MONDO
La lotta del popolo mapuche un anno dopo la desaparición di Santiago Maldonado
Poco più di un anno fa, ai primi di agosto del 2017, sui media iniziava a circolare la notizia di una pesante repressione contro una comunità mapuche nel Chubut e girava la notizia che ci fosse un desaparecido. In quel momento la maggior parte delle persone non conosceva Santiago Maldonado, un ragazzo che aveva deciso di andare a sostenere la lotta per il territorio ed i diritti del Popolo Mapuche.
Tuttavia, ciò non ha impedito che iniziassimo a chiederci per mesi “Dove sta Santiago Maldonado?”. Non lo conoscevamo, ma si è trasformato in una parte delle nostre vite ed abbiamo preteso assieme alla sua famiglia ed amici che il governo se ne assumesse la responsabilità, che ci desse una risposta, che ce lo restituisse, in vita.
Il 17 ottobre –78 giorni dopo la sua sparizione–, venimmo a conoscenza del ritrovamento di un corpo senza vita nel fiume Chubut. Poco tempo dopo avremmo scoperto che si trattava di Santiago. In quel momento la rivendicazione cambiò, non era piu’ “dove sta?”, ma “cosa è successo a Santiago Maldonado?” perché non credevamo che il suo corpo fosse stato lí tutto questo tempo, che fosse affogato nella parte del fiume che in questo periodo dell’anno è quasi a secco, che non fosse stato avvistato durante i rastrellamenti che hanno preceduto questo momento.
È passato un anno da quel giorno in cui ci siamo iniziati a domandare “Dove sta Santiago Maldonado?” ed oggi abbiamo più dubbi che certezze riguardo la sua morte, ma nel mezzo di questa oscurità, Santiago ha fatto luce su qualcosa: la lotta del Popolo Mapuche.
Ma questa lotta non ha avuto inizio quel primo di agosto. Ben prima di questo giorno le comunità mapuche hanno sofferto sgomberi violenti, ben prima di questo giorno ci sono stati morti per difendere “il territorio”, ben prima di questo giorno le forze repressive dello Stato sono entrate una e mille altre volte nelle comunità a minacciare, a picchiare, con l’impunità che comporta la distanza, la disinformazione ed il potere.
Non è iniziato tutto questo giorno, ma la desapariciòn di Santiago ha messo in luce la realtà che i mapuche vivono quotidianamente dandogli spazio nei mezzi di comunicazione.
Non è una questione che riguarda solo in Patagonia, si tratta di pratiche che vengono replicate in largo e lungo nel nostro paese e nei territori delle comunità indigene e contadine, non solo in quelle abitate dal Popolo Mapuche. Tuttavia, a partire da quel primo di agosto è diventata chiara l’intenzione da parte del governo di criminalizzare questo popolo attraverso il tentativo di costruire una giustificazione per delle pratiche repressive sempre piu’ violente.
La costruzione mediatica di un nemico interno
A partire da questo momento, per i media egemonici, abituati a disinformare ed a usare i propri “intellettuali organici” per giustificare l’ingiustificabile, il compito era chiaro: si doveva convertire –di nuovo, come nel momento in cui si è consolidato il nostro Stato, a inizio del XX secolo– il Popolo Mapuche nel nuovo nemico interno. Bisognava giustificare la repressione, la violenza, le sparizioni, le morti.
È apparsa allora la Resistencia Ancestral Mapuche (RAM) e nell’ora di punta del palinsesto televisivo il giornalista Jorge Lanata ci ha raccontato una storia di attentati terroristici, mentre gli altri mezzi spiegavano che i Mapuche avevano un piano per tenersi la Patagonia, che volessero costruire uno Stato indipendente.
Non sono stati solo i media ma la stessa ministra della Sicurezza, Patricia Bullrich, che in un tour mediatico si è dedicata –mentre Santiago era ancora desaparecido– ad installare l’ipotesi del terrorismo mapuche senza avere una sola prova.
In parallelo, nei vari media alternativi e popolari, vari professionisti di diverse discipline scientifiche si impegnarono a smontare gli argomenti costruiti dal governo, mettendo in discussione l’idea secondo la quale il popolo mapuche fosse equivalente di terrorismo, fosse un popolo straniero e coincidesse con volontà di separatismo, a partire da ricerche, dati, prove. Ma il governo ha rincarato la dose con una nuova ondata repressiva ed in seguito con l’assassinio di Rafael Nahuel, ucciso con un colpo alle spalle, il 25 novembre del 2017. E nuovamente si è rivelato necessario rafforzare l’immaginario sul terrorismo per giustificare l’ingiustificabile.
La lotta per il territorio
Santiago è morto sostenendo una delle tantissime lotte che di dispiegano nel paese per difendere “il territorio”. Per il Popolo Mapuche questa parola significa molto di più che “la terra” in termini economici e materiali, ma invece ha a che vedere con una propria cosmovisione. Una concezione quasi inconciliabile con l’idea di “proprietà privata” che regge le logiche del diritto “bianco”.
Tuttavia, non è necessario conoscere la cosmovisione mapuche per comprendere la disuguaglianza, il genocidio, l’esclusione, lo spossessamento territoriale, la violenza (in tutte le sue forme) che colpiscono il popolo mapuche.
Per capire che dopo la cosiddetta “Conquista del deserto” la terra “vinta” e strappata all’“indio” è stata suddivisa tra poche mani, e gli indigeni sono stati confinati a zone non adatte a al modello agroesportatore del quel tempo, confinati in quelle terre che fino a pochi anni fa non erano considerate “utili”.
Questa lotta non ha avuto inizio in Cushamen, ma la forte repressione e la successiva desaparición di Santiago hanno fatto luce su un conflitto che ha l’età stessa del nostro Stato e che negli ultimi tempi ha vissuto una accelerazione a causa dell’avanzamento dell’estrattivismo in tutte le sue differenti forme. Oggi queste terre valgono molti soldi e quindi i “nessuno” diventano visibili, perché si trasformano in un ostacolo per il modello economico che si vuole imporre.
Questa lotta è ampiamente disuguale perché i mapuche si oppongono ai grandi terratenenti amici del potere, come Benetton e Lewis, ai colossi della mineria, allo sfruttameto degli idrocarburi non convenzionali, ai grandi progetti turistici. E dato che la legalità è più una questione di potere che di giustizia, esiste una importante contraddizione tra i diritti riconosciuti (anche dal punto di vista costituzionale) e quelli che efffettivamente si implementano nella pratica quotidiana.
Oggi, ad oltre un anno da quel primo di agosto, continuiamo a non sapere cosa è realmente accaduto a Santiago, ma sappiamo che la violenza nei territori non si fermerà fin quando la costruzione (senza prove) del nemico interno, del pericoloso terrorista, permetterà al governo di continuare a giustificare le sparizioni, le morti poco chiare e gli assassinii con colpi di fucile alle spalle.
L’equazione sembra piuttosto semplice: se Santiago Maldonado sosteneva i “terroristi”, se Rafael Nahuel era un “terrorista”, quindi le loro morti sono semplicemente una questione di sicurezza nazionale e rientrano nello “stato di diritto”.
La paura, a volte, è la migliore delle scuse per non mettere in discussione le ingiustizie. La ministra Bullrich e la coalizione Cambiemos hanno capiro che se “l’altro” è “il cattivo” ed il “pericoloso” non vi saranno costi politici da pagare. Un anno dopo la desapariciòn e la morte di Santiago, infatti, Patricia Bullrich continua ad essere ministro della Sicurezza.
L’autrice di questo articolo, pubblicato da Notas Periodismo Popular, è dottoressa in Scienze Antropologiche all’Università di Buenos Aires.
Traduzione di Elisa Gigliarelli per DINAMOpress. Foto di Gustavo Zaninelli, tratta da Revista Anfibia.