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OPINIONI

La pandemia, tra la natura e gli esseri umani

L’OMS ha ufficializzato la fine dell’emergenza sanitaria. Siamo tornati alla normalità, ma può la pandemia definirsi eccezione? L’interazione tra umani e patogeni è antica quanto la storia della nostra specie

È notizia recente che l’OMS ha infine ufficializzato quel che già si era affermato nella percezione collettiva: il coronavirus non è più un’emergenza sanitaria. Superata la pandemia, salvo eventuali recrudescenze –ipotizzate con forza da diversi esperti del settore – e riacquistata la tanto agognata “normalità”, è il tempo di fare i conti con quanto avvenuto. E di acquisire la consapevolezza che potrebbe nuovamente accadere.

Nelle prime fasi, è sembrato che la pandemia fosse un’assoluta eccezione nel normale corso degli eventi, un incidente imponderabile e irripetibile. Così non è. L’interazione tra umani e patogeni è antica quanto la storia della nostra specie. Basti pensare che circa l’8% del nostro DNA è costituito da sequenze di origine virale, ovvero di DNA “lasciato” in eredità al nostro organismo dalle centinaia di virus che l’hanno infettato nel corso della nostra storia naturale.

Nel DNA di tutti gli organismi viventi alcune sequenze di ancestrale origine virale dette trasposoni sono ancora a oggi in grado di integrarsi in un’altra posizione del genoma, esattamente come farebbe del DNA virale durante una normale infezione, “DNA parassitario” che da milioni di anni continua a comportarsi in modo simile a quello di quando apparteneva agli antichi virus da cui ci è stato lasciato in eredità. E senza voler andare così lontani, le pandemie hanno accompagnato la nostra storia anche in tempi recenti. Solo dall’inizio del ‘900 a oggi abbiamo avuto l’influenza “spagnola” nel 1918 (20-50 milioni di morti), l’influenza “asiatica” nel 1957 (1 milione di morti), la febbre “di Hong Kong” nel 1968 (1 milione di morti). Questo per menzionare solo quei patogeni con caratteristiche epidemiologiche “simili” a quelle del SARS-CoV2. Ma potremmo menzionare anche i “tre grandi” patogeni che causano a oggi tra i 2 e le 3 milioni di morti l’anno: HIV, Tubercolosi e Malaria.

Barbara McClintok, premio Nobel per la medicina per la scoperta dei trasposoni (da da picryl)

Tutto questo ci dice che in realtà il rapporto con gli agenti infettivi dovrebbe risultare assolutamente “normale”, per chi ha uno sguardo rivolto, se non proprio alla storia evolutiva complessiva della nostra specie, almeno agli ultimi secoli di storia. Eppure, la percezione diffusa e ampiamente alimentata da media e istituzioni è stata quella di un fenomeno evenemenziale, imprevedibile, quasi una stortura nel normale scorrere del tempo. Questa percezione riguarda molto l’immaginario occidentale per cui in qualche modo i morbi infettivi apparterrebbero al passato delle nostre società e oggi riguarderebbero principalmente i paesi poveri. Un immaginario dovuto a uno sguardo rivolto agli ultimi 60-70 anni di effettive “vittorie” sulle malattie infettive in Occidente ma che non è abbastanza ampio da abbracciare la complessità dell’interrelazione tra esseri umani, ambiente e microrganismi che si dipana su tempistiche ben più grandi di qualche decennio.

In questo c’è una profonda assunzione della promessa di benessere e liberazione dalle sofferenze promulgata dal capitalismo in questi ultimi decenni, di fronte allo sviluppo delle scienze mediche. Benessere almeno per i benestanti, ça va sans dire. La pandemia, l’impreparazione dei sistemi sanitari, i dubbi sulla gestione del fenomeno, hanno rappresentato un tradimento delle suddetta promessa, mostrando la fallibilità di uno sviluppo capitalistico che nel corso di qualche decennio ha dichiarato di poterla far finita con un fenomeno inscritto persino nello stesso codice genetico di Homo sapiens. In questo senso il refrain criminale che abbiamo ascoltato per mesi sul fatto che il COVID fosse “un raffreddore” è figlio anche dell’incapacità di accettare che qualcosa di così primitivo e selvatico come un morbo venuto fuori da qualche pipistrello nel profondo di una foresta asiatica possa realmente marcare violentemente il corpo sano, performante e ben nutrito di un essere umano occidentale.

Non a caso questo ridimensionamento del SARS-CoV2 è stato praticato con maggior foga proprio da quei personaggi pubblici più brutalmente razzisti e al contempo più profondamente innamorati del mito dello sviluppo occidentale inteso in termini di competizione produttiva col resto del mondo e mai come sviluppo sociale, culturale, ambientale (vedi Trump e Johnson).

Il Premier britannico Boris Johnson, in prima battuta scettico sulla pericolosità del Covid-19, poi ricoverato in ospedale proprio per Covid-19, esulta all’atto della vaccinazione (da flickr)

Sull’altro lato della barricata, in molti hanno ascritto le cause del fenomeno pandemico allo sviluppo capitalistico e alle sue ricadute ambientali, foriere di sconvolgimenti nelle relazioni ecologiche da cui deriva l’emergere di nuovi patogeni umani. Sistemi sanitari rivolti unicamente alla cura e non alla prevenzione, attenti unicamente alle malattie metaboliche e non a quelle infettive, mirati sulla dimensione individuale e non su quella collettiva e definanziati sono incapaci di affrontare un fenomeno come una pandemia.

I commerci intensivi, gli scambi, la globalizzazione e l’urbanizzazione capitalistica accelerano la diffusione dei patogeni. Tutto vero e innegabile e del resto ampiamente documentato da ampia letteratura scientifica. E anche oggi, dopo la pandemia, la comunità scientifica continua a segnalare che il rischio di future pandemie è molto alto, imminente e strettamente legato ai cambiamenti climatici e alla devastazione degli ambienti naturali. Una recente e paradigmatica ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista “Nature” descrive un futuro immediato a tinte piuttosto fosche [1]. Secondo gli autori infatti, in conseguenza dell’innalzamento delle temperature di circa 2 gradi, la localizzazione geografica e le abitudini dei mammiferi cambieranno radicalmente favorendo continui incontri tra popolazioni animali differenti che porteranno nei prossimi 50 anni a circa 15mila eventi di spillover di virus da specie a specie.

In particolare questi passaggi di specie sono previsti avvenire nelle zone altamente urbanizzate dell’Africa, della Cina, dell’India e del Sud-Est asiatico. Inutile dire che una tale vivacità virale a ridosso di queste aree può costituire una bomba biologica pronta a esplodere. Non c’è insomma bisogno di andare a ricercare la minaccia in qualche “virus zombie” che dovrebbe riemergere dopo centinaia di migliaia di anni dal permafrost e improbabilmente arrivare fino a infettare un essere umano. Al solito, la minaccia è in realtà proprio appena fuori le periferie dei grandi centri urbani, nei grandi allevamenti intensivi, al confine di aree in via di deforestazione. Esattamente dove più marcata è l’attività delle società umane.

Affrontare questa enorme minaccia con l’atteggiamento colpevolizzante di chi punta il dito contro un’astratta “umanità” colpevole di aver sfregiato una Natura con la lettera maiuscola, madre, vergine e illibata e invita a una fumosa e ideologica “riscoperta” della nostra connessione con questa genitrice, della nostra “animalità”, rischia da un lato di risultare poco più che un appello morale rivolto indiscriminatamente a tutti gli esseri umani, eccezion fatta forse per tribù o chefferie di territori isolati che non hanno evidentemente un’impronta ecologica impattante. Dall’altro, rischia di collocare l’umanità stessa in una dimensione astorica e assoluta, nella quale si perde di vista il tema dell’organizzazione sociale e di come si è storicamente data.

Se è vero che l’utilizzo della tecnica e dell’attività lavorativa per modificare la natura e utilizzarla per il proprio tornaconto sono caratteristiche intrinseche dell’essere umano, quel che è cambiato negli ultimi due secoli, ovvero da quando si sono registrati i più grandi sconvolgimenti ambientali di origine antropica, è l’organizzazione sociale di questa attività. Il capitalismo insomma che non precede di certo una postura utilitaristica e trasformativa dell’essere umano nei confronti dell’ambiente circostante ma piuttosto le succede e la organizza socialmente in forme nuove.

Ma quanto fin qui detto, per quanto corretto, non deve portare a posizioni massimaliste e ideologiche tali per cui in fin dei conti lo sviluppo capitalistico sarebbe a tutti gli effetti l’“agente eziologico” delle pandemie. Il problema sta anche qui nel punto di vista terribilmente ristretto. C’è il rischio di ritenere che in effetti, superato il capitalismo e instaurato infine un sistema socialista, verrebbe meno la ragione stessa dell’emergere di nuove pandemie. Ma almeno a giudicare dalla storia dei paesi del così detto “socialismo reale”, le cose non sono andate proprio così. Tutte le pandemie che hanno colpito l’occidente, hanno colpito anche questi paesi.

Credit: Wellcome Library, London

Durante la pandemia di influenza “asiatica” del 1957, l’URSS registrò un numero di morti uguale se non maggiore di quello dei paesi del blocco occidentale. Quella pandemia del resto ebbe origine nella Cina socialista, come in quello stesso paese originò la febbre di Hong Kong, il SARS-CoV2 e il suo cugino SARS nel 2022. Caso particolare è quello di Cuba che ha invece reagito efficacemente alla pandemia, basandosi sulle sue sole forze e su un sistema di ricerca e sanità all’avanguardia. Eppure, anche nell’isola caraibica è stata registrata una mortalità del 0,75%, molto più bassa di quella di molti paesi a capitalismo avanzato ma nella media della mortalità registrata nei vari paesi del mondo. Al di la delle esperienze del socialismo reale, appare almeno ingenuo pensare che possa esistere un’organizzazione sociale in grado di rendere la sfera dell’umanità strutturalmente autonoma da quella della “natura” e delle sue ricadute più spiacevoli.

Questo non significa che sia inevitabile che le pandemie si ripetano sempre uguali a se stesse, ma che la particolare manifestazione di questo fenomeno è frutto di una dialettica molto complessa tra società umane e ambienti naturali e che in questa relazione il secondo termine non va ridimensionato a mera funzione del primo che passivamente si limiterebbe a reagire agli input da questo ricevuti. Una nuova organizzazione sociale non porterebbe dunque a farla finita con le pandemie – e più in generale con tutte quelle condizioni di fragilità proprie della nostra zoé e della nostra relazione con l’ambiente circostante – ma definirebbe piuttosto un nuovo rapporto con gli ambienti naturali, dal quale potrebbe discendere una diversa forma con cui le società umane vengono esposte a determinati fenomeni ma difficilmente una diversa sostanza dell’interrelazione intima e costitutiva tra esseri umani e agenti infettivi, salvo immaginare un futuro distopico in cui ogni singolo essere umano condurrà l’interezza della sua vita in una tuta anticontaminante.

La strada da intraprendere è quella di un’interpretazione dialettica, materiale e storica dei rapporti tra le società umane e gli ambienti naturali. In questo senso, il terreno dell’ecologismo radicale è il miglior campo di battaglia e il miglior strumento politico di attenuazione del rischio pandemico di cui siamo dotati. Sarà importante tuttavia rifuggire due atteggiamenti che sono spesso presenti negli ambienti dell’ecologismo radicale.

Da un lato una visione olistica della realtà in cui si perdono le relazioni concrete e i processi reali in nome di un messianico e penitente “ritorno alla natura” di un’umanità decisamente troppo umana; dall’altro ciechi fideismi nel progresso, che dovrebbe di per sé garantire un futuro radioso di salute, liberazione dalle sofferenze e in definitiva di impenetrabilità delle società umane agli agenti naturali. Non per una rassegnata accettazione della nostra vulnerabilità ma per una concreta comprensione della nostra natura ecologica e relazionale.

[1] Carlson et al., Climate change increases cross-species viral transmission risk, “Nature” 2022.

Ultima immagine nell’articolo: V0010697 The path of infection of plague from rats via fleas to man. Credit: Wellcome Library, London. Wellcome Images images@wellcome.ac.uk http://wellcomeimages.org The path of infection of plague from rats via fleas to man. Drawing by A.L. Tarter, 194-. By: Albert Lloyd TarterPublished: 194-?] Copyrighted work available under Creative Commons Attribution only licence CC BY 4.0 http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/copertina da da wikimedia commons

Immagine di copertina di Herr Norbù da Openverse