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La pedagogia critica di Deligny
Recentemente pubblicata dalle Edizioni dell’Asino l’antologia “I vagabondi efficaci e altri scritti” ripercorre la prima metà del percorso teorico di Fernand Deligny fino all’inizio degli anni Sessanta. Poco conosciuto in Italia, è una figura centrale della pedagogia anti-istituzionale che ha saputo scavare con capacità autocritica nelle contraddizioni del ruolo dell’educatore oltre a ogni ideologia rassicurante, sia essa tecnica o politica
È stata recentemente pubblicata per le Edizioni dell’Asino la raccolta di scritti di Fernand Deligny I vagabondi efficaci, con la curatela di Luigi Monti. Deligny (1913-1996), poco conosciuto in Italia ma educatore di riferimento per la pedagogia francese del dopoguerra, ha lavorato per tutta la vita con bambini e ragazzi “difficili” o, come lui preferiva definirli, «ai margini». Il testo, che raccoglie la prima parte della produzione dell’autore, si apre con “Seme di canaglia”: una raccolta di riflessioni, formulate con il registro dell’invettiva e dell’aforisma, dedicate alla prima esperienza di Deligny come educatore nel padiglione per minori dell’Ospedale Psichiatrico di Armentières. Di fronte agli “ineducabili” di quello che verrà poi ribattezzato “Istituto medico-pedagogico” Deligny inizia a sperimentare il sovvertimento degli orientamenti educativi correnti, rifiutando contemporaneamente le tecniche mediche-psicologiche e gli approcci correttivi filantropici. In questa anticipatoria esperienza di “apertura” di un reparto dell’istituzione totale Deligny sviluppa alcune importanti sperimentazioni che caratterizzeranno anche in seguito la sua pratica: nega gerarchie interne e discipline, vieta le sanzioni, destruttura progressivamente il “setting” aprendo le porte dell’istituzione alla comunità circostante e promuovendo continui confronti tra gli internati e la realtà esterna. In questo senso è molto importante il reclutamento dei “guardiani-educatori”: un corpo professionale che Deligny sceglie tra gli operai disoccupati del luogo, preferendoli agli educatori “professionisti”. L’esperienza, che si svolge sotto il regime di Vichy e nella situazione di piena crisi sociale ed economica legata alla seconda guerra mondiale, ha una durata di pochi anni, durante i quali le contraddizioni dell’impresa sono acuite dall’impossibile “reinserimento sociale” degli internati fuori dal manicomio.
Nel ragionare sui nodi di quella esperienza Deligny sviluppa quella particolare forma di auto-osservazione che sarà centrale nella sua opera. Il confronto con l’adolescente deviante è nutrito dal confronto con l’adolescente che è in lui, con i suoi sogni di trovare un posto nel mondo mentre emerge l’inadeguatezza dei valori dominanti e dei posizionamenti sociali disponibili.
È anche il confronto con quel «farsi vedere, che poi è un modo per nascondersi» che caratterizza la posizione esistenziale sua e degli internati “problematici”, provocatori, destinati all’ospedale psichiatrico o alla delinquenza. In un rimando costante tra l’autoanalisi e il racconto delle biografie bucherellate dei ragazzi che gli sono affidati, Deligny riconosce che nell’assumere quella posizione di educatore speciale c’è in agguato il rischio di “abbandonare gli uomini”, che collocarsi fuori dalla norma sia solo un pretesto per l’autocompiacimento. Si tratta del “ciarlatanismo funambolico”, che rifiuta i valori dei “normali” ma si colloca in una posizione in cui non può scalfirli né metterli a critica perché si richiude nello spazio totalmente altro del “fuori”, che è poi nella pratica un dentro senza speranza: uno dei rischi della posizione dell’educatore che emergono dalla costante messa in discussione del suo ruolo. Insieme a esso si delinea lungo tutta l’opera uno spettro ampio di degenerazioni del ruolo educativo: dallo specialismo tecnicista al moralismo filantropico, fino all’illusione progressista di istituire l’uomo nuovo attraverso il lavoro pedagogico (mentre il contesto politico esterno resta caratterizzato da ingiustizie e disuguaglianze).
Nel successivo incarico di coordinatore pedagogico in un centro di osservazione per il recupero di adolescenti delinquenti inviati dalla giustizia penale, messo in piedi a Lille nel gennaio del 1945, Deligny vive con distacco e ironia il ruolo che gli viene dal mandato sociale della “correzione morale”, che insieme accetta e rifiuta: «per noi, prendere in carico un ragazzino, non significa cavare d’impaccio la società, cancellarlo, riassorbirlo, addomesticarlo. Significa innanzitutto rivelarlo (come si dice in fotografia) e tanto peggio, in un primo tempo, per i portafogli in circolazione, le orecchie abituate alle moine salottiere, i vetri fragili e costosi. Tanto peggio per il quartiere che ci guarda dall’alto». Nel centro di osservazione vengono riadattate e approfondite alcune acquisizioni della pratica precedente come gli educatori-operai; di essi l’autore dice, in una radicale critica della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale: «le ricchezze, l’energia, l’avidità scoperte mi hanno sempre sorpreso, fino allo stupore. Per quali aberrazioni dell’organizzazione sociale degli esseri come quelli erano richiusi in se stessi, considerati al massimo capaci di controllare il ciclo di un lavoro tessile o di servire una macchina utensile?». Vengono istituite attività produttive retribuite per gli ospiti, si apre quotidianamente il centro alla cittadinanza del benestante borgo circostante, si dà ai ragazzi la possibilità di interagire con l’esterno (se pur sottoposti a misura restrittiva decisa dal giudice, la possibilità di uscire dal centro era a discrezione di Deligny), anche con periodi di prova nella propria famiglia o in altre famiglie operaie accoglienti: attraverso queste pratiche si approfondiscono le critiche alle incrostazioni moralistiche e benpensanti che informano la pratica pedagogica.
Nel momento in cui Deligny entra in contatto da coordinatore con gli specialismi dei corpi professionali e con i tecnicismi dell’amministrazione sociale si approfondisce anche l’analisi critica del ruolo educativo.
Deligny sceglie di distogliere lo sguardo delle oggettivazioni tecniche del carattere individuale dei devianti e di osservare piuttosto le frizioni tra l’adolescente “disadattato” e l’ambito familiare, sociale e politico. Tale osservazione non è orientata alla ricerca del calco psicosociologico delle pressioni ambientali sul comportamento infantile ma alla valorizzazione della posizione erratica del deviante, che crea linee di fuga rispetto alle condanne assegnate dai contesti come destino. Tali linee di fuga sono utili come stimolo creativo alla ricerca e alla rivolta.
«Se dico: “I bambini sono tali e quali i genitori li hanno fatti e educati…”, trovo unanime approvazione.
Se continuo: “I genitori sono tali e quali la società contemporanea li costringe a essere. Bisognerebbe pensare di cambiare in un sol colpo le condizioni di vita…”, mi si chiudono la bocca e il centro che dirigo, con il pretesto che alcuni dei suoi operai non hanno, mia cara, l’aspetto dei veri educatori”».
Come la precedente esperienza, anche questa chiude dopo poco più di un anno per decisione dell’amministrazione centrale. I percorsi di Deligny non arrivano mai a “istituzionalizzarsi”, la sua opera non arriva quasi mai a individuare una forma accettabile di compromesso tra la libertà di quelli che ormai definisce i “vagabondi efficaci” e gli accorgimenti morali e tecnici che le amministrazioni impongono come rivestimento funzionale alla sua pratica.
Negli scritti relativi a questa fase matura l’approccio “anti-pedagogico” di Deligny: l’erranza dei vagabondi va legittimata in ciò che può sviluppare di efficace. Al di là della strutturazione compiuta di ogni progetto educativo, il deviante, confrontandosi direttamente con il mondo, sceglierà una serie di regole a cui attenersi perché esse gli consentono di realizzare praticamente una sua forma di libertà. Da questa consapevolezza deriva un movimento doppio: da una parte una grande considerazione per i «fallimenti che, soli, sono speranza di scoperta» di sé, delle proprie possibilità e delle soluzioni organizzative provvisorie che si adottano collettivamente; dall’altra un approccio che rifiuta la contrapposizione frontale con le istituzioni esistenti. È quella che Luigi Monti definisce la tendenza a sviare, a deragliare, a contrastare erodendo dall’interno le contraddizioni. Pur collaborando sempre con le istituzioni, perfino quando si trasferì nelle Cévennes, o addirittura servendo quelle fasciste del regime di Vichy, l’arte di Deligny è stata sempre quella dello schivare, dello scartare, del deragliare, per trovare a ogni occasione il modo di “fare un’altra cosa”. Lungo gli anni di questa formazione anti-pedagogica la tendenza a “disfare” sarà esercitata su sé stesso e sull’oggetto della propria pratica, rifiutando i modi in cui essa è alternativamente definita dalle categorie penali, pedagogiche, psicologiche e morali. In questo percorso si va illuminando il senso di quella libertà che Deligny vede riflessa nei vagabondi.
Il superamento della pedagogia
In un appunto della maturità Deligny riconosce che la «pubertà sociale» è «questa accettazione pura e semplice dei modi che hanno gli uomini di non essere mai se stessi e di mutilare, con odio, i bambini». Le forme di mutilazione sono variamente descritte lungo tutto il libro, essendo queste il principale oggetto delle osservazioni che si possono trarre dai “disadattati”. Sempre in una nota autobiografica si trova un’immagine che può condensarle: i bambini vengono mutilati quando «la morale insegnata senza precauzioni diventa una cattedrale deserta che temono e di cui spaccano le vetrate come reazione al loro odio per questa vita collettiva da cui sono esclusi, bambini delusi anzitempo di non essere uomini adulti». Così Deligny ha trovato la sua iniziale mutilazione nell’ambiente piccolo-borghese di provincia: pretenzioso, affogato nel moralismo benpensante condiviso da tutte le classi sociali, dove i sogni di autorealizzazione attraverso la cultura espongono a dicotomie incompatibili con la coscienza dei suoi privilegi di classe. Secondo Deligny il “cancro capitalista che, come si suol dire, punta dritto al cuore”, mischia a tal punto da rendere irriconoscibili il soddisfacimento dei propri bisogni e l’accettazione del mondo così com’è, l’adeguamento alla norma sociale. La norma sociale si legge anche tra i valori propri della piccola borghesia da cui provengono gli educatori e i militanti politici comunisti, con cui Deligny condivide spesso le lotte e il posizionamento. Il privilegio relativo di questa condizione è legato allo «sdegno involontario, che si può leggere su molte facce» che ciascuno prova per tutti gli altri (gli impiegati di banca per gli operai, i lavoratori nelle condizioni più misere per chi non ha lavoro o indossa una divisa, il funzionario sindacale per il “popolo” apatico e disinteressato, ecc.) e che fa da inconsapevole motore esistenziale a scelte politiche e identitarie. Per esempio, dice Deligny parlando di sé giovane e dei suoi compagni: «leggevamo perché non sapevamo come vivere». È così che emerge quello che, ripensando al suo primo scritto Seme di canaglia, Deligny definisce «l’abilità piccolo-borghese dell’educatore che, destreggiandosi nelle proprie contraddizioni, le ha tradotte in paradossi».
Di seguito, trovandosi nell’impossibilità di comporre la contraddizione tra il moralismo del mandato e la sperimentalità della pratica nel centro di osservazione, accostandosi a nuove collaborazioni con militanti trotskisti e libertari, psichiatri critici e attivisti con cui condivide il rifiuto radicale dell’esistente, matura una posizione di distanza sempre più netta sia dalle etichette diagnostiche della psico-pedagogia sia dalle «ideologie umanistiche dell’infanzia, tanto di matrice comunista che cristiana» (Luigi Monti, p. 65).
La terza vicenda riportata dal libro (che, sebbene accompagnata da meno scritti delle precedenti, dura una decina d’anni, dal 1948 fino agli inizi degli anni ‘60), quella della “Grande Cordata”, è un esperimento di educazione libertaria, senza alcun setting, in cui la funzione degli educatori è quella di costruire una rete variabile di occasioni di inserimento lavorativo in cui l’utente può muoversi liberamente. Le esperienze oggi più avanzate di inserimento sociale di utenti psichiatrici come l’Individual Placement Support o il Budget di Salute in parte riproducono e mettono a sistema questo tipo di impostazione. Ma Deligny lo fa con poche risorse e mezzi limitati, temporanei. Nel frattempo, nei luoghi tendenzialmente isolati in cui prende l’abitudine di rifugiarsi accompagnandosi con i meno “adattabili”, matura la dimestichezza con il mezzo cinematografico, indagato non solo come strumento estetico ma come mezzo di produzione della realtà e quindi come pratica (anti)pedagogica. Lungo questo percorso si incammina verso il ritorno al rapporto con gli autistici che «non chiedono alcuna liberazione»: sarà un ulteriore campo di immersione pratica e teorica da cui svilupperà un nuovo interesse per le possibilità di comunicazione che si trovano oltre il linguaggio, attraverso «i segreti di questa materia sconosciuta che sta tra gli uni e gli altri e che chiamiamo l’ambiente». È il «tentativo delle Cévennes» che porterà avanti per trent’anni, dal 1968 fino alla morte, avvenuta nel 1996, con ragazzini autistici e mutacici, che il curatore promette di raccontare in una seconda antologia di testi.
Deligny è oggi centrale per la capacità autocritica con cui ha saputo scavare nelle contraddizioni che il ruolo di educatore implica; il suo posizionamento critico e autocritico gli permette di tenersi lontano da ogni ideologia rassicurante, sia essa tecnica o politica. Nel suo finale congedo da ogni intenzione terapeutica e rieducativa c’è il rifiuto della dimensione manipolatoria e paternalistica del linguaggio, spesso condivisa dalle organizzazioni moralizzatrici per l’infanzia “difficile” e dai militanti istituzionali.
Pur restando per tutta la vita un critico del capitalismo e un rivoluzionario, la sua difficoltà di inquadramento ufficiale richiama altre vicende biografiche da cui emerge il rapporto teso tra le esperienze anti-istituzionali e le organizzazioni formali della sinistra nella seconda metà del XX secolo. Come è accaduto a Franco Basaglia, impossibilitato a sviluppare le sue pratiche nell’Emilia “rossa” degli anni ’70 (prima a Bologna poi a Parma) e a Félix Guattari, osteggiato dai sindacati e dalla sinistra ufficiale durante le sperimentazioni alla clinica di La Borde, le battaglie locali che puntavano a connettere il proprio campo specifico con il campo politico più generale hanno sempre dovuto dibattersi tra processi di recupero funzionale all’esistente e scontri con i caratteri “egemonici” delle organizzazioni formali di sinistra.
Oggi la sua esperienza ci lascia la consapevolezza autocritica che, nel ruolo di educatore, è importante liberare il proprio sguardo per liberare i ragazzi dalla pesantezza di qualsiasi oggettivazione professionale, ideologica, morale. In bilico costante tra ricerca e rivolta, tra mandato istituzionale e libertà, tra l’essere dei poveri vagabondi senza speranza e l’essere efficaci, Deligny ricorda l’importanza di riflettere costantemente e in modo critico sul proprio posizionamento.