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EDITORIALE

La linea della guerra e la diagonale del movimento

Il salto di scala della dinamica bellica impressa da Israele in Medio Oriente porterà a un approfondimento del regime di guerra sia sul piano internazionale che all’interno delle nostre società. Su questo piano inclinato, diventa sempre più urgente riaprire una discussione collettiva sul movimento contro la guerra

A un anno di distanza dal 7 ottobre 2023, assistiamo al precipitare della dinamica della guerra: il governo israeliano ha imposto un vero e proprio salto di scala al massacro e alla distruzione, coinvolgendo l’intero Medio Oriente in un conflitto dagli esiti incalcolabili. Nei media occidentali, l’uso di un linguaggio rovesciato fa passare l’invasione per difesa, l’escalation per una de-escalation, gli aggressori per le vittime, producendo di fatto una vera e propria normalizzazione dell’ineluttabilità della guerra.

Con l’invasione del Libano e con l’intento – perseguito accanitamente e infine raggiunto – di spingere l’Iran a una risposta militare e di giungere così a uno scontro aperto con la Repubblica Islamica e i suoi alleati, il governo Netanyahu sembra voler chiudere il cerchio sulla questione palestinese.

La scommessa dello Stato israeliano è quella di ottenere con l’estensione regionale del conflitto una serie di obiettivi concatenati. Il primo di questi è l’intruppamento delle potenze occidentali. L’apertura del fronte iraniano ha infatti la capacità di trasformare il sostegno – già illimitato e senza riserve – a Israele, in una più ampia difesa dell’Occidente e dei suoi valori, concretizzandosi sempre più in un coinvolgimento diretto delle potenze occidentali nella dinamica bellica. Il secondo obiettivo è quello della ridefinizione degli assetti egemonici sul Medio Oriente. Quale sia l’effettiva configurazione politico-territoriale di quello che gli strateghi israeliani chiamano pomposamente il Nuovo Medio Oriente non è dato saperlo e forse sfugge anche agli stessi criminali di guerra responsabili dell’escalation militare nella regione. Se già con gli Accordi di Abramo quell’obiettivo era stato tentato mettendo “sotto il tappeto” la questione palestinese, ora può essere nuovamente perseguito, mettendo il destino dei palestinesi e di altre popolazioni “sotto le macerie”.

L’ultimo obiettivo del salto di scala nella guerra è in realtà quello essenziale: quello di dare seguito all’intervento di pulizia etnica a Gaza togliendo il fuoco dell’attenzione mediatica dalla Striscia, mettendo a tacere le pressioni internazionali ed estendendo le operazioni di distruzione ed espulsione anche alla Cisgiordania.

Questo esito è stato fin dall’inizio nei propositi del Governo israeliano. Si è dibattuto molto in queste settimane all’interno della sinistra radicale del significato storico e politico da attribuire al 7 ottobre 2023, dimenticando tuttavia che quell’evento non è stato una sola cosa. Non è stato soltanto una rivolta che ha abbattuto le gabbie di una prigione a cielo aperto, riportando sulla scena pubblica mondiale il destino dimenticato dei palestinesi; e non è stato neanche unicamente una strage e un massacro brutale di migliaia di persone innocenti. Per la destra sionista al governo dello Stato d’Israele, il 7 ottobre è stato soprattutto una grande opportunità, quella di trovare la legittimità necessaria per realizzare il destino messianico della Grande Israele – questa sì, dal fiume al mare – portando a compimento con la massima efficacia ed estensione l’annichilimento della popolazione palestinese e delle sue infrastrutture vitali, la dislocazione forzata di parti crescenti della sua popolazione e l’accelerazione brutale del processo di colonizzazione.

La diagonale del movimento

È probabile che a questo salto di scala nel conflitto internazionale in Medio Oriente corrisponda un salto di qualità nella torsione autoritaria in Italia. La piazza romana del 5 ottobre – e il contestuale iter di approvazione del DDL Sicurezza – sembra segnare il passaggio dalle chiacchiere sovraniste all’effettività di una restrizione generalizzata degli spazi di movimento e di agibilità democratica. Da questo punto di vista, la piazza romana dello scorso 5 ottobre ha segnato un risultato positivo rispetto alla volontà di azzerare la mobilitazione: l’ignobile (e incostituzionale) divieto della manifestazione non ha impedito la partecipazione – pur in condizioni a dir poco avverse – né l’espressione di indignazione contro il genocidio in Palestina, al tempo stesso però la chiusura poliziesca dell’intero piazzale Ostiense e le reazioni compatte, da “allarme sociale”, per l’affrontamento e le cariche avvenute nel pomeriggio, sono un segnale decisamente preoccupante.

È in questa congiuntura – pericolosa e per molti versi nuova – che diventa sempre più urgente riaprire la riflessione politica e collettiva sul movimento di opposizione al genocidio e in risposta al salto di scala della guerra.

L’impressione è quella di essere ormai posti su una linea discendente e inarrestabile, una linea dominata da automatismi che convergono verso un’estensione internazionale del conflitto che ingloberà (e sta già inglobando) altre popolazioni civili oltre quella palestinese, con una più esplicita responsabilità bellica delle potenze del blocco occidentale e con la conseguente normalizzazione autoritaria del regime di guerra interno. Tutto questo, mentre nell’Europa orientale la guerra in Ucraina rischia di scivolare da un momento all’altro in un conflitto più esteso.

In questo quadro, pensare che il movimento di opposizione alla guerra possa limitarsi al sostegno delle resistenze sul campo, con la conseguenza di identificare le istanze di liberazione con il blocco geopolitico contrapposto a quello occidentale, rischia di restringere gli spazi della mobilitazione e al contempo di scambiare la costruzione del movimento con la definizione di identità omogenee.

Soprattutto con il salto di scala del conflitto, questo processo rischia di entrare in tensione con le prospettive di tipo intersezionale e internazionaliste che hanno interessato, non solo le nostre latitudini, ma anche quelle coinvolte direttamente nella spirale della guerra. Il Libano e l’Iran, solo per fare due esempi, sono stati attraversati in questi anni da mobilitazioni popolari e insurrezionali che hanno avuto come controparte quello stesso sistema di potere che oggi, come in uno specchio rovesciato, sembra occupare il posto della libertà contro l’oppressione. Inoltre, la strategia del Governo italiano sarà sempre più quella di stringere le spinte del movimento contro la guerra all’interno di una dinamica di confinamento, ricavando il pretesto per una repressione più ampia nel momento in cui il precipitare della guerra potrebbe suscitare reazioni più estese, quando cioè le conseguenze economiche di un conflitto generalizzato si sommeranno alla ristrutturazione economica interna nel segno dell’austerità.

Per aprire una riflessione politica e collettiva occorre insomma interrogarsi sulla complessità dei rapporti di forza che definisce il regime di guerra che si sta consolidando davanti ai nostri occhi. Un recente sondaggio mostra come, nonostante la militarizzazione della sfera pubblica e la compattezza del discorso mediatico e politico a sostegno del progetto genocida israeliano, la maggioranza degli italiani e delle italiane non abbia dubbi sulla responsabilità politica del governo israeliano e dei suoi alleati occidentali nel disastro umanitario in corso. Questi segnali non riguardano solo l’Italia e andrebbero anzi inseriti in un contesto più ampio.

Mentre l’escalation bellica seminerà ancora più morte e distruzione e mentre i nostri governi saranno sempre più implicati nella responsabilità dirette della guerra, all’interno delle nostre società si consumerà una rottura sempre più profonda e radicale.

Come ha scritto lo storico israeliano Ilan Pappé, la politica genocida dello Stato d’Israele sta già alimentando una frattura all’interno della società israeliana e tra gli Ebrei della diaspora. Questa frattura sta attraversando anche il resto delle società civili, sia nel mondo arabo e nel sud globale che nel mondo occidentale, una frattura che tenderà a radicalizzarsi con le conseguenze economiche del regime di guerra. Questi indicatori di crisi, ora solo latenti, sono punti cruciali per mettere in prospettiva la nostra azione: oltre a rivendicare il diritto di resistenza delle popolazioni coinvolte nel conflitto, quello che possiamo e dobbiamo fare, da qui, è costruire un movimento di opposizione alla guerra che punti su questi elementi di frattura interni alle nostre società. La linea della guerra non smetterà di creare faglie, sta a noi tirare una diagonale che le metta in comunicazione.

Immagine di copertina di Marta D’Avanzo