OPINIONI

Contro la cultura della “diversità aziendale” serve un’altra Black Lives Matter

Durante le rivolte nere della scorsa estate non c’erano workshop di consapevolezza sulla “diversità”. Ciò che unisce le proteste è un profondo senso di ingiustizia e la storia delle rivolte antirazziste del passato

A guardare i luoghi di lavoro negli Stati Uniti oggi, non vi biasimerei se pensaste che essere antirazzisti è abbastanza facile. La velocità con cui si sono moltiplicati i programmi di formazione sulla diversità all’indomani delle rivolte contro la polizia della scorsa estate, assieme ai guru specializzati che li guidano, potrebbe facilmente indurvi a pensare che l’antirazzismo consista in una serie di politiche praticate al meglio nelle viscere dei dipartimenti delle risorse umane. Niente più corpi neri lasciati a morire per strada, nessuna stazione di polizia da bruciare, solo una pila di libri di Robin D’Angelo e sessioni serali di formazione sulla sensibilità organizzate dalla direzione.

 

Oggi le aziende statunitensi spendono 8 miliardi di dollari l’anno in formazione sulla diversità. Nonostante una molteplicità di studi dimostrino che questo tipo di formazione non aumenta la diversità e non elimina il razzismo.

 

Eppure, questi corsi si continuano a tenere. Si continuano a tenere proprio perché queste esercitazioni organizzate dai dipartimenti delle risorse umane non servono a smantellare la supremazia bianca, ma a immunizzare aziende e università dalle cause intentate da chi fa esperienza di razzismo e sessismo nei luoghi di lavoro.

Nell’ultimo decennio, giganti di Wall Street come Morgan Stanley, Merrill Lynch e Smith Barney sono stati costretti a sborsare milioni di dollari per far fronte ad accuse di molestie, motivo per cui queste aziende hanno dovuto rivedere le loro strategie in materia di razza e genere. La prima di queste è stata chiedere ai nuovi assunti di firmare un contratto in cui si impegnano a non partecipare ad alcuna class action. La loro seconda mossa, legata alla prima, è stata aumentare gli investimenti nella formazione sulla diversità. Gli impiegati di simili aziende si sono visti togliere i pochi strumenti che avevano per protestare contro la discriminazione mentre venivano invitati a prendere posto negli ambienti luminosi in cui si tengono i seminari aziendali sulla diversità.

 

L’inversione definitiva si è prodotta quandoMcDonald’s ha risposto alle proteste di Black Lives Matter con un video di un minuto in cui compaiono i nomi di George Floyd e di altre persone uccise, tra cui Trayvon Martin, Michael Brown, Alton Sterling, Botham Jean, Atatiana Jefferson e Ahmaud Arbery.

 

L’amore e la rabbia feroci delle proteste del BLM sono stati semplicemente commercializzati da un’azienda che ancora si rifiuta di pagare la sua forza lavoro, prevalentemente non bianca, 15 dollari l’ora. Come ha detto George McCary, militante nero e impiegato di McDonald’s: «Prendo solo 8,25 dollari l’ora. È così poco che l’unica bolletta che posso pagare è quella del telefono, per mangiare sono costretto a ricorrere ai sussidi alimentari».

 

(foto: Steve Baker da Flickr)

 

L’ultima parola sulla cultura della corporate diversity, tuttavia, dobbiamo darla alla polizia di Minneapolis. Divenuta, nel corso degli anni, un modello di diversità. Agli agenti è stato imposto di frequentare corsi di formazione sul pregiudizio, workshop di mindfulness, seminari sulla de-escalation e su come intervenire in situazioni di tensione. Ciononostante la musica soft, le candele di soia o esercizi di respirazione non hanno impedito a Derek Chauvin di uccidere brutalmente George Floyd il 25 maggio 2020. Chauvin stava semplicemente servendo l’istituzione per cui lavorava: la polizia.

 

 

INCLUSIONE PREDATORIA

È ora di prendere atto di due tendenze pericolose nel business della corporate diversity. Primo, il linguaggio della diversità, mascherato da antirazzismo, ha completamente perso il suo significato sociale; secondo, a causa di questo le donne e le persone di colore sono ora assunte dalle aziende come catalizzatrici di violenza per fare da scudo al sistema e dirottare le critiche.

 

La giurista nera Cheryl Harris ha coniato l’espressione inclusione predatoria per descrivere famiglie nere schiacciate da mutui predatori in nome dell’inclusione e dell’uguaglianza economica.

 

Voglio riprendere questo concetto per riferirmi a tutte le donne e le persone di colore a cui è stato concesso di fare la “scalata” fino a raggiungere posizioni di potere, a occupare i ruoli più importanti nel governo, le banche, le università e nella società. È una strategia che serve a dirottare le critiche e a concentrarsi su una forma vuota di rappresentanza. È anche un modo per il sistema di riciclare la propria violenza.

Due anni fa, insieme a Cinzia Arruzza e Nancy Fraser, ho pubblicato un manifesto in cui sosteniamo che il linguaggio e la politica del femminismo devono essere sottratti a Sheryl Sandberg (direttrice operativa di Facebook, autrice di Facciamoci avanti. Le donne, il lavoro e la voglia di riuscire, ndt), al femminismo approvato da Hillary Clinton, e rianimati dalla forza degli scioperi e delle occupazioni femministe.

 

(foto di Steve Rodhes da Flickr)

 

Abbiamo sottolineato che non ha importanza per le donne e gli uomini del Sud globale che la bomba o la schiavitù per debiti che sta per piombargli addosso siano state progettate o scatenate da una donna.

 

Oggi è altrettanto importante salvare la politica delle lotte antirazziste da un capitalismo arcobaleno che prova ad addomesticarla oscurando il ruolo che le donne delle élite hanno nell’incarcerazione di massa, o gloriandosi del fatto che una persona di colore sia a capo di uno dei più feroci sistemi di immigrazione dei nostri tempi.

 

Un esempio che illustra bene la strategia capitalista viene dal Portorico. Durante lo sciopero di attivisti e studenti del 2010-11 contro la privatizzazione dell’università, questa ha ingaggiato un’agenzia di sicurezza privata, la Capitol Security, per 1,5 milioni di dollari, per mettere fine allo sciopero. L’azienda ha assunto giovani uomini e donne di Villa Cañona a Loíza, un quartiere prevalentemente nero e a basso reddito in un comune prevalentemente nero e a basso reddito, per sfondare i cancelli dell’università e agire come forze dell’ordine pagate.

Secondo la ricostruzione di Marisol Le Bron, un impiegato comunale ha approcciato i giovani offrendogli 10 dollari l’ora per “lavorare” all’università. In un arcipelago, nota Le Bron, dove «secondo le statistiche ufficiali la disoccupazione supera il 16% e dove il salario minimo federale è di 7,25 dollari l’ora, non è sorprendente che i giovani di uno dei comuni più poveri del Portorico abbiano colto al volo l’opportunità presentata da Capitol Security».

 

La battaglia che è seguita tra gli studenti universitari e i poveri, giovani di colore che lavoravano come forze dell’ordine, ha incrinato la solidarietà antirazzista dello sciopero, indebolendolo.

 

 

Loiza, Porto Rico (da commons.wikimedia.org)

 

Solo un giovane scioperante nero e socialista, Giovannio Roberto, lui stesso un prodotto della povertà razzializzata, è riuscito a fare breccia in questa strategia rivolgendosi direttamente ai giovani e parlando loro della storia e degli interessi condivisi: «Anch’io vengo da un barrio povero e sono nero come tutti voi. Quando ero giovane, i miei genitori non riuscivano a trovare lavoro, proprio come voi adesso. Ho campato per molti anni grazie ai cupones [sussidio federale]. Ho campato grazie ai cupones fino a sedici anni. Sedici anni… Cosa non va? In questo mondo non siamo tutti uguali. Perché Loíza è un pueblo de negros [una città nera]? Perché Carolina è un pueblo de negros? Perché Dorado e Condado sono considerati pueblos de blanquitos [città di bianchi benestanti]? Si chiama razzismo. Si chiama razzismo istituzionalizzato… Non vogliono che ce ne andiamo. Chi è nato a Loíza resta a Loíza. Quelli nati in Carolina restano in Carolina. Quando veniamo qui, tutti i giorni, a protestare, è perché vogliamo che voi anche abbiate la possibilità di rovesciare questo stato di cose».

Grazie al discorso di Roberto una notte di violenza è finita con qualcosa di straordinario, con i giovani chiamati a mettere fine allo sciopero che stringevano la mano agli scioperanti, in un clima di solidarietà bellissimo.

 

 

IL CAPITALISMO PREDATORIO SI NASCONDE DIETRO LA CORPORATE DIVERSITY

Durante le gloriose rivolte nere della scorsa estate non c’erano candele di soia o workshop di mindfulness. Ciò che ha unito le proteste è stato un profondo senso di ingiustizia e la storia delle rivolte antirazziste del passato. Le donne e gli uomini che sono scesi per strada non chiedevano di stare al tavolo del capitale, non se questo avrebbe significato lasciare al resto della comunità gli avanzi. Le rivolte erano dirette contro la violenza della polizia, ma si sono svolte in modalità che non erano né accettabili e neanche approvate; il loro obiettivo era far male al capitale.

 

Come membri di gruppi oppressi, nel solco di queste proteste globali, dobbiamo ricostruire movimenti che rappresentino i nostri interessi, non solo la nostra razza, genere, sessualità, abilità, nazionalità, appartenenza religiosa e così via.

 

Se i nostri interessi vengono calpestati in nome della “diversità” allora la sofferenza e il danno causati non potranno essere mitigati dal fatto di sapere che la persona che esercita potere su di me ha la pelle uguale alla mia.

Questa promessa è volgare quanto la land acknowledgement (una dichiarazione che può comparire accanto alla firma in calce alle mail in cui si riconoscono i territori indigeni su cui sorge un’istituzione, ndt) in calce alla mail dell’amministratore bianco che ti sta licenziando. Vogliamo un ritorno delle rivolte nere della scorsa estate non perché il loro obiettivo era che più neri potessero diventare agenti della CIA, ma perché il loro scopo era smantellare un sistema che ha bisogno della CIA.

 

Immagine di copertina di Eleonora Privitera

Articolo pubblicato originariamente su Spectre

Traduzione dall’inglese di Emma Gainsforth per DINAMOpress