ITALIA
La falsa rivoluzione della scuola
Ha suscitato grande risonanza mediatica l’ultimo rapporto della fondazione TreeLLLe sul sistema scolastico. Eppure, dietro la retorica del cambiamento e dell’innovazione non si trova altro che il solito spartito neoliberale. Con l’aggiunta, però, di una buona dose di autoritarismo
La montagna partorì il topolino. Così si finisce per pensare leggendo l’ultimo quaderno della fondazione TreeLLLe (Il coraggio di ripensare la scuola, quaderno n° 15), che ha ottenuto, come spesso capita, una discreta risonanza mediatica. Del resto, è quasi inevitabile, quando a parlare è sostanzialmente una lobby “culturale” finanziata da alcune istituzioni bancarie, il cui attuale presidente Attilio Oliva, già presidente di Confindustria, risulta essere vicino a Comunione e Liberazione.
TreeLLLe nasce nel 2001 con l’obiettivo «di migliorare la qualità di educazione, istruzione e formazione», e conta tra i propri soci molti imprenditori e personalità della politica e della cultura, inclusi editorialisti dei maggiori quotidiani nazionali.
Dai primi anni duemila, quasi in contemporanea con la nascita dell’autonomia scolastica di Berlinguer, l’associazione pubblica periodicamente contributi sulla scuola che talvolta hanno influenzato diversi interventi legislativi di vari governi su temi quali la valutazione, il potere ai dirigenti, la didattica delle competenze, l’alternanza scuola lavoro e il ruolo dei privati nella gestione della scuola pubblica, quasi avesse un ruolo informale di consulenza e riuscisse a influenzare i diversi ministeri che si sono susseguiti.
Abbiamo letto con attenzione il testo, e al di là dal titolo pretestuoso, di chi crede davvero di aver trovato la soluzione, in sostanza il documento non è molto più che la riproposizione del discorso neoliberale sulla scuola degli ultimi venti anni italiani, tradotto in una serie di riforme: dalla Berlinguer alla Buona Scuola, passando per la Gelmini. Nessuna rivoluzione quindi. Nessun cambio di paradigma. Anche se, a dire il vero, una novità c’è. Il testo sembra condensare a pieno la tensione autoritaria che caratterizza questa nuova fase del progetto neoliberale.
La filosofia di fondo che attraversa il quaderno è quella della scuola che deve “fabbricare” soggetti competenti, forza lavoro in formazione adattabile alle esigenze mutevoli del mercato del lavoro. L’orientamento didattico, coerentemente alle direttive comunitarie, deve produrre il salto neoliberale dalle conoscenze alle competenze, fabbricando i futuri soggetti del lavoro, adattabili alla flessibilità del mercato e piegati alle richieste delle imprese.
L’organizzazione scolastica, la struttura dei cicli, i tempi di apprendimento, il lavoro delle/i docenti, il ruolo delle/i studenti, sono tutti aspetti accomunati da un unico desiderio padronale: quello della scuola come promotrice di una educazione sentimentale al mercato del lavoro e alle sue caratteristiche competitive.
Viene proposto di riorganizzare la carriera scolastica obbligatoria dai 3 ai 14 anni, strutturata su un tempo lungo anch’esso obbligatorio di 8 ore giornaliere (chissà perché proprio 8 ore, come nella giornata lavorativa ordinaria), dove le ore pomeridiane sono dedicate alle “attività aggiuntive” piuttosto che alle lezioni. Sono il tempo delle soft skills, che poi corrispondono alle ore in cui i docenti dovrebbero essere sostituiti da co-educatori precari nominati dagli istituti. La scuola del tempo pieno è stata di sicuro un risultato delle lotte, nonché una rivendicazione ancora attuale soprattutto al sud dove i tagli all’istruzione hanno avuto maggiore effetto. Se la scuola del tempo pieno è stata lo strumento per favorire l’autonomia delle/i alunne/i delle elementari, quella del tempo lungo proposta da TreLLLe è ben altra cosa e serve a costruire soggetti compatibili alle esigenze dominanti.
Dopo la scuola dell’obbligo, la proposta è quella di una forte differenziazione nei percorsi degli istituti superiori legata ad una rigida divaricazione degli sbocchi. Da un lato i licei che orienterebbero all’università e alle professioni liberali, dall’altro i tecnici e professionali, che saranno finalizzati al lavoro. Per giunta sarà un team di docenti, psicologi e consulenti del lavoro a decidere in maniera vincolante il passaggio dalle medie alle superiori in modo da evitare gli «errori delle famiglie». Si tratta nient’altro che di una retorica dell’innovazione che in realtà, per un verso, restaura un vecchio modello, quello della scuola italiana pre-’68, per l’altro, apre ai peggiori sistemi europei dove i percorsi di studi sono rigidamente predefiniti e differenziati su criteri di classe.
Nel discorso della fondazione non è ovviamente mancata l’attenzione al ruolo dei docenti e ai modelli di governance della scuola. Secondo il loro disegno si dovrebbe accedere all’insegnamento attraverso percorsi universitari che dovranno integrare nei loro piani «scienze dell’educazione connesse e tirocinio in aula» e «social and emotional skills» (che pur non essendo certe di aver capito davvero cosa intendono, pensiamo sia una tecnica che aiuterebbe a sviluppare resilienza, capacità di adattamento ai cambiamenti repentini del mercato!). Una volta iniziata la carriera le/i docenti dovranno essere costantemente valutate/i (quale novità?) e solo quelle/i meritevoli potranno accedere, niente meno che alle sfere del middle management, che poi non sono altro che le attuali funzioni strumentali (pagate attraverso il FIS), che secondo costoro dovranno essere trasformate/i in staff dei presidi, ottenendo uno statuto manageriale slegato dalla docenza. Tutto questo a patto che si riduca il numero delle/i insegnanti, «inclusi i precari storici». La ricetta per eliminare il precariato fa sorridere se non si stesse parlando della materialità della vita di molte donne soprattutto. Così per eliminarlo, basterà eliminare le graduatorie in modo da cancellare non il lavoro temporaneo, ma il presunto diritto alla stabilizzazione.