ITALIA
Contro la precarietà negli atenei il governo vuole far fuori il precariato storico
«Evidentemente non interessa limitare il ricorso a contratti precari nei dipartimenti. Il fine consiste nel portare a termine la trasformazione dell’Università iniziata con la Gelmini, nella direzione indicata dalla fondazione TRELLLE: un sistema universitario in pieno stile neoliberale, al soldo degli interessi privati completamente svuotato del proprio ruolo sociale»
L’ineffabile viceministro dell’Istruzione Fioramonti descrive sulla nuova Gazzetta Ufficiale Facebook una «non-riforma» dell’università in 10 punti, che il governo Giallo-Verde vorrebbe attuare a breve. Il post risale all’11 marzo scorso e come tutti i manifesti programmatici, e come tutte le non-riforme, vi sono molti punti non approfonditi né dettagliati, più o meno fumosi e più o meno (soprattutto meno) credibili. In fondo, annunciare (anzi forse sarebbe più corretto «scrivere», «promettere») in periodo pre-elettorale di voler incrementare il finanziamento ordinario dell’università di un miliardo di euro non costa nulla, anzi. Bisognerebbe chiedere cosa ne pensa il Capo Dipartimento del MIUR, l’highlander Valditara che in un recente documento ha di fatto affermato come la priorità sia «un intervento sui processi e sulla governance del sistema ricerca»: il resto può aspettare. Sarebbe anche interessante chiedere a Valditara (relatore di maggioranza della Legge Gelmini nel 2010) cosa pensi dell’idea della valutazione che Fioramonti ha recentemente specificato meglio: abolizione dell’abilitazione (introdotta da Validata nel 2010) e valutazione che arriva via mail automaticamente dopo aver inserito i propri “prodotti della ricerca”. Un’altra dittatura dell’algoritmo, rispetto alla quale l’ANVUR sembra, quasi, una barzelletta.
Al di là di questi temi (finanziamento e valutazione), il punto centrale di questo non-manifesto di riforma del Viceministro riguarda il «Pre-ruolo e reclutamento dei ricercatori universitari»: pare ci sia una proposta di legge «già pronta per il dibattito parlamentare» in cui tra le altre cose si intende «ridurre significativamente il periodo post-dottorato». Su Il Mattino e Il Messagero del 18 marzo il nostro eroe entra più nel dettaglio: «dobbiamo eliminare quella giungla di contrattini, borse post dottorato e speranze di un contratto triennale a tempo determinato di tipo A… In futuro, una volta arrivato al dottorato, il ricercatore avrà massimo 5 o 6 anni di precariato: dopo o vinci un concorso per una cattedra oppure ti trovi un altro lavoro». Potrebbe essere una bellissima notizia. Finalmente non ci saranno più precari che lavorano per 15 anni reperendo fondi, svolgendo corsi e facendo ricerca ad alto livello (come riconosciuto da tutte le statistiche internazionali), spesso sottopagati se non addirittura pagati con la promessa di un altro contratto (precario, ça va sans dire), per poi essere espulsi dal sistema avendo ampiamente superato i 40. Perché questa è la situazione attuale, nonostante i proclami di Valditara di voler «eliminare la precarietà» in fase di discussione parlamentare della Legge Gelmini.
Anche in quest’ultima vi erano infatti dei massimali per gli assegni (4 anni, poi diventati 6 per evitare un’emorragia di assegnisti e quindi il collasso del sistema) e per il totale complessivo dei contratti a tempo determinato (12 anni). Un sistema, quindi, costruito a tavolino per prevedere intrinsecamente un’enorme massa di precari di lungo corso. Cosa che puntualmente si è verificata, con il personale precario che ormai rappresenta oltre il 58% del personale accademico. I limiti di tempo ai contratti precari non servono. Quello che serve è un aumento strutturale del finanziamento da affiancare a manovre straordinarie per riequilibrare un sistema universitario che ha visto una diminuzione dell’organico del 25% negli ultimi 10 anni: unico comparto della Pubblica Amministrazione ad aver subito un simile taglio.
Qualche numero: per l’intervento straordinario (5000 RTD-B all’anno per 4 anni, e non le briciole, 1500, elargite una tantum quest’anno) servono circa 900 milioni di euro all’anno fino al 2023. Altri 800 milioni annui servirebbero dal 2024 in poi per garantire un flusso di 2500 ricercatori e ricercatrici attraverso RTD-A e poi RTD-B. Questo sarebbe solo il finanziamento aggiuntivo per l’immissione in ruolo di nuovo personale necessario a far funzionare un sistema di istruzione superiore degno di questo nome. Da integrare, naturalmente, con altre risorse altrettanto necessarie per creare le condizioni in cui la ricerca possa svilupparsi. È pronto il governo ad aggiungere almeno 2 miliardi al Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO)? È pronto a fare questa scelta politica? Sì, perché è di questo che stiamo parlando. I soldi, ci sono, eccome, basta prendere il bilancio della spese militari, 25 miliardi nel 2018, in aumento di 1 miliardo (!) rispetto al 2017.
Questi sono i provvedimenti concreti di cui dovrebbero discutere Fioramonti e Valditara se davvero volessero limitare la precarietà, insieme alla trasformazione immediata di tutti gli assegni in contratti con maggiori tutele, ad esempio in RTD-A (dicono che sono contratti indegni? Bene agite di conseguenza!). Qualunque altra discussione ha in realtà un altro fine: l’eliminazione del precariato storico e un ricambio più “dinamico” di ricercatori usa e getta. Prima si potevano sfruttare 12 anni, ora solo 5: basta aumentarne la quantità e il rapporto precari/strutturati rimane lo stesso. Ma a loro evidentemente non interessa limitare il ricorso a contratti precari nei dipartimenti. Il loro fine consiste nel portare a termine la trasformazione dell’Università iniziata con la Gelmini, nella direzione indicata dalla fondazione TRELLLE: un sistema universitario in pieno stile neoliberale, al soldo degli interessi privati (a quando la liberalizzazione delle tasse universitarie?), completamente svuotato del proprio ruolo sociale.
Questa chiara direzione di intervento, condivisa da tutti i governi che si sono susseguiti in questi lunghi dieci anni, dovrebbe indurci a cambiare strategia e interlcoutori. Non dobbiamo più continuare a sperare nei proclami dei vari ministri, vice o capi dipartimento ministeriali. Dobbiamo essere in grado di riconoscere le nostre condizioni comuni di sfruttamento all’interno degli atenei e organizzarci: riusciremo a creare una grande mobilitazione di tutti i precari e le precarie? Riusciremo a respingere al mittente la guerra fra poveri che tentano di innescare fra aspiranti neo-precari e precari di lunga data? Riusciremo a sostituire la cooperazione e la solidarietà all’individualismo e alla competizione? Queste questioni sono urgenti e non più eludibili: anche perché per gran parte dei precari questa potrebbe essere l’ultima occasione per provare a cambiare le regole del gioco da dentro.