editoriale
La posizione di Confindustria sulla riforma portuale: un commento
A seguito del dibattito aperto dal libro “Banche e crisi. Dal petrolio al container”.
Abbiamo potuto leggere in questi mesi diversi testi sulla riforma portuale, prese di posizione di partiti, di associazioni o di singoli esperti.
Il documento di Confindustria, arrivato per ultimo, a me è sembrato migliore di quelli messi in circolazione, più chiaro e sintetico, meno diplomatico rispetto al solito, netto nel rifiuto dell’ipotesi avanzata dal Ministro sull’istituzione di distretti logistici e su qualcosa che può assomigliare a un’autorità di distretto. Il punto sul quale il documento cade di tono, anzi, secondo me, inciampa, è quello relativo al lavoro portuale, sia per il modo sbrigativo con cui viene trattato, quasi fosse l’argomento meno importante di quelli presi in considerazione, sia per il contenuto. Senza tanti giri di parole, Confindustria ritiene che le norme riguardanti gli artt. 16 e 17 della legge 84/94 “siano ormai superate” e che si possa anche nei porti abolire la riserva e utilizzare il lavoro di cooperative esterne e di personale interinale.
Questo accenno al”superamento” m’incuriosisce perché mi piacerebbe sapere quali sono gli eventi e i contesti che hanno determinato l’obsolescenza del modello della riserva: la tecnologia, la diversa organizzazione del ciclo, il gigantismo navale, le normative IMO? Il testo di Confindustria non precisa e allora mi viene da fare un passo indietro e di chiedere prima di ogni altra cosa agli estensori di quel documento: “Esiste una scuola di pensiero che ritiene superata non solo la riserva ma anche la necessità di un bacino di lavoro temporaneo perché l’organizzazione industriale del ciclo di sbarco/imbarco, la sua progressiva automazione, il preclearing, ecc. ecc. avrebbero creato le condizioni per una programmazione esatta delle risorse, tanto da ridurre al minimo gli imprevisti. Quindi se di lavoro temporaneo ce n’è ancora bisogno, secondo questa scuola di pensiero esso è un bisogno ridotto ai minimi termini e per mansioni generiche, che possono essere espletate da persone prive di qualifica e magari anche di esperienza portuale. Siete d’accordo anche voi con questa impostazione?” E’ importante sapere come la pensa Confindustria su questo punto perché con il procedere del gigantismo navale lo svolgimento delle operazioni di sbarco e imbarco, nel container e non solo, presentano dei picchi molto più elevati ed un andamento molto più irregolare, com’è storia di questi giorni nei terminal di Rotterdam e di Amburgo, a seguito dell’effetto domino prodotto dalle navi che arrivano ‘out of schedule’ non, come all’inizio dell’anno, per condizioni atmosferiche avverse ma per il combinato disposto dello slow steaming e del maggior tempo trascorso nei terminal a causa dei maggiori volumi imbarcati e sbarcati in una volta sola. Non solo c’è necessità di un polmone di mano d’opera pronta a intervenire nei picchi ma di un polmone ben consistente. Secondo me quella scuola di pensiero cui facevo riferimento si sbaglia di grosso e gli estensori del documento confindustriale, che conoscono il mercato, dovrebbero esserne ben consapevoli.
Lavoro generico o lavoro specialistico
Se dunque siamo d’accordo che una riserva di lavoro flessibile ci vuole, non siamo affatto d’accordo, credo, nel ritenere che il lavoro portuale sia un lavoro generico, il cui esercizio può essere affidato indifferentemente a una cooperativa di facchini o a una cooperativa di pulizie oppure al primo individuo che dà la propria disponibilità tuttofare ad un’agenzia di lavoro interinale. Io penso invece che il lavoro portuale sia un lavoro specialistico che può essere affidato solo a persone in possesso di certi requisiti. Possiamo discutere se questo lavoro debba esser organizzato ai sensi degli artt. 16 e 17 oppure come un’agenzia oppure come un pool di mano d’opera, in tutti i casi deve essere inquadrato in una forma istituzionale ma sopratutto deve essere “formato” ad hoc.
Nelle more dell’approvazione del decreto cosiddetto “salva CULMV” mi sono divertito a conoscere di persona come sono organizzati i pool di mano d’opera in realtà come Anversa e Amburgo.[1] Mi è parso di capire che l’elemento che differenzia l’esperienza italiana da quelle del Nord non è tanto la concezione della “riserva” né le sue attribuzioni previste dalle norme quanto l’idea, da noi assente, che un lavoratore portuale prima di essere inserito nel ciclo debba aver acquisito un know how fatto di conoscenza ed esperienza, magari virtuale, sia dell’utensile che dovrà manovrare sia delle condizioni ambientali in cui dovrà poterlo guidare. Per far questo i porti del Nord dove operano i pool hanno investito milioni di dollari nell’acquisto di simulatori, sui quali vengono addestrati sia i dipendenti dei terminal che i portuali registrati nel pool. La differenza quindi è una differenza culturale, di mentalità, tra chi pensa che non vale la pena buttar via dei soldi per formare la gente e chi pensa che ne valga la pena, anzi, che si debbano investire ingenti risorse in questa missione. E’ una differenza nel considerare il valore della forza lavoro, tra chi pensa che valga zero e chi pensa che valga dieci. Per questo, mentre in Italia, là dove ancora esistono le Compagnie portuali, esse sono impiegate per coprire le mansioni meno qualificate, ad Amburgo gli uomini del pool vengono impiegati anche sulle gru di banchina e sono – parole testuali di un capo del personale di un grande gruppo – “bravi quanti i nostri dipendenti”. E costano tra il 20 e il 25% in meno, se si tiene conto anche dei costi della formazione.
I sopravissuti dell’art. 17
Chissà se i nostri amici di Confindustria hanno mai dato un’occhiata alla benemerita indagine che l’ISFORT ha condotto un paio d’anni fa sull’organizzazione del lavoro portuale, l’avevano intitolata “il Far West”, perché nel corso della ricerca avevano trovato tante situazioni completamente differenti l’una dall’altra, alle quali la vigenza delle norme della 84/94 non aveva impedito di svilupparsi, tanto da far pensare che ogni porto abbia trovato un suo accomodamento, un suo modus vivendi. L’esistenza di Compagnie portuali in tanti scali italiani non significa affatto un’omogeneità nell’organizzazione del lavoro, il loro ruolo può essere completamente differente, talune esistono solo di nome, altre si occupano di tutto meno che del ciclo di sbarco e imbarco, alcune stanno a guardare il lavoro che dovrebbe essere di loro competenza svolto da cooperative esterne, altre sono proprietarie di pezzi di porto, alcune si sono suicidate, altre si sono mangiate le pensioni dei soci, tra Genova e La Spezia, tra La Spezia e Livorno, tra Livorno e Civitavecchia, tra Civitavecchia e Napoli, tra Ancona e Ravenna, tra Ravenna e Venezia, tra Venezia e Trieste….ce ne fosse una, dico una che assomigli all’altra! Se era questo che voleva dire Confindustria con il concetto di “superamento” allora capisco e non posso che convenire con la Confederazione padronale: i porti si sono arrangiati “all’italiana”, hanno formalmente rispettato la 84/94 ma di fatto se ne sono infischiati bellamente, le cose si sono aggiustate, i conflitti sono quasi scomparsi e quando la gente sta buona tutto va bene. Anzi, a chi osservava che i porti italiani non andavano poi tanto bene si rispondeva, allargando le braccia. “Certo, e come potremmo essere competitivi se ci tocca far lavorare gli uomini delle Compagnie!” Di fronte a questo spettacolo di italica furberia il mio pensiero corre, chissà perché, a tutti quegli avvocati del lavoro capaci di discettare per ore se il lavoro temporaneo portuale possa essere considerato alla stregua della pura somministrazione, se e in che misura debba esser distinto dall’appalto di servizi, se le Compagnie possano ricorrere come ‘società utilizzatrice’ ai servizi di Manpower o di Adecco, se, se, se…tutte belle cose e sacrosante (in particolare se consentono di emettere grasse parcelle), ma che non arrivano al fondo della questione. E qual è il fondo? Che in Italia esiste solo Genova come situazione portuale dove, per la consistenza numerica della Compagnia, per la sua tradizione di orgogliosa autonomia, per le convenienze di tanti terminalisti e per tanti altri fattori materiali e immateriali, la ”riserva” non è stata ancora superata e quindi permangono elementi di rigidità, di fronte ai quali certi osservatori dal cuore delicato possono dare in escandescenze.[2] A loro consolazione vorrei sommessamente sottoporre però un paio di riflessioni. Malgrado “i camalli” l’abbiano strozzata, come dice qualcuno, Genova è ancora il primo porto italiano, ha superato la soglia dei 2 milioni di Teu, per quante difficoltà abbia l’Autorità Portuale è ben lontana dai 560 milioni di buco di Valencia, per quanto agitate siano le sue acque sindacali è ben lontana dalle situazioni che più di una volta hanno paralizzato Marsiglia e per quanto duro sia stato il confronto con Paride Batini era sempre rose e fiori rispetto alla Coordinadora dos trabajadores portuarios che per anni ha fatto il bello e il cattivo tempo a Barcellona. E se volete sapere cosa significa in concreto la parola flessibilità, significa, per esempio, le sette chiamate giornaliere di Genova, significa, per esempio, essere convocati con un’ora e mezza di anticipo via sms. Provate a proporlo ai pool di Anversa e di Amburgo e voglio vedervi correre!
Tutto a posto, dunque, tiriamo avanti così come si è fatto finora? Niente affatto, se vogliamo trasformare gli artt. 16 e 17 in qualcosa di istituzionalmente diverso studiamo un percorso per arrivarci. Qualche idea l’ho buttata lì in un documento che forse un giorno i miei committenti vorranno rendere pubblico. Si può fare di tutto, tranne una cosa: continuare a condurre il discorso lungo i binari che finora abbiamo conosciuto. E’ giunta l’ora di spostare il terreno della discussione, quello sul quale finora l’abbiamo condotta è “superato”, anzi superatissimo.
Lavoro nei porti, lavoro nella logistica
Lo spunto mi viene dato proprio dall’idea del Ministro Lupi di fare dei distretti logistici con poteri di governo sul territorio. Immaginiamo un esempio: il porto di Ravenna, più l’Interporto di Bologna, più le articolate piattaforme logistiche insediate in Romagna nell’asse Cesena-Forlì si organizzano come un unico distretto e cominciano a programmare una serie di investimenti per aumentare l’efficienza della supply chain, sviluppare il trasporto intermodale, ridurre il dwell time in porto, arrivare sugli scaffali dei grandi magazzini prima degli altri ecc., ecc.. Chi mette i soldi per fare questi investimenti non è chiaro, diciamo vagamente che per ora si costituiscono sinergie tra risorse di diversa provenienza. Già, ma come si presenta l’universo del lavoro in questo microcosmo distrettuale? Abbiamo i soci della compagnia portuale di Ravenna, i dipendenti dei terminal con i loro bei contratti, abbiamo i ferrovieri, i camionisti e poi tanti facchini, taluni organizzati in consorzi e cooperative serie, che rispettano gli accordi nazionali, altri invece organizzati, si fa per dire, da quella nuova generazione di “caporali” che ingaggiano immigrati e li trattano come carne da macello. Fermiamoci un attimo su quest’ultima fattispecie. Non deve essere una rarità, anzi, a fare mente locale su quanto sta succedendo da un paio di anni a questa parte nelle piattaforme della logistica, anche quelle che lavorano per conto di grandi nomi, da TNT a Ikea, da Granarolo a Number One, da Bartolini a GS, sembra che il modello di organizzazione del lavoro nella logistica di distribuzione in Italia sia proprio quello di non investire in meccanizzazione o automazione, di non investire in sistemi informatici sofisticati ma di appaltare il lavoro di magazzino a questo strato di intermediari che procurano mano d’opera ricattabile, la inquadrano in cooperative con la qualifica di socio-lavoratore, non pagano i contributi, non pagano i minimi previsti dai contratti nazionali, non pagano gli istituti contrattuali (ferie, malattia, tredicesima, straordinari ecc.), finito l’appalto sciolgono la cooperativa e chi s’è visto, s’è visto. I committenti fingono di non sapere, se ne lavano le mani. Ma altrettanto hanno fatto per anni le amministrazioni pubbliche, gli organi dello Stato, i partiti, anche i sindacati. Poi un bel giorno sono arrivati i Cobas, hanno lanciato un cerino in questa polveriera che subito ha preso fuoco e da allora si sta verificando un fenomeno che pensavamo di non rivedere più dopo gli Anni Settanta, quello di una conflittualità strisciante.[3] Malgrado si tenti di esorcizzarli prendendo a pretesto qualche picchetto “duro”, questi conflitti sindacali possono cambiare il volto della logistica in Italia dando avvio, faticosamente, ad un processo di ripensamento del modello basato solo sulla flessibilità e il basso costo della mano d’opera – penalizzante sul piano della produttività e della qualità – per avvicinarsi al modello che in Europa ed in particolare in Germania fa della logistica un asse strategico della competitività del prodotto/servizio. Forse il mio è un wishful thinking, forse tutto si risolverà con una normalizzazione dei rapporti sindacali e morta lì, ma fosse anche così vorrei chiedere ai signori di Confindustria: come si fa ad essere così miopi ed inopportuni da proporre il trasferimento di quel modello nei porti? Volete che nei porti si lavori con cooperative di facchinaggio composte in massima parte da immigrati, controllate possibilmente dalla criminalità organizzata? Volete l’interinale puro e l’autoproduzione ad libitum (che più di qualche incidente mortale ha provocato nei traghetti)? Perché questo capisce uno che legge le vostre quattro righe sul lavoro portuale temporaneo nel documento che stiamo discutendo. Vi sfido a darne un’interpretazione diversa.
Politiche per la flessibiltà: una ricetta sicura per il declino
Non sto facendo un processo alle intenzioni, tutti ricordiamo benissimo come da Romano Prodi (1996) a Matteo Renzi (2014) passando per il Cavaliere, non ci sia stato un governo che non abbia aumentato la dose di flessibilità che un aspirante lavoratore, sia esso manuale o intellettuale, deve ingoiare per poter conseguire il miraggio di una retribuzione (dopo aver passato qualche mese in tirocinio gratuito). Dal “pacchetto Treu” all’iterazione del contratto a tempo determinato di Renzi e con l’unico breve intermezzo della signora Fornero, buona nelle intenzioni ma infelice nelle soluzioni, i governi hanno agito sul mercato del lavoro in base ad un’unica filosofia: per creare occupazione bisogna aumentare la flessibilità all’ingresso. E’ nata così la fiera dei contratti, il festival del precariato, su spinta di Confindustria e con i sindacati che dicevano suppergiù: “per noi non toccate l’art. 18, poi di quelli che entrano nel mercato del lavoro da una certa data fate quello che volete”. I risultati si sono visti, quattro milioni di precari, 49% di disoccupazione giovanile, retribuzioni al minimo, fuga di cervelli, come dice l’ultimo studio Censis “chi più studia meno lavora”, un 30% delle attività professionali con Partita Iva al di sotto della soglia di sopravvivenza, neet in aumento vertiginoso.[4] Come dice lo studio Mediobanca sui conti economici delle 2035 aziende italiane, la grande impresa, quella al di sopra dei 500 dipendenti, non assume da 15 anni, le società quotate in Borsa nel triennio 2010-2012, quelle che in media fanno il 61% del fatturato estero su estero, hanno distribuito in dividendi più del 30% delle loro risorse e solo il 28% in immobilizzazioni tecniche. [5] Ci chiedono all’estero perché siamo in declino: perché non si investe, si spolpano le poche grandi imprese che abbiamo, le altre le vendiamo. La prosperità della Germania non è dovuta al mercato del lavoro parallelo, che comunque è compensato da un robusto welfare, ma dal fatto che le imprese hanno continuato a investire, anche durante la crisi, e che i sindacati, grazie alla Mitbestimmung, non permettono che gli azionisti se le mangino in dividendi ed i manager in benefit. L’Italia regge perché ci sono le medie imprese che investono circa il 60% delle loro risorse in immobilizzazioni tecniche e beni intangibili, perché c’è quel fitto pulviscolo di microimprese che si arrabatta con ogni sforzo, escluse spesso dalla torta della Cassa Integrazione e dagli incentivi alle assunzioni, che invece vanno generosamente a chi tratta i neoassunti come carta straccia. E ciò che fa veramente offesa è vedere che nelle pratiche più spregiudicate verso i nuovi assunti si distinguono soprattutto le multinazionali straniere, con sistemi che mai avrebbero il coraggio di applicare nei loro paesi d’origine, come se l’Italia fosse una terra di nessuno e chi cerca lavoro da noi un cittadino di terza classe. Se lo fanno significa che qualcuno ha detto loro che possono farlo tranquillamente. Bel modo di attirare investimenti esteri! E così vediamo a Milano, nella city, società che fanno firmare ai giovani laureati mese per mese le clausole contrattuali relative alla retribuzione, vediamo l’uso selvaggio di tirocinii gratuiti e via dicendo. Il problema del mercato del lavoro in Italia sta dal lato della domanda non da quello dell’offerta, la politica della flessibilizzazione a tutti i costi non aumenta l’occupazione, la degrada e basta, come hanno dimostrato decine di ricerche, come cercano di dire inascoltati decine di economisti (quelli che scrivono nella newsletter lavoce.info, tanto per dire). Nulla da fare, malgrado l’evidente fallimento delle politiche del lavoro degli ultimi vent’anni, si prosegue nella stessa direzione con colpevole ottusa ostinazione. Non è neppure il precariato a vita l’effetto peggiore, è la svalutazione delle competenze il danno più grave, la mortificazione del “capitale umano”, quel misto di apprendimento e di esperienza, di talento e di cultura, indispensabili per vivere nella knowledge economy. E’ proprio il lavoro intellettuale, creativo e artistico quello che paga il prezzo più alto della politica di flessibilità a tutti i costi. Sono vent’anni che non si riduce l’assurdo peso fiscale sul lavoro dipendente e si continua a togliere diritti ai nuovi assunti. Se aggiungiamo la scarsa propensione all’investimento e le delocalizzazioni, avremo la miscela perfetta per produrre declino – anche senza dover tirare in ballo “la casta” e certe sue nefandezze. De te cara Confindustria, fabula narratur.
È in questo quadro sconfortante che vanno lette le vostre proposte sul lavoro portuale, cari signori. I fenomeni di un mercato particolare e tutto sommato ristretto come quello del lavoro nei porti vanno letti nel contesto macroeconomico generale. E in questo contesto la classe dirigente italiana fa davvero una figura meschina.
Sergio Bologna
ACTA, Associazione consulenti terziario avanzato, sister organization of the Freelancers Union (USA), member of the European Forum of Independent Professionals – www.actainrete.it
[1] Ringrazio i grandi gruppi terminalistici PSA e Eurogate che mi hanno fornito supporto organizzativo necessario al buon fine di queste missioni d’indagine autofinanziate; le conclusioni che ne ho tratto sono del tutto personali e non coinvolgono minimamente queste società.
[2] Il contribuente italiano sarà lieto di sapere che l’oculata Ragioneria dello Stato ha ritenuto eccessivo il contributo ammissibile al ripianamento dei deficit delle Compagnie e lo ha ridotto di 1 milione di euro; sarà meno lieto di sapere che i 2251 esuberi dell’Alitalia sono tutti a suo carico e si chiederà allora come mai il costo del Mose è passato da 1 a 5 miliardi senza che nessun ragioniere trovasse qualcosa da eccepire.
[3] Sono circa un centinaio dall’inizio dell’anno gli episodi di sciopero, comprese le fermate di 1-2 ore, organizzati dai Cobas, i cui attivisti sindacali fanno riferimento in Veneto a Adl Cobas di matrice operaista e in Emilia Romagna a SI Cobas di matrice internazionalista. La quasi totalità delle vertenze riguarda l’applicazione del contratto nazionale. Eppure le associazioni datoriali e la stampa continuano a trattarli come fomentatori di violenze e d’illegalità. Le singole imprese invece e gli stessi committenti continuano a firmare accordi aziendali con i Cobas, forse hanno capito che è meglio trattare con loro che con la criminalità organizzata. Quando lo capiranno anche le istituzioni avremo fatto un passetto avanti.
[4] Il 5 giugno u.s. come rappresentante di un’associazione di professionisti sono stato ascoltato, assieme ad altri colleghi, dalla Commissione Lavoro del Senato, presente un rappresentante del governo, oltre al sen. Pietro Ichino, alla senatrice Ghedini ed altri, in merito alla Legge Delega e mi sono permesso in quella sede di proporre un’indagine parlamentare sulle condizioni del lavoro manuale e intellettuale in Italia, che abbia l’ampiezza e la profondità dell’Inchiesta Jacini sull’agricoltura dei primi anni dello Stato unitario. Sono convinto che la politica non abbia per niente le idee chiare sulla situazione reale dell’occupazione nel Paese.
[5] www.mbres.it, ultima edizione dello studio (2013); per la precisione: imprese quotate, impieghi e risorse 2010-2012: 2,3% circolante, 13,4% disponibilità, 25,4% impieghi finanziari, 28,0% immobilizzazioni tecniche, 30,4% dividendi.
*Dal sito di DeriveApprodi