La democrazia che tortura
Si può definire “democrazia” quella forma di potere che tortura i corpi di chi infrange le sue regole?
Le immagini che arrivano oggi dalla Grecia dimostrano come la “democrazia che tortura” sia una questione quanto mai attuale, che la crisi rende ancora più insidiosa. I volti tumefatti dei quattro ragazzi, poco più che ventenni, accusati di rapina, stanno circolando in queste ore nei media greci e, attraverso i social network, in tutto il mondo. Anche Amnesty International ha denunciato immediatamente il comportamento delle autorità greche. Sono quattro anarchici di Atene, arrestati sabato sera e torturati fino al giorno dopo. Per oltre 24 ore è stato loro impedito di incontrare un avvocato e di comunicare con i propri genitori. Non hanno ancora ricevuto cure mediche. La madre di uno di loro, un medico, riferisce che il trattamento dei poliziotti ha causato al suo giovane figlio: «sangue nelle urine, forti stordimenti, forti dolori in testa, sonnolenza, debolezza». Intanto, uno degli arrestati, il ventenne Nikos Romanós, ha dichiarato: «I miei motivi erano politici. Considero me stesso prigioniero di guerra. Non mi considero una vittima. Non voglio querelare i poliziotti che mi hanno picchiato. Desidero che il mio maltrattamento sensibilizzi le coscienze dei cittadini».
Questo episodio non è un fatto isolato. La fine della dittatura dei colonnelli non ha certo interrotto questo tipo di comportamenti tra gli agenti della polizia ellenica. La Rete per i diritti politici e sociali denuncia come «in questi ultimi anni, gli anni dell’uragano dei Memoranda e della frenesia anti-migratoria, i pestaggi, i maltrattamenti, le umiliazioni dei detenuti da parte dei poliziotti tendono a diventare un fenomeno abituale». Solo pochi mesi fa, un articolo del Guardian aveva svelato le torture subite da 15 militanti antifascisti arrestati durante una manifestazione in moto, nelle strade di un quartiere controllato da Alba Dorata (1 / 2 ). Le testimonianze delle persone torturate in quei giorni hanno fatto il giro del mondo. Soltanto la pressione internazionale scaturita da tutto ciò ha imposto, temporaneamente, alcuni limiti agli abusi della polizia. I militanti arrestati per la ri-occupazione di Villa Amalias, infatti, hanno raccontato del clima di sfida che sono riusciti a tenere alto fin dentro i corridoi della centrale delle torture: G.A.D.A., la direzione generale della polizia dell’Attica.
Il nuovo capitolo di questa triste saga, però, segna un nuovo passaggio, che non dipende dal tipo di reato contestato ai quattro. L’avvocato difensore ha raccontato: «in tutti questi anni in cui ho lavorato come avvocato, ho visto all’ufficio del GIP trafficanti di droghe, papponi di alto rango, molti di loro imputati per crimini molto gravi, che non venivano neanche ammanettati e che aspettavano il loro turno fuori dall’ufficio del GIP, bevendo birre insieme ai loro amici, senza alcun segno di violenza». E allora la radice ultima di queste torture nasce da qualcos’altro. Nasce dal significato simbolico di quel reato e dalla provenienza politica dei presunti autori. Nasce dal fatto che i ragazzi hanno messo a rischio la propria vita e la propria libertà, perdendola infine, non per un interesse personale, ma per una causa collettiva. Non sto giudicando l’azione criminosa, né da un punto visto politico, né da un punto di vista morale. Sto parlando di quello che è avvenuto dopo l’arresto. Delle torture e della pubblicazione delle immagini dei torturati, ulteriore passo in avanti nella strategia repressiva del governo. Un governo che mette in mostra i suoi abusi, il suo impiego della forza al di là della legge, è un governo che usa i corpi e le teste di quei ragazzi come esempio per tutti quelli che partecipano alla resistenza sociale. É un monito per tutti quelli che hanno deciso di non piegarsi all’attacco sferrato dalla Troika esterna (FMI-BCE-UE) e da quella interna (Nea Dimokratía-Pasok-Dimar).
E allora, tornando al discorso di Ferrajoli, l’asimmetria che si registra oggi in Grecia non è più quella tra istituzioni e criminali. É l’asimmetria tra il trattamento riservato a chi difende gli interessi del capitale finanziario, giustificato a ogni costo, protetto dalla legge e dai media, e quello imposto a chi contro quel capitale lotta tutti i giorni, al di là della strategia politica adottata. Ai primi si garantisce il potere, il favore della legge, la più completa impunità. Per gli altri, invece, rimangono le torture fisiche e psicologiche, le umiliazioni nei posti di lavoro, la fame e la povertà nelle case, la sofferenza e la morte per le strade e negli ospedali.
L’aumento della violenza degli apparati repressivi dello stato e del discorso pubblico dei partiti che esercitano il potere, non riguarda solo la Grecia. É una realtà che la crisi sta diffondendo rapidamente in tutti i paesi europei. Lo abbiamo visto, seppure con un’intensità ancora minore, nel modo in cui le polizie europee hanno reagito alle proteste di massa il 14 novembre 2012, da Roma a Madrid fino a Lisbona. Lo vediamo nella maniera in cui le autorità tentano di contrastare la lotta No Tav, dalle strade ai tribunali. Continueremo a vederlo ancora e sempre di più, purtroppo. Perché, quando i movimenti espropriano le istituzioni del significato profondo della democrazia, attraverso il consenso che generano intorno alle proprie rivendicazioni, e lo contrappongono agli interessi del capitale, anche quel legame strumentale e fasullo tra capitalismo e democrazia non regge più.
Per concludere, ecco le ultime righe della lettera aperta scritta da un ex-professore di uno degli arrestati:
«Era sensibile, intelligente, preoccupato. […] No, non era asociale. Al contrario, era molto amato dagli altri studenti. E ovviamente aveva anche lui una rabbia dentro, come tutti i ragazzi veri che scoprono durante l’adolescenza la società disumana e ipocrita in cui viviamo. No, non era un cattivo studente, era uno studente bravo. […] I suoi genitori erano due persone molto dignitose. Venivano spesso a scuola per informarsi del suo rendimento. A un certo punto ho saputo che suo padre era rimasto disoccupato. Me l’aveva detto amareggiato e arrabbiato. Non so quante cause di rabbia si siano aggiunte da allora. Posso però immaginarne molte, visto che vivo anch’io in questa Grecia. Per il resto, mi dispiace e mi vergogno. Mi dispiace per Andreas-Dimitris che ha creduto, o almeno così sembra, alla violenza come risposta alla violenza del sistema. Mi vergogno però di più per la Grecia, che costringe ragazzi come Andreas-Dimitris ad arrivare a questo punto. Mi vergogno per i poliziotti che lo hanno torturato. Mi vergogno per i giornalisti che lo hanno già condannato. E mi vergogno per tutti quei cittadini insospettiti che terranno nella loro mente la sua immagine come quella di un “terrorista”, mentre ignoreranno il suo viso deformato dal pestaggio per passare alla prossima notizia. La deformazione è tutta nostra però».