MONDO

Argentina, la crisi diventa emergenza

La svalutazione record della moneta segna la nuova tappa di una drammatica crisi: mentre esponenti dell’esecutivo volano a Washington per rinegoziare l’accordo con il FMI, Macri annuncia la cancellazione di dieci ministeri e nuove misure di austerità. Il saccheggio neoliberale avanza, ma la conflittualità sociale non si ferma. Trecentomila in piazza contro i tagli all’università, conflitti contro i licenziamenti nei ministeri e sciopero generale il prossimo 25 settembre.

Una settimana di fuoco nelle strade e nei palazzi del potere politico e finanziario ha sconvolto l’Argentina. Dalla crisi della moneta nazionale fino all’omicidio di Ismael Ramirez, giovane indigeno Qom colpito mortalmente durante una repressione poliziesca.

La notizia comincia a circolare nella tarda serata di ieri. Il giovanissimo Ismael è stato al petto da un colpo di arma da fuoco ieri sera nella città di Saenz Peña nel Chaco, una provincia povera nel nord del paese, nel corso di una protesta davanti ai supermercati per reclamare alimenti terminata con disordini e tentativi di saccheggi. La polizia ha assaltato a colpi di arma da fuoco il presidio, e pare ci siano stati anche colpi di arma da fuoco sparati da civili contro i manifestanti. Quel che emerge dalle immagini diffuse da diversi media indipendenti e su Pagina12 è una violentissima  caccia all’uomo davanti al supermercato e poi nelle vie limitrofe portata avanti dalla polizia, che ha inseguito i manifestanti reprimendo con proiettili di gomma (ed evidentemente anche di piombo), causando oltre alla morte di Ismael anche diversi arresti e feriti, tra cui un quattordicenne colpito ad un occhio.

Una settimana cominciata con il giovedì nero nei mercati finanziari, con una svalutazione del peso in rapporto al dollaro che ha sfiorato il 30 per cento e l’aumento del tasso di interesse deciso dalla Banca Centrale al 60 per cento. Con una inflazione prevista attorno al 42 per cento, i salari perdono circa il 30 per cento del potere di acquisto, aumenta la disoccupazione ed è in arrivo una lunga la recessione. La situazione nel paese è gravissima. Seppure l’aumento dei prezzi che deriverà da questa svalutazione non si sia ancora materializzato nella vita quotidiana di milioni di persone, le conseguenze delle politiche di Macri sono evidenti da mesi e si trovano al centro dello scontro politico e sociale nel paese in particolare dalla rivolta del dicembre 2017.

Ancora una volta è stata una settimana densa di scioperi, cortei e repressioni di piazza: proprio per giovedì scorso era stata lanciata la manifestazione dislocata a livello nazionale contro i tagli all’università e il blocco salariale imposto a docenti e ricercatori che ha visto in piazza centinaia di migliaia di persone in tutto il paese.

Il giorno dopo, tensioni e scontri per 545 licenziamenti al Ministero dell’Agroindustria. Infine sabato sera l’annuncio: vi saranno significativi cambiamenti nei ruoli chiave del governo, si provvederà alla cancellazione di dieci Ministeri (tra cui Salute, Cultura, Lavoro e Scienza e Tecnologia, indice delle priorità del governo) e lunedì il governo implementerà nuove misure di austerità.

Ieri mattina, poco prima di volare a Washington per rinegoziare il prestito speciale con il FMI, il presidente Macri e il ministro dell’economia Dujovne hanno annunciato le misure del governo alla ricerca del deficit zero.

 

 

In un videomessaggio registrato Macri ha parlato al paese dichiarando che l’Argentina sta vivendo una situazione di emergenza e che approfondirà le misure di austerità.

Subito dopo, durante una conferenza stampa, il ministro Dujovne ha quantificato i nuovi tagli pari allo 0,7 % del PIL in investimenti pubblici,  0,5 % di tagli alle sovvenzioni per trasporti ed energia, 0,2 % nelle spese correnti, che saranno negoziati nei prossimi giorni con il Fondo Monetario Internazionale. Ovvero, riduzione drastica degli investimenti pubblici (tagli che arriverebbero al 46 % in termini reali, nominalmente attorno al 27%) nuovi aumenti di tariffe dei servizi e licenziamenti ulteriori nel settore pubblico.

Seppur insistendo con la solita retorica, secondo cui le responsabilità dell’attuale situazione sono ascrivibili ai governi precedenti, alla corruzione che avrebbe causato la povertà attuale, a generiche responsabilità del contesto economico internazionale (senza citare le responsabilità dei capitali finanziari speculativi internazionali e quelle del governo per la fuga di capitali), sia Macri che Dujovne sono apparsi in difficoltà ammettendo che la «povertà aumenterà nel paese», la recessione sarà «più pronunciata di quanto pensavamo» ed infine riconoscendo di aver «compiuto degli errori nel cammino».

Ammettendo di fatto il fallimento delle politiche economiche adottate, il ministro dell’Economia in palese imbarazzo davanti alle domande dei giornalisti ha affermato «non siamo un gruppo di sadici che vuole fare esperimenti». Subito dopo, ha anche annunciato imprecisati aumenti nei sussidi sociali di emergenza per la povertà e un aumento generico delle tasse sulle esportazioni (ma non saranno toccate le grandi rendite finanziarie né l’oligarchia agroesportatrice). Nel suo patetico discorso il presidente Macri ha affermato che «non possiamo spendere più di quanto abbiamo né vivere al di sopra delle nostre possibilità» e che per questo occorre sopportare il caro vita, l’austerità e la povertà come misure necessarie per superare la crisi, perché di fronte alle tempeste finanziarie l’unica soluzione è proseguire il cammino tracciato dal governo. Nessuna autocritica, ma un discorso vuoto e retorico che segna la continuità del disastro in corso.

Sin dall’inizio il piano economico del governo è stato quello del saccheggio finanziario e dello smantellamento produttivo, per favorire la fuga di capitali, le speculazioni finanziarie e la concentrazione della ricchezza.

Ma lo scontro che si è aperto attorno alla compressione dei salari, ai licenziamenti, ai tagli alle pensioni, all’insostenibilità dei sussidi sociali e allo smantellamento di interi settori produttivi dell’industria e dei servizi si estende sempre di più nel paese.

Secondo gli ultimi dati pubblicati, sono stati persi 106mila posti di lavoro nell’ultimo semestre,  mentre sono andati distrutti 82mila posti di lavoro nell’industria argentina,  nel pieno della caduta della produzione e dei consumi, mentre la piccola e media impresa è al collasso, con una ripercussione particolarmente pesante sulle cooperative e le fabbriche recuperate dai propri lavoratori.

 

Manifestazione contro i licenziamenti al Ministero dell’Agroindustria

 

Intanto, nei tribunali e sulle prime pagine dei giornali e in prima serata nei telegiornali continua la persecuzione politica e giudiziaria contro Cristina Fernandez da Kirchner, ex presidenta e principale possibile candidata antigovernativa alle elezioni del 2019, principale bersaglio delle destre che attraverso l’uso politico neoliberale della guerra alla corruzione si propongono di colpire gli avversari politici, a partire da diversi oscuri scandali di corruzione legati ad ex funzionari del governo precedente con tanto di imprenditori pentiti – anche vicini al governo, compreso il cugino del presidente Macri – pronti a dichiararsi colpevoli di aver versato tangenti di fronte alle inchieste portati avanti da giudici che esprimono la volontà politica dell’esecutivo.

Ma fino a quando l’attacco contro i governi precedenti potrà occultare la devastazione compiuta da un governo di imprenditori e gendarmi che finanzia la fuga dei capitali con i fondi del FMI? Quel che è certo, è che mai come adesso il governo sta attraversando una profonda crisi di governabilità, seppure al tempo stesso il muro istituzionale e la complicità di parte dell’opposizione configurano una situazione molto complicata.

Il governo Macri è maturato presto e altrettanto in fretta è diventato marcio, scrivono nell’ultimo editoriale della rivista Crisis: “la crisi economica è appena cominciata e se adesso la crisi politica di Macri è ormai vox populi, la grande incognita è piuttosto l’estensione della crisi più complessiva in arrivo”. Quale sia lo scenario di fuoriuscita da questa drammatica situazione che non accenna a finire è questione molto complessa che riguarda la potenza delle lotte sociali e la costruzione politica di una alternativa verso le presidenziali del 2019.

 Ma sarà soprattutto la capacità di resistenza popolare, sindacale e sociale di questi mesi a definire quali limiti posso essere imposti dal basso per provare a fermare un governo che ha ceduto al FMI il timone del paese.

Si tratta di una crisi creata dall’alto dato che la situazione di instabilità finanziaria, come denuncia Alexander Kicillof , ex ministro dell’economia dell’ultimo governo di Cristina Kirchner, è stata causata dalle politiche che il governo della coalizione Cambiemos ha messo in atto fin dal primo giorno, mascherandole con una retorica e una narrativa basate sul progresso individuale e sulla lotta alla corruzione. E, come da manuale, il governo scarica i costi dell’insostenibile indebitamento e della recessione sui lavoratori dei diversi settori – privato, pubblico, disoccupati e lavoratori delle economie popolari. Ma il panorama sociale nel paese si sta incendiando e le lotte sociali si trovano davanti alla sfida di impedire al governo di portare avanti queste politiche devastanti e antipopolari.

 

Foto di Paula Guez

 

Guerra all’educazione

In queste ultime settimane è esploso il conflitto nelle università, dopo i tagli decisi dal governo nazionale. Ma anche le scuole sono in subbuglio. A causa dei tagli ai fondi di manutenzione, due lavoratori della scuola sono morti un mese fa in una esplosione in una scuola dell’area metropolitana di Buenos Aires: i controlli effettuati nelle settimane successive hanno portato alla chiusura di oltre un centinaio di scuole per motivi di sicurezza.  Ieri decine di migliaia hanno partecipato alla manifestazione in ricordo di Sandra e Ruben, i due lavoratori che hanno perso la vita nella scuola.

Ma la guerra alla formazione è iniziata già da oltre un anno, con i tagli al Conicet, con il piano di smantellamento degli istituti di formazione terziaria della capitale, con gli attacchi contro la presenza di studenti stranieri nelle università come scusa per attaccare la gratuità delle università argentine.

Sono di poche settimane fa le dichiarazioni della governatrice della provincia di Buenos Aires, Maria Eugenia Vidal: «non ha senso investire fondi statali per le università pubbliche nelle aree povere del paese perché nessun povero in Argentina andrà mai all’università» ha affermato l’esponente di punta della coalizione Cambiemos, criticando le università pubbliche del cono urbano. Queste costituiscono esperienze molto interessanti di democratizzazione dell’accesso all’università nei quartieri popolari dell’immensa area metropolitana di Buenos Aires e stanno subendo un forte definanziamento e minacce di smantellamento da parte del governo.

Dai primi di agosto, 57 università su 62 sono paralizzate dagli scioperi e la scorsa settimana sono state occupate decine di facoltà. Lo scorso giovedì, oltre trecentomila persone hanno manifestato a Buenos Aires contro i tagli reclamando aumenti salariali per i docenti.

I sindacati richiedono il 30 per cento di aumento a fronte di una inflazione che si proietta attorno al 35 o 40 per cento, mentre il governo non si smuove dalla proposta di aumenti graduali che non superano il 15 per cento – e il blocco immediato dei tagli, rivendicando l’urgenza di un aumento dei finanziamenti per università e ricerca. Sotto il gelo, la pioggia e la grandine si è tenuta l’immensa manifestazione nella capitale, pochi giorni dopo i centomila in piazza a Córdoba, le mobilitazioni a Rosario in seguito allo sgombero violento della facoltà di Giurisprudenza  e le decine di manifestazioni che si sono tenute in tutto il paese nelle scorse settimane.

Nonostante questo, il giorno dopo il governo ha annullato e rinviato alla settimana che viene il tavolo di negoziazione salariale che era stato convocato perla settimana precedente. La risposta è stata il rilancio dello sciopero in tutto il paese e l’occupazione di nuove facoltà. Date le condizioni economiche del paese ma anche la forza che le università stanno mostrando e l’appoggio che ricevono dalla società, il conflitto sembra destinato ad aumentare ed estendersi ulteriormente, connettendosi con le lotte e le rivendicazioni sociali dei differenti settori colpiti dalla violenza del saccheggio neoliberista.

 

Licenziamenti a mano armata

Venerdì scorso il ministro Luis Miguel Etchevere, ex presidente della Società Rurale, espressione dell’oligarchia agroesportatrice argentina, ha reso pubblici 545 licenziamenti nel ministero dell’Agroindustria, quasi tutti legati alla segreteria di Agricoltura Familiare, che è stata praticamente smantellata.

All’annuncio dei licenziamenti, i lavoratori riuniti nel sindacato ATE hanno occupato pacificamente il Ministero, per poi bloccare il traffico nella strada di fronte all’edificio: la repressione violenta dei reparti di Infanteria in pieno centro della città non si è fatta attendere, mentre ieri mattina oltre diecimila lavoratori hanno partecipato al corteo lanciato fino al Ministero della Modernizzazione, responsabile dei licenziamenti nel settore pubblico.

La stessa repressione violenta è avvenuta la settimana scorsa contro i lavoratori navali di Astillero Rio Santiago della vicina città de La Plata dove a fronte di oltre tremila posti di lavoro in dismissione, migliaia di lavoratori in corteo pacifico sono stati violentemente caricati con proiettili di gomma e lacrimogeni dalla gendarmeria.

Poche settimane prima, erano stati licenziati oltre trecento lavoratori di Telam, circa il quaranta per cento degli impiegati dell’agenzia di stampa statale, così di fatto smantellata. Settimane di lotta hanno portato finalmente a una sentenza favorevole al reintegro, che è stata impugnata dal governo.

Assieme ai licenziamenti, la crisi colpisce duramente anche le esperienze cooperative e le fabbriche recuperate, che hanno occupato la scorsa settimana il Ministero dell’Energia, per richiedere il blocco all’aumento delle tariffe.

Il cosiddetto tarifazo sta mettendo a rischio la stessa possibilità di sopravvivenza delle oltre quattrocento cooperative di lavoro, che impiegano circa quindicimila lavoratori e lavoratrici nate dalle occupazioni di fabbriche e imprese fallite negli ultimi quindici anni. Anche li, nessuna mediazione politica e nessuna assunzione di responsabilità da parte degli esponenti del governo.

Le esperienze di autogestione del lavoro sono costrette a resistere creativamente, come sostiene l’antropologo Andrés Ruggeri, alla ricerca di nuovi dispositivi di solidarietà e mutualismo per difendere i posti di lavoro e le proprie esperienze in questa difficilissima fase economica.

Il ritmo della resistenza

Questo è lo scenario in cui da ormai diversi mesi aumenta l’intensità della conflittualità sociale nel paese ad un ritmo travolgente, continuo, frenetico. Le strade e le piazze sono diventate spazi dove tessere resistenze, dove rispondere con l’incontro di corpi e di passioni, di sogni e di rabbia alle politiche di disciplinamento e di terrore finanziario imposte dal governo e dal Fondo Monetario Internazionale.

La straordinaria potenza collettiva delle moltitudinarie piazze femministe argentine di questi mesi, del Ni Una Menos e della lotta per l’aborto legale, le mobilitazioni dei lavoratori dell’economia popolare, gli studenti, le esperienze di autogestione e le lotte indigene ed ecologiste contro l’estrattivismo, battono il ritmo della resistenza alle incessanti politiche di saccheggio che penetrano nei territori in forma di una continua emergenza, con licenziamenti, violente repressioni, tagli alla salute e all’educazione, politiche di austerità imposte a furia di decreti e di gendarmeria schierata davanti ai ministeri, alle fabbriche e nelle strade e nei territori.

Non è un caso che sia stato approvato in fretta e furia pochi mesi fa dal governo il decreto, pesantemente contestato, che permette l’utilizzo delle forze armate per il controllo delle frontiere e di altre questioni di politica interna, decisione funzionale a liberare forze della gendarmeria per la gestione dell’ordine pubblico dei mesi a venire, da schierare nelle città e nei territori metropolitani dove maggiormente comincia a sentirsi la miseria, la fame, l’assenza di lavoro e di servizi.

Nei quartieri popolari, denuncia la CTEP – Confederazione dei lavoratori dell’economia popolare – le cooperative si trovano di fronte ad una caduta drammatica delle possibilità di lavoro e delle fonti di reddito, mancano i beni primari, c’è una emergenza sociale ed alimentare in corso e dopo la svalutazione rispetto al dollaro molti prodotti sono stati ritirati dalla circolazione dai grossisti e dai supermercati.

«Non vogliamo un nuovo 2001, dove a rimetterci sono sempre i poveri e gli umili, vogliamo che si ponga fine alla fame e alla sofferenza che stanno vivendo i settori popolari, il governo e il FMI sono responsabili di questa situazione terribile e drammatica», afferma Juan Grabois, uno dei portavoce del sindacato dell’economia popolare e figura molto vicina a papa Francesco.  I movimenti sociali e le organizzazioni dell’economia popolare hanno lanciato una agenda di lotta, assemblee e mobilitazioni fin dai prossimi giorni fino al prossimo 25 settembre, data per cui è stato convocato lo sciopero generale da tutti i sindacati.

Sarà una giornata di mobilitazione e lotta diffusa nel paese che sta già assumendo una grandissima importanza, nonostante la tempistica ritardata dalla burocrazia e dalla complicità di alcuni settori sindacali con il governo. Non si esclude che la data venga anticipata, mentre nelle assemblee nelle università, in quelle territoriali e negli spazi delle organizzazioni sociali e politiche ci si prepara ad una primavera di conflitto e resistenza.

Immagine di copertina di: Julieta De Marziani – Rivista Anfibia.