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La poetica insurrezionale del Comité invisible
Con “Maintenant” procede la riflessione del “Comité invisible” verso una pratica destituente e una concezione immanente del comunismo. Tra testo filosofico e intervento militante, tra registro esistenziale e programma d’azione, il tentativo del collettivo francese di sciogliere alcune delle ambivalenze del dispositivo capitalistico neoliberale rimane impigliato in una critica moralistica delle forme di vita e in un ineffettuale elogio del coraggio
L’ultimo libro del Comité invisible è un testo di poetica, una poetica dell’insurrezione. Con “poetica” intendo un genere che si situa idealmente tra il testo filosofico (che tenta di produrre concetti capaci di dar luogo a un certo orizzonte di intelligibilità) e l’intervento militante (che mira a individuare le pratiche concrete atte a verificare la pertinenza di un orizzonte di intelligibilità). Né testo filosofico, né intervento militante, una poetica come quella di Maintenant si dà forse il compito di immaginare gli “schemi” che siano in grado di mettere in comunicazione i mondi distinti del senso e dell’agire.
Perché una poetica del genere sia possibile, è necessario che tanto i concetti quanto le pratiche siano già dati o comunque presupposti. Nel caso in questione, le pratiche da cui estrarre uno schema esportabile e riproducibile, sono quelle dei movimenti sociali degli ultimi anni (per esempio quello spagnolo del 15 maggio 2011 e quello francese del 2016 contro la riforma del lavoro). Ma anche l’orizzonte di intelligibilità entro cui si muove il Comité invisible è già dato, e consiste, pur con qualche variazione, nella teoria della potenza destituente formulata da Giorgio Agamben.
Sulla scia di Walter Benjamin, Agamben fa i conti con «l’incessante, desolata dialettica di potere costituente e potere costituito» (L’uso dei corpi, p. 337), spiegando come un potere che sia stato abbattuto da una violenza costituente non potrà che risorgere in un’altra forma, sotto mentite spoglie. Per Agamben, dunque, una politica rivoluzionaria non deve porsi il compito di produrre nuove istituzioni, ma di rendere inoperanti o, appunto, di destituire quelle esistenti. Da qui, la conseguenza per cui «se al potere costituente corrispondono rivoluzioni, sommosse e nuove costituzioni, cioè una violenza che pone e costituisce il nuovo diritto, per la potenza destituente occorre pensare tutt’altre strategie, la cui definizione è il compito della politica che viene» (ibidem).
Lo schema privilegiato – insieme alle occupazioni del tipo della ZAD di Notre-Dame-des-Landes – con cui il Comité invisible cerca di corrispondere a questo compito è il cosiddetto cortège de tête. A partire da alcune situazioni concrete che si sono prodotte nelle manifestazioni della primavera 2016 contro la Loi Travail, il Comité estrae una sorta di modello immanente che dovrebbe corrispondere alla logica di una potenza destituente.
Quello che, da un certo momento in avanti (cioè, potremmo dire, dal momento della sua identificazione collettiva come modello di azione), si è chiamato cortège de tête non è altro che l’occupazione della testa di un corteo sindacale o politico da parte di alcune migliaia di persone che, uscendo dai loro ranghi, prendono di mira obiettivi simbolici e danno luogo a scontri più o meno violenti e prolungati con le forze dell’ordine. Questo “evento”, che si sarebbe rivelato nella sua massima espressione durante il corteo del 14 giugno, quando «intere sezioni sindacali, compresi i portuali di Le Havre, sono confluiti alla testa di una manifestazione incontrollata di 10000 persone» (p. 29), non va confuso con gli scontri che in Francia si hanno in coda a quasi ogni manifestazione politica. Mentre questi ultimi sono – pare di capire – la stanca reiterazione di un rito di poche decine o centinaia di militanti anarchici e autonomi, il cortège de tête sarebbe non solo l’espressione di un disagio nei confronti delle passeggiate inconcludenti a cui sono ridotte di solito le manifestazioni politiche, ma soprattutto l’organizzazione «realmente esistente» della volontà di «disertare il cadavere sociale» (ibidem) espressa da una molteplicità di soggetti eterogenei. In questo senso, il cortège de tête non è un avvenimento empirico, ma una forma nella quale si rende possibile l’incontro tra coloro che intendono disertare.
Le relazioni affettive che si instaurano in cortei del genere sono certo potenti, dato che implicano l’accettazione di un rischio effettivo e il sentimento comune di una necessità. Esse restano non solo effimere, come ammettono gli stessi autori di Maintenant, ma costitutivamente eccezionali, dato che anche i disertori, al termine di un cortège de tête, tornano, più o meno intimamente mutati, alle loro case e alle loro vite. Benché il Comité invisible sembri impegnato a immaginare la necessità di una rivolta non meramente politica, ma esistenziale e affettiva, e benché scriva un capitolo intitolato à mort la politique, lo “schema” del cortège de tête resta in fondo tradizionalmente politico – del tutto simile, e non soltanto in questo, alla logica dell’insurrezione simbolica che ha caratterizzato diversi movimenti degli ultimi decenni, tra cui quello italiano dei “disobbedienti”.
Quando, d’altra parte, il Comité invisible tenta di indicare le forme di vita non eccezionali della diserzione stessa, il maintenant si svuota rapidamente di contenuti, lasciandoci con un elogio un po’ trito della vita che si vive adesso, della bellezza e della potenza degli incontri, dell’amore, dell’amicizia, dell’intimità con sé e dei legami comunitari.
Il fatto è che questa poetica dell’insurrezione o della destituzione, quando affronta il problema delle forme di vita, si colora di una insopportabile tinta moralistica, che tende a giudicare non dei dispositivi sociali e politici, ma, attraverso l’idea malsana della “servitù volontaria”, le forme stesse della vita. Dire per esempio che il mondo del lavoro salariato «ha consentito a generazioni di uomini e donne di vivere eludendo la questione del senso della vita, ‘rendendosi utili’, ‘facendo carriera’, ‘servendo’» (p. 90) non significa soltanto assumere la postura aristocratica di chi non ha bisogno di fare qualcosa per sopravvivere, ma significa impedirsi di vedere tutti i modi effettivi con i quali, dentro e fuori il lavoro, quelle generazioni di uomini e donne hanno dato senso alle loro vite, costruendo così anche il tessuto esistenziale, per non dire la ragione stessa, di ogni possibile rivolta contro l’ordine del lavoro.
In verità, rispetto ad altri testi del Comité invisible, Maintenant ha pagine che mostrano anche, su quel punto cardinale, una diversa sensibilità. La questione, comunque, resta questa: proprio perché in ogni forma di vita ne va della vita stessa, e proprio perché, di conseguenza, «la vera questione comunista non è ‘come produrre?’, ma ‘come vivere?’» (p. 150), si tratta innanzitutto di vedere che l’essenziale di una potenza destituente non risiede tanto nelle sollevazioni, nei blocchi o nelle occupazioni – che costituirebbero «la grammatica politica elementare dell’epoca» (p. 31), ma che restano per lo più eventi effimeri ed eccezionali – quanto piuttosto nell’affermazione di forme di vita differenti da quelle di cui il capitalismo ha bisogno per continuare a funzionare.
Nelle ultime pagine del testo, gli autori spiegano perfettamente che «il comunismo non è una finalità» e che dunque «non c’è ‘transizione’», perché il comunismo «è tutto intero transizione: è in cammino» (p. 151). Sanno bene che questa «concezione immanente del comunismo» incontra la critica tradizionale di chi afferma «la necessità di una articolazione verticale, strategica, della lotta» (ibidem). E di fronte a questa critica Maintenant abbozza una formula piuttosto vaga, ma condivisibile: «in un’epoca di orizzontalità dichiarata, è l’orizzontalità stessa a essere la verticalità» – precisando immediatamente dopo che questo significa: «nessuno organizzerà più l’autonomia degli altri» (p. 154) – mentre diverse pagine prima si poteva già leggere che «dobbiamo abbandonare l’idea che non ci sia politica se non dove c’è visione, programma, progetto e prospettiva, dove c’è finalità, decisioni da prendere e problemi da risolvere. Di veramente politico c’è solo ciò che sorge dalla vita e fa di essa una realtà determinata, orientata» (p. 63).
Ma il cammino del Comité in questa direzione resta ambivalente, non solo perché ammette, in modo apparentemente contraddittorio, che «di fronte all’organizzazione capitalista, una potenza destituente non può certo tenersi alla propria immanenza» (p. 153), ma soprattutto perché – spiegando che «la sola verticalità ancora possibile è quella della situazione, che si impone a ciascuna delle sue componenti perché la eccede» (p. 154) – continua ad accontentarsi dell’eccezione, mentre avremmo bisogno di riconoscere potenza o, se si vuole, “verticalità” alle stesse forme di vita, cioè ai modi di vivere che occupano stabilmente il tempo ordinario delle nostre esistenze. Il problema, oggi, non è che il conflitto tra modi di vita alternativi raggiunga, schmittianamente, la «soglia d’intensità» (p. 60) capace di dar luogo ad una linea del fronte tra amici e nemici, ma proprio che forme di vita alternative a quelle vigenti vengano alla luce.
Non è un caso, probabilmente, che nel testo non sia presente neppure un caso concreto di forma di vita capace di fungere da modello o da esempio. Non c’è, del resto, da criticarne gli autori, se non per non aver messo a tema questa che è la difficoltà reale a cui si trovano confrontati non solo i movimenti sociali contemporanei, ma tutti coloro che manifestano, in qualunque modo e a qualunque livello, il desiderio o la volontà di sottrarsi allo stato di cose presenti.
Oggi, per noi che viviamo in società a neoliberalismo dispiegato, la questione di fondo è che la realizzazione effettiva di una logica del capitale umano tende a cancellare la possibilità stessa che una qualche forma di vita si affermi. A parte un accenno meramente sarcastico (p. 94), del capitale umano in questo libro non si parla. E non si vede dunque come i dispositivi che spingono a valorizzare e a intensificare, in ogni ambito dell’esistenza, le “abilità” degli individui producano una modalità di vita capace di adattarsi ad ogni cambiamento, ma, proprio per questo, costitutivamente refrattaria a aderire a una forma di vita. Ciò che fa dell’uomo del cambiamento, quello che le tecnologie del capitale umano pretendono di forgiare, un essere “massimamente governabile” (come aveva ben visto Michel Foucault), è appunto il fatto che lo scopo di quelle tecnologie è la produzione di un uomo letteralmente privo di qualunque forma, un uomo definitivamente incapace di coincidere con una qualche forma di vita. In questo senso, si comprende anche come l’individuo progettato dai dispositivi neoliberali debba risultare non contingentemente, ma essenzialmente inadatto a pensarsi in qualcosa come una vita comune. Quest’ultima, infatti, non può che essere una forma di vita comune, cioè non può che consistere nella condivisione di un modo di essere che sussiste indipendentemente dalla vita degli individui che possono adottarlo. Ma ciò di cui il “capitale umano” vorrebbe fare tabula rasa è appunto la possibilità di una forma di vita condivisibile.
Questo certo non significa che siamo ormai presi, fatalmente, dentro un dispositivo inattaccabile. Ma significa che è, innanzitutto, proprio questo dispositivo che dobbiamo imparare a disattivare, se vogliamo che qualcosa come delle nuove forme di vita vengano a popolare i nostri orizzonti. Il problema del come farlo non si risolve certo limitandosi ad esaltare il coraggio della decisione di disertare («è la decisione che traccia nel presente la maniera e la possibilità di agire, di fare un salto che non sia nel vuoto. Questa decisione è la decisione di disertare, di uscire dai ranghi, di organizzarsi, di fare secessione, fosse pure in maniera impercettibile, ma in ogni caso ora»: p. 17). L’elogio del coraggio non è che il rovescio della critica moralista alle forme di vita, e, come quella, è perfettamente ineffettuale. Al di là di una certa retorica di maniera, il Comité invisible sa benissimo che il come è ancora quasi tutto da fare.