenzione alle questioni delle donne? Quali sono le condizioni fondamentali per avviare un vero dialogo con Damasco?
Per quanto riguarda la costituzione transitoria annunciata dalle autorità di Damasco, numerose voci critiche si sono sollevate dopo la sua pubblicazione. Non si tratta solo di esponenti del movimento sociale attivo nel Nord-Est della Siria, ma anche di molte femministe, attiviste, organizzazioni di donne e osservatrici internazionali che si occupano di diritti di genere a livello globale. Tutte hanno evidenziato come la condizione delle donne delineata in quel testo sia fortemente insoddisfacente: i diritti politici e legali a loro riconosciuti risultano estremamente limitati.
Il Consiglio delle Donne Siriane, insieme a rappresentanti delle comunità alawita, drusa, curda, nonché le donne attive nell’Amministrazione Autonoma – che include, oltre alle curde, donne arabe, siriache e di tutte le componenti che abitano il Nord-Est della Siria – ha espresso in modo chiaro e pubblico il proprio dissenso rispetto ai contenuti della costituzione.
A seguito di ciò, sono state promosse numerose iniziative: forum, dichiarazioni collettive, simposi, così come manifestazioni e marce di protesta. Attraverso questi strumenti, le donne hanno ribadito con forza che il futuro prospettato da quella costituzione non le rappresenta, né risponde alle loro reali aspirazioni.
Le condizioni fondamentali per avviare un dialogo autentico con Damasco passano dalla piena libertà di espressione per le donne. In parte, questa possibilità si è aperta: con il clima di paura che permeava il regime baathista, alle donne era preclusa la possibilità di essere attive, di alzare la voce, di creare spazi di organizzazione. Con la caduta del regime, quella paura è venuta meno.
In che modo campagne come quella a sostegno delle siriane alawite rafforzano il ruolo delle donne come attrici politiche nei processi di resistenza e trasformazione sociale?
Per quanto riguarda le donne alawite, desidero innanzitutto, a nome di tutte le donne – e in particolare di quelle del Nord-Est della Siria (NES) – condannare con la massima fermezza il massacro compiuto sulla costa siriana ai danni della comunità alawita e che ha colpito in modo atroce donne e bambini. È stato un atto disumano, privo di qualunque giustificazione morale, una violenza indiscriminata e brutale che non può trovare alcuna tolleranza.
Il nuovo governo di Damasco, da poco insediato, ha la responsabilità storica e politica di riconoscere la ricchezza della diversità che compone la Siria. Un Paese che non è abitato solo da arabi sunniti, ma da una pluralità di popoli, culture, religioni e identità che condividono da secoli un territorio, un tessuto sociale e che per anni hanno vissuto fianco a fianco.
Le tensioni e i conflitti che oggi emergono non sono frutto di divergenze naturali tra queste comunità, ma il risultato di politiche deliberatamente divisive promosse dai poteri statali per alimentare la frammentazione e il sospetto reciproco.
Ribadiamo la nostra totale condanna per i crimini efferati avvenuti sulla costa. Le donne del Nord-Est della Siria hanno preso con fermezza posizione contro quanto accaduto, esprimendo un chiaro e deciso rifiuto di questi massacri. Purtroppo, i media internazionali non hanno seguito a sufficienza la questione, che è rimasta in gran parte nell’ombra. Le stesse donne alawite hanno manifestato la loro rabbia, sottolineando che, al di là della solidarietà espressa dalle donne della NES, la condanna e l’indignazione per le uccisioni che le colpivano erano state scarse. Alcune donne druse hanno promosso iniziative per denunciare la strage, ma nel resto del Paese – da Damasco ad Aleppo, da Homs a Hama – non si è registrata una reazione altrettanto forte nel denunciare la violenza.
Che ruolo svolge oggi la solidarietà con i movimenti femministi internazionali? Cosa vi aspettate dalla comunità internazionale riguardo al riconoscimento della DAANES e della causa curda?
Jineoloji e il movimento delle donne della NES intrattengono rapporti attivi con movimenti e organizzazioni femministe a livello internazionale. Il nostro obiettivo è costruire un Confederalismo Democratico Mondiale delle Donne. Sono naturalmente in corso sforzi diplomatici volti a spingere la comunità internazionale a riconoscere la DAANES e la causa curda, ad accettarne la legittimità e a prendere atto del fatto che l’Amministrazione Autonoma esiste da ormai quattordici anni. Trasformazioni di questa portata sono parte integrante della nostra agenda politica.
Tra le priorità vi è anche l’avvio di negoziati con il governo di Damasco per permettere il ritorno delle persone sfollate dalle proprie terre da oltre sette o otto anni. Si sta dialogando con tutte le forze presenti oggi in Siria, nel tentativo di garantire, attraverso accordi sostenuti da garanzie internazionali, il diritto al ritorno in sicurezza. Tuttavia, è chiaro che un simile ritorno non potrà essere garantito unicamente da fattori esterni: sarà, come sempre, frutto della determinazione collettiva e della resistenza quotidiana del popolo stesso.

In generale, da quattordici, quindici anni, le popolazioni di questa terra portano avanti, giorno dopo giorno, una resistenza profonda e significativa. Il punto culminante di questo percorso è rappresentato dalla resistenza presso la diga di Tishreen, che da oltre ottanta giorni prosegue senza sosta, con una forza e una determinazione senza eguali.
Ad esempio: quando la popolazione si è recata a Tishreen, alcuni aerei hanno cominciato a sorvolare l’area. I responsabili della sicurezza presso la diga hanno allora invitato le persone a rifugiarsi all’interno della struttura, dicendo: «Entrate, ci sono aerei turchi sopra di noi, attaccheranno, apriranno il fuoco». A quel punto, una delle persone presenti ha risposto: «Siamo venuti qui per resistere, non correrò a mettermi al sicuro».
Parole come queste non sono banali. Sono l’espressione di una coscienza collettiva maturata attraverso anni di lotta: la consapevolezza che solo la resistenza porta alla libertà.
Oltre agli slogan – “siamo più grandi della morte”, “siamo qui e ci resteremo”, “il popolo è vivo” – ciò che conta è il fatto che, in questi quasi quindici anni, il popolo della NES ha guidato una rivoluzione che oggi rappresenta un esempio concreto per i futuri movimenti di trasformazione sociale contro lo Stato centralizzato e le strutture gerarchiche.
Il 4 aprile è una data importante: un giorno di libertà, di esistenza e di Xwebûn. Qual è, per te, il significato politico, simbolico e culturale di Abdullah Öcalan oggi e in che modo il suo paradigma continua a ispirare il femminismo curdo e la costruzione dell’autonomia democratica?
Il 4 aprile segna la nascita di Abdullah Öcalan ed è celebrato come una giornata di esistenza e libertà. Un giorno particolarmente significativo per le donne curde, ma anche per le donne di tutto il Medio Oriente e, sempre più, a livello globale, fino all’Europa. Il socialismo immaginato da Öcalan per le donne si distingue profondamente da quello proposto da altri movimenti o ideologie: è un progetto radicale di emancipazione, fondato sull’autonomia e sulla trasformazione profonda della società. Il 4 aprile è vissuto come una vera e propria rinascita per le donne – un giorno di xwebûn, di consapevolezza del proprio essere, e di libertà.
A questa domanda si può collegare anche la situazione attuale di Öcalan. Egli ha lanciato un appello per la pace e per una società democratica. In un periodo come quello che stiamo vivendo oggi, questo appello ha un significato molto profondo. Allo stesso tempo, la soluzione che ha proposto è rilevante sia per noi – come popolo oppresso da anni – sia per affrontare l’impasse in cui si trovano gli stati della regione.
Tutti seguiamo con attenzione ciò che accade: dalla Libia allo Yemen, dall’Egitto alla Siria, dal Libano all’Iraq, fino alla Turchia, tutti gli stati del Medio Oriente stanno attraversando profonde crisi. Eppure la resistenza dei popoli continua a vivere. Öcalan riconosce quanto le persone, in luoghi diversi, stiano resistendo mentre gli apparati statali cercano di soffocare la volontà popolare. Per questo il suo appello è per noi estremamente prezioso.

Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, vorrei fare una precisazione. Non esiste un “femminismo curdo” in senso stretto. Tuttavia, vi sono certamente legami tra il Movimento delle Donne Curde (e, in particolare, l’Accademia di Jineoloji che ne fa parte) e il femminismo. Le nostre richieste, i nostri desideri e le nostre radici sono comuni. In alcuni punti e dettagli possiamo divergere, ma tutte lottiamo per la libertà delle donne e per la democrazia.
Dal punto di vista delle organizzazioni delle donne curde e di Jineoloji, posso dire questo: la Jineoloji è la scienza delle donne e della vita, introdotta per la prima volta da Öcalan nella sua terza opera difensiva, La sociologia della libertà. Le sue fondamenta però affondano in oltre quarant’anni di esperienza del Movimento delle Donne Curde.
Jineoloji si nutre anche delle esperienze dei movimenti femministi delle decadi precedenti, della cultura della dea madre del Neolitico e di molte altre fonti.
Nella costruzione del sistema di autonomia democratica e nel modo di governare la vita quotidiana, tutto ciò è connesso. Non si può parlare di democrazia se donne e uomini non sono insieme, se esseri umani e natura non sono insieme, se l’economia è unilaterale, se la politica demografica viene usata come arma o se la politica viene distorta.
Il sistema della DAANES mira a realizzare una vera democrazia. Ma l’autonomia democratica non è possibile senza il ruolo centrale delle donne. Per questo, le donne sono in prima linea. In questi quattordici anni, esse hanno maturato esperienze profonde all’interno di questa rivoluzione.
Vorrei concludere con questo: la rivoluzione del Rojava – o meglio, la rivoluzione che oggi stiamo vivendo nel Nord-Est della Siria – ha generato profondi cambiamenti nella mentalità collettiva della società. E, poco a poco, sta diventando una base solida anche per le donne nel resto del mondo, un punto di riferimento, un passo verso l’autonomia, la libertà delle donne e per la pace.
Tutte le immagini presenti nell’articolo mostrano la Conferenza delle donne curde e sono state fornite da Rojava Information Center
SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS
Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno