MONDO
La pandemia in Africa oltre il catastrofismo
Una critica della narrazione catastrofista sulla pandemia nel continente africano e una riflessione sulla difficoltà delle misure di lockdown e distanziamento fisico a partire dalla realtà urbanistica di Tamale, una delle città più dinamiche dell’Africa Occidentale.
«Per ora la diffusione del Covid-19 è moderata, ma si prospetta la catastrofe», «Un’impennata dei contagi darebbe la spallata finale al continente», «Quello che più si temeva è accaduto: l’Africa è stata contagiata», «Waiting for the Storm». Questi sono solo alcuni dei commenti giornalistici degli ultimi due mesi sull’arrivo del Covid-19 in Africa, il tutto condito da numeri da capogiro (il più delle volte si parla di milioni di morti dirette) e da una crescita esponenziale dei contagi data come sempre come più imminente.
I dati ufficiali, tuttavia, raccontano qualcosa di estremamente diverso: con il primo caso accertato in Egitto più di due mesi fa, a oggi (7 maggio) si contano 51.549 contagiati, 2.006 morti, 17.634 guariti. Numeri lontanissimi da quelli pronosticati e se sul numero dei contagi è legittimo avere dei dubbi visto il basso numero di tamponi, su quello delle morti sarebbe molto più complicato farsi sfuggire un eventuale picco di quelle legate al virus. Quindi quello che possiamo affermare a oggi è che l’espansione del Covid-19 in Africa è costante ma a bassa intensità.
Perché allora la narrazione dominante continua a pronosticare il disastro? E perché dopo due mesi, vista la mancanza di giustificazioni scientifiche per la mancata crescita esponenziale dei contagi, si continua ad affermare che sia solo una questione di tempo?
È difficile ignorare nell’imponente mole di articoli riguardanti l’Africa e la pandemia i pregiudizi e stereotipi che continuano a caratterizzare la narrazione del continente. Anche quelli che simpatizzano con la “causa”, mettono per lo più in risalto una fantomatica resilienza creativa degli africani, ad esempio per la produzione delle mascherine, rimanendo di fatto impantanati in una retorica del “poveri ma belli”.
Come già affermava Jean-François Bayart in uno dei più importanti libri sulla politica africana, The State in Africa. The Politics of the Belly, «questo è il fallimento di coloro che descrivono la povertà dell’Africa e vedono quest’ultima come l’oggetto piuttosto che il soggetto del suo futuro. L’Africa è variamente vista come condannata, paralizzata, disincantata, alla deriva, ambita, tradita o strangolata, sempre con qualcuno da incolpare».
L’incapacità di riportare le narrazioni sull’Africa all’interno di un framework ordinario, è ancor più accentuata in una situazione straordinaria come la pandemia attuale e dunque, se il Nord del mondo è stato colpito così gravemente, il destino che aspetta l’Africa deve essere catastrofico.
Considerato come inevitabile, viene annunciato ogni giorno tanto da destra quanto da sinistra. Non vogliamo in alcun modo sottovalutare i limiti e le fragilità sistemiche (non solo sanitarie) dei diversi paesi che si troverebbero in estrema emergenza qualora dovessero affrontare l’intensità dei focolai che hanno colpito prima la Cina, poi l’Europa e gli Stati Uniti. Tuttavia a oggi questo semplicemente non è accaduto e la variabile temporale da sola non basta per prevedere cosa accadrà nel continente nei prossimi mesi.
I diversi paesi hanno adottato con grande reattività misure per evitare il diffondersi del contagio, tanto a livello governativo quanto a livello civile, avendo fatto tesoro anche delle strategie utilizzate per sconfiggere l’Ebola.
In Ghana, ad esempio, il governo ha da tempo chiuso i confini e limitato gli spostamenti interni (che piacciano o meno sono misure in linea col resto del mondo), mentre dall’annuncio dei primi contagi una tanica d’acqua con rubinetto e sapone campeggiano all’uscio di qualsiasi attività commerciale e le già citate mascherine di stoffa si trovano con grande facilità.
In molti si sono soffermati, a ragione, sulla difficoltà di utilizzare strumenti di contenimento del virus come il lockdown e il distanziamento fisico, tuttavia anche in questo caso descrivendo le condizioni di sovraffollamento e scarsità d’acqua negli slum di megalopoli come Lagos, Kinshasa o Nairobi, condizioni che, seppur di estrema rilevanza, rappresentano una fetta molto particolare della popolazione africana.
Sempre tenendo a mente la validità di questi contributi, proveremo a commentare l’estrema difficoltà nell’adottare misure come lockdown e distanziamento fisico in un contesto più “ordinario”, attraverso la realtà di Tamale, capitale della Northern Region del Ghana e una delle città più dinamiche dell’Africa Occidentale.
Nell’intera Northern Region sono stati registrati per ora 16 casi e le misure adottate sono il divieto di assembramenti religiosi e sportivi e l’obbligo di distanziamento fisico, mentre si è deciso di non attuare un lockdown totale visto il basso numero di contagi.
La crescita urbana di Tamale è stata costante fino agli anni Ottanta, quando gli aggiustamenti strutturali imposti dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale hanno deregolamentato ampie fette di mercato e incoraggiato l’espansione del settore informale e privato, creando nuovi posti di lavoro (con pochi o nessun diritto riconosciuto ai lavoratori).
Inoltre la ristrutturazione e sviluppo della strada Kumasi-Tamale-Bolgatanga ha permesso un considerevole aumento del traffico dei camion, facendo di Tamale uno dei più importanti, se non il più importante, centri di distribuzione del Nord del Ghana. La popolazione, fino a quegli anni prevalentemente agricola (intorno al 70%) e con una costante migrazione verso Accra e Kumasi, ora ha uno dei più alti tassi di crescita demografica del paese e è prevalentemente impiegata nel settore informale (nel report nazionale sul censo del 2010 l’81%).
Data la diffusione del settore informale in Africa, vale la pena chiedersi come organizzare un lockdown di 30-40-50 giorni per un’ampia maggioranza di soggetti che «riescono a evitare il peggio solo attraverso un continuo processo di improvvisazione flessibile» (Ferguson, Gives a Man a Fish) e senza alcuna entrata dal primo giorno di lockdown.
Per quanto riguarda il distanziamento fisico, la nota positiva è che ci sono “ampi” spazi tra un’abitazione e l’altra, i palazzi con appartamenti coprono appena l’1% e anche in quei quartieri dove l’acqua corrente e l’elettricità vanno e vengono manca la variabile della sovrappopolazione a rendere la situazione esplosiva.
Tuttavia Tamale, come molte altre città africane, ha nel mercato centrale il cuore pulsante della propria economia quotidiana.
Centinaia di persone vengono dai villaggi limitrofi per vendere e comprare beni di prima necessità e il mercato, oltre alle strade limitrofe, è l’unico luogo dove è possibile acquistare frutta, verdura, carne e pesce. Nessuno dei numerosi minimarket ha disponibilità di questi prodotti basici. Insomma, tutti sono costretti a passare per il mercato, luogo sempre affollato e caratterizzato da spazi stretti che rendono impossibile non accalcarsi.
Commentare la complessità di attuazione di misure come lockdown totale e distanziamento fisico in Africa non solo attraverso lenti d’analisi “straordinarie” come quella degli slum, ma anche attraverso lenti “ordinarie”, come diritti del lavoro e politiche urbane, è necessario per evitare la perniciosa narrazione di un’Africa condannata sempre ad avere la peggio e soprattutto per costruire un terreno comune di articolazione delle lotte.
Foto di Jacopo Favi, Tamale, 5 maggio 2020.