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La genealogia filosofica dell’individuo e della moltitudine
L’individuo proprietario, il suddito e il cittadino sono i “personaggi concettuali” che animano la grande tradizione filosofica da Hobbes e Spinoza ai giorni nostri, delineando una contrapposizione fra individualismo e singolarità e, parallelamente, fra popolo e moltitudine
Con questo libro Raparelli, sin dall’attacco, mette al centro quell’individuo proprietario e presunto autosufficiente che vediamo scorrazzare per le piazze infettando il prossimo in nome della “libertà” e della resistenza alla “dittatura sanitaria”. Quell’individuo che, con vesti più decenti, reperivamo nello stesso gesto sovrano con cui si inaugurava a metà del XVII secolo la “modernità” – come dicono i manuali ufficiali, ignorando Machiavelli e Spinoza. Ovvero «il maschio bianco e protagonista di un supposto “stato di natura”, che è la condizione decisiva affinché una “persona artificiale” prenda il posto della potenza comune delle donne e degli uomini, sottometta i molti imponendo loro obbedienza, cancellando il (naturale) diritto di resistere» (p. 9). L’individuo proprietario, con la parrucca liberale o il berretto frigio giacobino, suddito o cittadino, comunque e non per caso non “povero”, tanto meno spossessato a causa dei “legittimi” diritti dell’individuo proprietario di cui sopra e magari fuggiasco dopo l’esproprio per evitare il lavoro forzato di fabbrica.
Eppure è proprio in quel “povero” (per altro verso ricchissimo di determinazioni e affetti) che si manifesta – secondo un’altra modernità, che è quella di Spinoza e di Marx – «un modo singolare dell’infinita potenza produttiva della natura […], intesa come materia inquieta e in movimento, che si esprime in infiniti modi singolari e lo fa attraverso infiniti attributi, di cui a noi è dato di conoscerne due, l’estensione (i corpi) e il pensiero» (p. 10), una delle singolarità foggiate dalla relazionalità dinamica del desiderio. Singolarità che non sono gli strafatti startuppari imprenditori di se stessi ma neppure gli ilari animatori delle movide cittadine o gli assatanati no vax da corteo o da tastiera.
Se gli individui sono cellule del “popolo” individuati per interpellazione del potere e del mercato, le singolarità sono parti di una moltitudine disobbediente, sono i molti che nel 1968, l’anno della rivoluzione mondiale, «irrompono nella scena in quanto molti: studenti, donne, operai, movimenti anti-coloniali, afroamericani un tempo schiavi, gay e lesbiche, bambini e pazzi ovvero gli altri della Ragione» (p. 11), soggiacendo tuttavia al rischio che, sconfitto quel movimento rivoluzionario nel suo progetto complessivo politico, il potere potesse catturare quel desiderio e quella differenza, favorendone «doppi cancerosi”, rovesciando la singolarità desiderante in imprenditore di se stesso o in zelante prosumer. Tutto il testo, profondamente politico, si dispiega come una contestazione delle pretese libertarie del pensiero unico del terzo millennio, spesso purtroppo scioccamente interiorizzato a sinistra, o – se vogliamo tenerci a un livello meno sciatto – alle peripezie teoriche e pratiche del metafisico principium individuationis nell’èra della “controrivoluzione” neoliberale (Virno) e della governance globale e policentrica che ha fatto seguito al fallito “assalto al cielo” e all’ethos dell’autodeterminazione. Come si articola il libro, dopo la folgorante introduzione?
Nel primo capitolo si dettaglia la genealogia filosofica di categorie quali natura, stato e individuo, partendo dalla constatazione che in Hobbes, contrariamente allo zôon politikón di Aristotele, la società è accidentale, mentre sostanziale è l’individuo possessivo in competizione con gli altri, e dunque la politica deve elevarsi al di sopra della natura e costruire macchine artificiali, in primo luogo lo stato-leviatano, imposto “consensualmente” con la paura e la rinuncia all’agire politico pubblico dei ”sudditi”.
Opposta è l’ontologia politica di Spinoza, per cui sono sostanziali la relazione e la vita associata e le funzioni regolatrici del potere sono sempre limitate dalla della moltitudine potenza e dal timore della sua indignazione insorgente. L’individuo non solo è un effetto di individuazione, ma ha una natura connettiva, vale a dire tende a incrementare la propria potenza mediante accrescimento di relazioni, non di competizione distruttiva.
Grande attenzione è poi dedicata a Hegel, che riprende e articola in modi più complessi l’approccio hobbesiano, facendo del desiderio acquisitivo il motore di un processo dialettico di ricambio organico con la natura mediante il lavoro. Nel celebre passo della Fenomenologia sul signore e sul servo, dialettica della produzione e dialettica del riconoscimento, difformemente dalla lettura francofortese, si muovono in parallelo. La trasformazione della natura, che avviene dal lato del servo, costretto a tener a bada i propri appetiti dal potere del signore (consumatore improduttivo), vede il trionfo del lavoro astratto che conserva il desiderio originario in forma spettrale. «Divenire umani significa divenire universali, superare la particolarità. Certo, il togliere conserva (Aufhebung), ma ciò che resta è solo una copia addomesticata del desiderio che fu. Anzi, non c‘è vera espressione dell’essenza umana, ovvero della libertà, se non tenendo a freno la Begierde. […] Della singolarità rimane solo un ricordo sbiadito» (p. 30).
Per altro verso, solo la sottomissione (per paura) al signore produce il lavoro e la civiltà. Il travaglio del negativo, la schiavitù è la condizione necessaria di ogni libertà e progresso. Civiltà è repressione – dirà un secolo più tardi Freud. Per domare la natura occorre trattenere il desiderio, “lavorarlo” facendone cultura e tecnica trasformativa della materia. Lavoro e linguaggio sono alterazioni non distruttive e veicoli di mutuo riconoscimento, di metamorfosi del bios singolare in vita collettiva e storica. Lo Stato stesso acquisisce così una funzione culturale progressiva e non meramente repressiva e disciplinante.
Ma il passaggio decisivo da e oltre Hegel e anche oltre Spinoza lo compirà Marx, che traduce l’actuosa potentia del secondo in lavoro vivo, presupposto ed esistenza antitetica del capitale, mentre il farsi sostanza del soggetto del primo riporta in primo piano la singolarità del desiderio, quando l’accento cade sulle concatenazioni concrete dell’interazione verbale, cioè dell’universale articolato del pensiero-linguaggio. Entro questo orizzonte il singolo sociale è il fattore decisivo della cooperazione produttiva e comunitaria, che trova nel linguaggio la zona intermedia fra rapporti sociali e vita psichica individuale – un “fenomeno transizionale” nei termini di Winnicott.
I processi estrattivi di plusvalore vanno ben presto al di là dell’incontro casuale di forza-lavoro libera e capitale monetario accumulato, che aveva dato il via all’accumulazione primitiva e alle forme europee classiche di sfruttamento capitalistico, con i relativi sviluppo coloniali e imperialistici; l’intera vita è investita dallo spossessamento e dalla messa a valore, come si era embrionalmente delineato in particolari rami già nell’Ottocento (lavoro domestico e a domicilio). Quando, come oggi, «le risorse produttive per eccellenza diventano il linguaggio e la cooperazione sociale, lo stile di esistenza», si apre «uno scontro senza quartiere tra l’individualismo possessivo e la singolarità». Sarà la storia del ‘68 e delle peripezie post-moderne del desiderio e dell’immaginazione, che sono oggetto del secondo capitolo.
Le immagini di copertina e interne sono di Vittorio Giannitelli