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Piccola storia del decoro
Nel libro di Wolf Bukowsky la genealogia dei due filoni confluenti della barbarie che abbiano sotto gli occhi: la gentrificazione dei quartieri e le aggressioni di CasaPound
L’esercito contro la movida, il Daspo ai turisti cafoni, le zone rosse per un ordine pubblico fondato sul consumo. L’egemonia culturale della destra oggi in Italia deve molto alla parola decoro. Attorno ai temi della sicurezza e del decoro urbano si è costruita un’ideologia che ha spostato sempre più a destra le politiche di governo delle città, gradualmente normalizzando i valori della destra grazie anche al posizionamento a destra, su questi temi, della sinistra istituzionale. Saltato l’ordine di importanza dei problemi, è diventato normale invocare risposte sproporzionate.
Se è chiaro che gli eventi politici e gli episodi di cronaca di questi tempi sono il risultato della progressiva normalizzazione dei contenuti della destra – dalla sacralizzazione della proprietà privata, alla fascistizzazione dello spazio pubblico, alle misure emergenziali di controllo dell’ordine pubblico e di espulsione dei poveri – è importante capire come, esattamente, siamo arrivati a questo punto.
In La buona educazione degli oppressi – piccola storia del decoro (edizioni Alegre, 14 euro) Wolf Bukowsky traccia con millimetrica precisione i passaggi che hanno prodotto l’egemonia della destra, costruendo una griglia interpretativa in cui leggere l’attualità fuori dai frame narrativi che informano il dibattito sul governo della città. Bukowski traccia le origini di questa normalizzazione, demistificando gli argomenti culturali e mostrandone l’architettura nascosta.
La storia inizia all’indomani di un evento identificato come il banco di prova delle politiche neoliberiste che sarebbero state estese negli anni Ottanta a livello internazionale. Siamo in una New York fuori controllo per la crisi fiscale degli anni Settanta – il risultato della ristrutturazione economica e della deindustrializzazione pianificata della città – mortificata dalle politiche di austerity imposte dalle nuove istituzioni finanziarie che avevano preso il controllo della gestione del bilancio cittadino, sull’orlo della bancarotta nel 1975. Interi quartieri poveri erano stati abbandonati al benign neglect con il taglio dei servizi pubblici locali (come la chiusura di moltissime caserme di pompieri nel Bronx), in attesa di investimenti privati. La crisi urbana rappresentò l’occasione per mettere in pratica una teoria, presentata nel 1982, quando Ronald Reagan era presidente già da un anno, nota come la teoria delle Broken Windows, secondo cui la repressione di piccoli reati minori e di condotte illecite, come saltare i tornelli della metropolitana, è il modo migliore per combattere non i crimini ma il disordine urbano, evitando di ricercarne le cause sociali e di dare spazio alle richieste di welfare. Si trattava in sostanza di invertire il rapporto di causalità e additare i sintomi, per placare l’ansia generalizzata del ceto medio.
«In poche righe, in poche righe decisive, quella che diventerà la teoria egemonica sulla sicurezza urbana afferma che la percezione conta più dei fatti e che il modello di ordine pubblico da preferire è quello che soddisfa la percezione anche quando questa è contraddetta dai fatti».
Oggi, scrive Bukowski, «dopo poco meno di quarant’anni di successo di questa teoria, i non-crimini e i non-criminali (cioè il disordine e la gente disordinata) sono talmente criminalizzati da non esserci più alcun bisogno di motivarne la persecuzione con la presunta proprietà transitiva tra disordine e crimine». Oggi «non si tratta più ormai di governare attraverso il crimine, cioè di sventolare la questione criminale gonfiando le statistiche per spaventare la classe media e raccoglierne il consenso; (…) ciò che emerge, oltre alla negazione esplicita dell’utilità dei dati, è proprio l’ambizione di manipolare direttamente la paura».
Se il tema della quality of life (il decoro) era menzionato dal sindaco di New York nel 1970 in relazione ai tagli al bilancio, all’inizio degli anni Ottanta l’espressione perde la connotazione welfaristica per assumerne una securitaria, e con laQuality-of-life Policing, la tolleranza zero, prende corpo la prima sperimentazione delle politiche securitarie al servizio del progetto di città neoliberista, nella New York di Rudy Giuliani, nel 1994.
In nome della quality of life a New York si avvia una massiccia privatizzazione dello spazio pubblico disordinato, a partire dai parchi presi in gestione dai Business Improvement Districts, società private di proprietari di immobili e aziende locali interessati a riqualificare lo spazio pubblico ovvero renderlo inaccessibile ai soggetti responsabili di comportamenti sgradevoli, mascherando lo zelo privatizzatore come attivismo civico. Il tema del decoro, della quality of life, è stato centrale nel promuovere un’idea di sicurezza non più sociale e lavorativa, ma relativa alla percezione di uno spazio urbano insicuro per la presenza di innumerevoli pericoli – dai lavavetri alle bancarelle, ai poveri in generale. Non sono cambiati i poveri o le città, attenzione, è cambiato il nostro sguardo.
L’idea che la povertà dipenda dai comportamenti dei poveri – che notoriamente fanno acquisti immorali e dunque necessitano di percepire sempre meno welfare (un «incentivo al fallimento» e a rimanere sul divano) è ormai diventata un’idea di senso comune. E se il welfare ci dev’essere, che sia un welfare «disciplinare, che educhi il povero a meritarsi le prestazioni sociali». Così ad esempio la casa popolare perde la funzione di “casa dei lavoratori” (i fondi con cui si costruivano gli alloggi di edilizia pubblica in Italia erano i fondi Gescal, GEStione CAse per i Lavoratori) e acquista una connotazione legata alla povertà con una funzione quasi assistenziale, riservata alla categoria delle “fragilità”. Per chiudere il cerchio, in alcuni comuni del nord la casa si ottiene con una sorta di “patente a punti” disciplinare. Se la colpa della povertà è dei poveri, la strada è libera per un’ulteriore redistribuzione regressiva di redditi e ricchezza, iniziata con Reagan, che produce gli attuali tassi di diseguaglianza estrema nelle città più ricche del mondo.
Oggi in Italia l’argomento del decoro si traduce nel tentativo di sterilizzare le città per destinarle al mercato privato del consumo turistico, che rappresenterebbe l’unico “motore di crescita” economico delle città neoliberiste svuotate di risorse. Anziché chiederci dove finiscono queste risorse, cui tutti con le tasse contribuiamo, e perché le crisi continuano ad accadere e a tagliare welfare e servizi, si criminalizzano poveri e stranieri per i problemi di vivibilità, invocando poi l’iniziativa privata (capitali e proprietà da difendere legittimamente) come soluzione di tutti i mali. L’ideologia del decoro è dunque uno strumento di creazione di consenso politico che ha accompagnato, dandogli una parvenza di democrazia, l’avvento di politiche neoliberiste sempre più attente a redistribuire verso l’alto la ricchezza al ritmo di “non ci sono soldi”. Quello del decoro è un argomento “di distrazione di massa” che mira a tenere nascosti alla vista, dietro un paravento estetico, i meccanismi economici del profitto e dell’ingiustizia sociale. Più che una questione di decoro, si tratta evidentemente di una questione di classe. Il libro, una bussola per affrontarla.