ITALIA

“La curva sud è morta”

I recenti arresti dei capi ultras della Juventus ripropongono il dilemma di come uscire, a proposito degli stadi, dalla falsa alternativa tra scelte repressive e mafia. Esiste però un altro tipo di narrazione capace di andare a fondo di un fenomeno complesso e pieno di contraddizioni?

Lunedì mattina Torino si è svegliata con la notizia di una maxi operazione di polizia: 12 capi ultras della Juve appartenenti ai più importanti gruppi della Curva Sud torinese sono stati arrestati. Le misure cautelari sono causate dall’ennesima inchiesta della magistratura torinese nei confronti del tifo organizzato bianconero. Le accuse che vengono mosse agli imputati sono molto pesanti: associazione a delinquere, estorsione aggravata, auto-riciclaggio e violenza privata. La parte lesa, a differenza della precedente operazione giudiziaria “Alto Piemonte” all’interno della quale furono indagati  anche alcuni dirigenti bianconeri, oggi è la Juventus stessa e, stando alle parole del procuratore reggente a Torino, Paolo Borgna: «lo sono anche i tifosi vittime di intimidazioni, costretti a non andare più allo stadio perché non riescono più a sopportare certe angherie, un certo clima fatto di (nota mia) slogan razzisti che nello stadio della città hanno offeso Torino e il Piemonte». Inoltre, lo stesso magistrato, nelle dichiarazione rilasciate a “Il Fatto Quotidiano”, aggiunge alcune considerazioni sul senso dell’operazione “Last Banner”: «Capisco che si possa pensare che è stata scoperta l’acqua calda, che i capi ultrà sono prevaricatori nei confronti degli altri tifosi, ma questa indagine ha trasformato la conoscenza generica in precise prove di precisi reati attribuibili a determinate persone. Le indagini servono a questo, a raccogliere prove a carico di precisi individui da portare davanti a un giudice per un processo».

Stando alle dichiarazioni ed alle accuse i fatti sembrano essere abbastanza chiari: i gruppi organizzati della Curva juventina facevano pressioni sulla società per avere dei biglietti gratuiti. La richiesta iniziale era di venticinque tagliandi per ogni gruppo (un cifra abbastanza irrisoria se si conta che ogni gruppo conta almeno un centinaio di iscritti) fino ad arrivare chiederne duecento nel momento di apice dello scontro tra le parti alla fine della scorsa stagione; oltre ai biglietti veniva richiesta la partecipazione a feste organizzate dalla società e materiale sportivo originale. Fermandosi alle richieste mosse dai gruppi ultras alla società verrebbe quasi da sorridere visto che, rispetto all’inchiesta giudiziaria di due anni fa, le richieste oltre ad essere molto più basse, non sono indirizzate ad ottenere spazi franchi dove poter svolgere i propri affari.

Dove si trova, dunque, il nocciolo della questione? Che le curve delle metropoli italiane siano progressivamente diventate piazze di spaccio, arruolamento e luoghi d’affari per la criminalità organizzata è un fatto ormai acclarato e noto a chiunque abbia attraversato i settori popolari degli stadi negli ultimi anni, ma il processo che ha portato a tutto questo è più complesso di come viene raccontato dai media. Il tema della droga e delle curve come importantissime piazze di spaccio, infatti, risale a più di vent’anni fa. Negli anni Ottanta proprio le curve e alcuni elementi che le animavano hanno fortemente contribuito alla diffusione dell’eroina sia all’interno che all’esterno degli stadi. Di contro, le curve e in particolare i gruppi organizzati sono stati, in quello stesso periodo, strumenti e possibilità di emancipazione per migliaia di ragazzi che, durante il riflusso dei movimenti sociali del decennio precedente, hanno trovato nel tifo organizzato la risposta ad una necessità di protagonismo giovanile e di risposta alla strage silenziosa che l’eroina stava compiendo nelle metropoli dello stivale. Inevitabilmente in una dialettica, spesso anche molto violenta, tra chi delle curve voleva fare il proprio luogo di guadagno e chi voleva continuare a perseguire fedelmente la mentalità ultrà, si sono formati personaggi e soggetti ambigui e contraddittori che spesso erano entrambe le cose: un poco malavitosi e un poco ultras. È il caso di Lucci (leader della Curva Sud Milano) e di Diabolik (recentemente ucciso a Roma ed ex capo degli Irriducibili Lazio) soltanto per citare i più noti alle cronache dell’ultimo anno.

La considerazione di questa complessità, però, non deve essere utilizzata per costituire un alibi a chi negli ultimi vent’anni si è arricchito sostanzialmente facendo da tramite tra la criminalità organizzata e i gruppi ultras, ma serve, tuttavia, si diceva, per restituirci una realtà che è sempre più complessa di come viene spesso raccontata dai media, e, soprattutto, è una categoria che deve essere utilizzata per spiegarci come si è arrivati alla situazione attuale. E dunque, non è casualmente, infatti, che la componente “aziendalista” e legata a traffici economici illegali negli ultimi anni abbia preso il sopravvento nelle curve delle grandi metropoli italiane  e, in particolare, a Torino e Milano. A giocare un ruolo di primissimo piano all’interno di questo processo di “normalizzazione” delle curve, è la repressione del tifo organizzato che ha svolto un ruolo determinante sotto diversi aspetti. Il primo, quello probabilmente più evidente, sta nel fatto che l’aumento dei controlli, soprattutto preventivi, per evitare gli episodi di violenza tra le tifoseria ha man mano spento la narrazione “eroica” dell’ultras relegandolo a soggetto che agisce in curva a sostegno della squadra e ha dunque intaccato prevalentemente quella componente che difende, o difendeva, i “valori” dell’essere ultras. Il secondo, meno evidente, ma non meno importante, è un processo ancor più pervasivo: le componenti meno integraliste del tifo organizzato, cioè, hanno saputo cogliere al balzo l’assist della repressione indistinta e indiscriminata aprendo vere e proprie trattative, come provato dall’inchiesta “Alto Piemonte” e in parte anche da “Last Banner”, con le società calcistiche e le forze dell’ordine che hanno garantito tali possibilità di guadagno, bilanciandole con la garanzia dell’assenza di scontri. Non è un caso, ad esempio, che i cori razzisti della curva bianconera fossero usati come strumento di danneggiamento alla società, come provano le inchieste dei magistrati, prima ancora che come strumento politico. Proprio sui cori razzisti si potrebbe aprire una lunghissima riflessione su come vengano utilizzati dalle organizzazioni di destra presenti nelle curve per fa passare un messaggio politico, da chi ha interessi nella gestione delle curve come strumento di contrattazione con le società, e come vengano condannati così duramente sostanzialmente per il secondo motivo. È il caso dei cori razzisti rivolti a Lukaku a Cagliari qualche settimana fa: la lettera aperta al giocatore della Curva Nord dell’Inter che li relegava a fenomeno folkloristico finalizzato a distrarre l’attaccante, pure avendo dei tratti aberranti per chiunque legga soltanto il primo livello di quella lettera, racconta una realtà sul fatto che i cori razzisti e discriminatori negli stadi d’Italia hanno quasi sempre un doppio livello: uno palese e razzista, uno di segnale alla propria società ed è proprio per questo che la risposta moralista e repressiva che hanno sempre ricevuto si è rivelata pressoché sempre completamente inefficace.

È proprio questo tipo di dialettica, doppia, il centro dell’inchiesta che ha portato, pochi giorni fa, all’arresto dei vertici del tifo organizzato bianconero: gli ultras, dopo un anno di violentissima contestazione alla società (la curva non ha mai tifato né fatto coreografie per tutta la stagione scorsa se non con il fine esplicito di far multare la società) hanno perso la loro battaglia e, probabilmente la guerra. Da quando, otto anni fa, ha aperto l’Alianz Stadium era apparso evidente come il fine della Juventus, ma anche più in generale del “sistema calcio”, fosse quello di costruire uno stadio sul modello inglese: prezzi altissimi, sempre esaurito e privo di tifo organizzato al proprio interno. Questa volta, dopo anni di trattative e scontri, sembra, a detta degli stessi ultras, che la guerra stia volgendo al termine per evidente impraticabilità di qualunque forma di opposizione alla normalizzazione dello stadio bianconero.

Ma cosa cambia adesso? Come bisogna leggere questi arresti? A darci la risposta sono gli articoli prontamente usciti su TuttoSport (quotidiano notoriamente vicino alla società bianconera) che titola, in un suo articolo online, “Juve-Verona, sabato tolleranza zero allo Stadium”. L’articolo parla di tutte le misure messe in campo da società e questura per rispondere allo sciopero e prevenire possibili forme di intimidazione a chi volesse tifare ugualmente: peccato che le misure siano tutto fuorché mirate, infatti, si parla, genericamente, di «aumento delle telecamere di controllo all’interno della curva e della presenza di stewards all’interno del settore ».

Queste indicazioni, quindi, com’era prevedibile, rischiano di diventare la norma e di agire su tutti i tifosi indistintamente andando a normalizzare uno degli ultimi spazi autonomi ancora esistenti all’interno dell’Alianz Stadium. Ancora una volta, quindi, quando si parla di stadi e di ultras ci si trova nella scomoda posizione per cui o si sta con le peggiori scelte repressive o si è dalla parte della mafia, essendo completamente assente una narrazione che riesca a uscire da questa dicotomia e riesca invece ad andare a fondo nella problematizzazione e nello studio di un fenomeno che viene spesso trattato solo per il proprio aspetto criminale senza la volontà di leggerne le contraddizioni e le complessità: per fortuna su e giù per lo stivale, nei piccoli centri, ma anche in alcune metropoli che ancora riescono a resistere, esiste ancora chi sceglie di non stare né da una parte né dall’altra, ma prova a costruire quotidianamente spazi liberati di aggregazione nelle curve e negli stadi.