ITALIA
La maestra sospesa. Peggio delle manganellate solo la rabbia soffocata
Claudio Dionesalvi, attivista, scrittore e insegnate, riflette sulla vicenda che ha coinvolto la docente di Torino sospesa dal servizio per aver inveito contro le forze dell’ordine di fronte alle telecamere durante un corteo antifascista duramente caricato: “Se oggetto di rappresaglia è la rabbia che Lavinia Cassaro esprimeva, si tratterebbe di un fatto inedito”.
La collega di Torino che inveiva contro i poliziotti, è stata sospesa dall’insegnamento e rischia di essere licenziata. Mi lasciano perplesso le motivazioni con le quali l’Ufficio Scolastico ha adottato questo provvedimento. Se oggetto di rappresaglia è la rabbia che Lavinia Cassaro esprimeva, si tratterebbe di un fatto inedito. Non c’è una legge che dinanzi alla manifestazione pubblica e verbale della propria collera e delle proprie emozioni, anche in forma plateale, comporti la perdita del posto di lavoro. Sì, c’è il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, ma soltanto nella legislazione d’emergenza vigente negli stadi di calcio una sanzione amministrativa può precedere la denuncia penale. In ogni caso, il reato deve essere prima provato nelle aule di un tribunale. Non si può sanzionare una persona in base alle immagini che circolano sui social. Comunque vada a finire, un atto di rabbia compiuto all’esterno delle mura scolastiche, è un gesto che pur essendo politico, rientra nella condotta di vita individuale. Non ha pertinenza con le funzioni svolte nel contesto educativo. Punire la dimensione privata di un insegnante, è un gesto da Stato etico, non da sistema sedicente “democratico”.
Davanti ai provveditorati ho sentito centinaia di colleghi esasperati da precarietà, trasferimenti a distanze remote e abusi amministrativi, urlare frasi irripetibili contro il governo e la classe politica. A nessuno però è mai venuto in mente di sospenderli. E meno male! Eppure mi viene da pensare che in fondo le circostanze siano simili. La polizia è un’entità a tutela dell’ordine pubblico. L’esecutivo e il parlamento sono due dei tre poteri dello Stato. Sarebbe pazzesco se tutte le persone che inveiscono in pubblico contro lo Stato perdessero il lavoro! In realtà il provvedimento adottato nei confronti della collega maestra è scaturito dal suo inveire contro le forze dell’ordine. Ecco, allora forse è tutto chiaro: siamo di fronte alla solita, vecchia, immancabile ragion di Stato. Guai a chi osa imbrattare l’unico forzuto presidio che ha consentito alla classe politica italiana, e a chi la foraggia, di cambiare pelle in questi 70 anni, mantenendo però stabile il sedere sul trono dei privilegi.
Proviamo a fare un ragionamento da educatori. Sì, è vero, sotto la divisa c’è una persona, e la persona si rispetta SEMPRE. Ma anche una persona che picchia selvaggiamente, usa violenza cieca, disprezza i corpi e la dignità di altri esseri umani, è da considerarsi “una persona” e basta? Non si può attribuirle degli aggettivi che qualifichino la sua condotta disumana? Il riferimento non è al poliziotto che fa il suo lavoro: carica, manganella e arresta. C’è poco da scandalizzarsi. Purtroppo quello è fisiologico in un sistema democratico fondato sullo sfruttamento e la disuguaglianza. Il problema è che da sempre sono in servizio anche agenti dello Stato che infieriscono sui fermati, sferrano calci alla testa di persone cadute a terra, torturano, entrano nelle celle e massacrano di botte i detenuti. Lo certificano sentenze emesse dai tribunali di questo Stato. Lo scrivono autorevoli storici, non sempre di sinistra. Lo confermano organi europei di giustizia. Si dirà che anche il poliziotto è un essere umano fatto di nervi e sentimenti. Nella reazione a un attacco, può capitargli di perdere il controllo. Spesso però ciò accade in maniera scientifica e calcolata. Eppure la legge prevedrebbe soltanto l’arresto, non le punizioni corporali ai danni dei fermati.
Il fatto è che solo chi è passato sotto una carica della celere, chi ha subito un pestaggio, chi s’è ritrovato in una sala operatoria dopo essere stato aggredito da uomini dello Stato, può capire che cosa si provi. Umano è lo sfogo, naturale la rabbia verbale quando si subisce violenza. Tanto per fare qualche esempio recente, lo sanno gli abitanti NoTav in Val Susa, lo sa chi stava nella scuola “Diaz” a Genova nel 2001, lo sanno le popolazioni del Salento contro il progetto Tap, gli operai di numerose fabbriche fallite in questi anni, gli studenti in movimento, i migranti inseguiti e picchiati con i figli in braccio a Roma la scorsa estate.
Non sono stati sospesi i poliziotti che a Genova come in altre diecimila situazioni si sono accaniti verbalmente e fisicamente contro persone inermi. Non solo sono rimasti in servizio, ma in alcuni casi hanno ottenuto addirittura una promozione. Ecco perché indigna, ma in un certo senso non stupisce, che la collega maestra di Torino sia stata sospesa. Tutto avviene in nome della ragion di Stato.
Rimangono dunque alcune domande retoriche da porre. È ancora possibile per un docente scolastico, per un giornalista, per chicchessia, affermare liberamente che in questo Paese dal secondo dopoguerra le forze dell’ordine NON sono state usate solo per combattere il crimine? Si può dire e scrivere che molti o alcuni poliziotti, carabinieri e agenti della Guardia di finanza hanno picchiato, ucciso o perseguitato tantissime persone colpevoli solo delle proprie idee e delle rivendicazioni politiche e sociali che portavano avanti?
Cinquanta anni fa, chi stava dalla parte della legalità? Gli studenti che lottavano per il diritto allo studio e la libertà d’espressione o quei poliziotti che li picchiavano?
L’articolo 33 della costituzione parla chiaro, ma l’aria che si respira in questo Paese sembra smentirlo. L’arte e la scienza sono ancora libere? Ne è ancora libero l’insegnamento?
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