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MONDO
La COP16 in Colombia si è chiusa senza accordi ma con partecipazione
Si è conclusa venerdì 1 novembre la COP16 sulla biodiversità tenutasi a Cali, Colombia. Fra i risultati più importanti, il riconoscimento del ruolo delle popolazioni indigene nella protezione dell’ambiente
«Senz’acqua non c’è vita: buongiorno, fratello fiume». Con queste parole il magistrato della Giustizia Speciale per la Pace Miller Hormiga ha aperto la cerimonia di guarigione del Río Cauca, il secondo fiume più importante della Colombia, a margine della COP16 che dal 21 ottobre al primo novembre si è svolta a Cali. «Tutti noi che abbiamo vissuto sulle rive del fiume, abbiamo goduto della sua ricchezza e forza – ha proseguito Hormiga – ci ha dato vita e cibo, ci ha fatto nuotare, crescere e innamorare, per cui dobbiamo ringraziarlo. Ma dobbiamo anche abbracciarlo, perché come noi è stato vittima della violenza, il suo cuore ha ospitato la guerra e la morte. Oggi lungo il fiume Cauca scorre la memoria di tutti i crimini che sono stati perpetrati e di cui è testimone».
Il riferimento è al riconoscimento storico del fiume Cauca come vittima del conflitto armato, formalizzato nel 2023 dalla Giustizia Speciale per la Pace, l’organo di giustizia di transizione nato a seguito degli Accordi di Pace del 2016 fra governo e FARC e il cui obiettivo è di far luce su quanto avvenuto nei 52 anni di conflitto interno e giudicare i principali responsabili da una prospettiva riparatrice.
Presenti alla cerimonia vittime e carnefici: fra le prime, le comunità indigene e afrocolombiane del sud-occidente del paese, fra i secondi un ex-comandante guerrigliero e un ex-generale dell’Esercito Nazionale. Il riconoscimento del fiume come vittima del conflitto armato si deve al suo uso come fossa comune per disperdere migliaia di vittime della violenza e per lavare i crimini commessi. Oggi, a 20 anni di distanza, la verità prova timidamente a farsi largo, per cui si riconosce che la maggior parte dei delitti furono commessi dalla complicità fra esercito e gruppi paramilitari tra il 2000 e il 2004, gli anni bui del governo di estrema destra di Álvaro Uribe.
Ma c’è altro, e per rendersene conto basta volgere lo sguardo al colore dell’acqua del fiume durante il simbolico percorso in barca che conclude la cerimonia: il Río Cauca continua a soffrire, oggi a causa dell’estrazione mineraria e dello spargimento di sostanze chimiche.
La COP16 è risultato del trattato internazionale adottato nel 1992 e ratificato da 196 paesi – fra i quali mancano gli Stati Uniti – e si pone come obiettivo la protezione della biodiversità e la promozione dello sviluppo sostenibile. Il risultato più importante dell’ultimo incontro, avvenuto a Montreal nel 2022, era stata l’adozione di un’ambiziosa tabella di marcia per raggiungere 4 obiettivi e 23 traguardi entro il 2030, fra i quali appariva la protezione del 30% di terre e acque del pianeta, il riconoscimento dei diritti delle comunità indigene nella tutela della natura, la rigenerazione di un altro 30% di ecosistemi degradati, la riduzione alla metà degli sprechi alimentari e dell’uso di fertilizzanti, la mobilitazione di risorse pubbliche e private per almeno 200 miliardi l’anno.
Come spesso accade in questi vertici quasi autocelebrativi, i traguardi non sono stati raggiunti, per cui alla vigilia dell’evento di Cali l’obiettivo esplicito era quello di riprendere e rafforzare la tabella di marcia stipulata nel 2022 a Montréal. Dopo 12 giorni e mezzo – la discussione è proseguita fino alle prime ore di sabato 2 novembre, per poi essere rimandata alla prossima edizione prevista in Armenia nel 2026 – non si è però giunti a un accordo su due punti critici: come monitorare l’implementazione della tabella di marcia e come raggiungere i 200 miliardi l’anno per il suo finanziamento, di fronte alla richiesta dei “paesi in via di sviluppo” di creare un fondo basato sul principio di solidarietà, e al ritardo dei “paesi ricchi” di fornire 20 miliardi di dollari all’anno entro il 2025.
«I governi hanno presentato piani per proteggere la natura, ma sono stati incapaci di mobilitare i soldi necessari per realizzarli», ha dichiarato con un certo sarcasmo il capo della delegazione di Greenpeace alla COP16, An Lambrechts; Susana Muhamad, ministra colombiana dell’ambiente e presidente della COP16, ha riconosciuto che le discussioni sono avvenute in un clima polarizzato, ma ha sottolineato alcuni risultati importanti: il primo, l’istituzione di un fondo per condividere i benefici derivati dai dati genetici di animali e piante, poi ampiamente usati per la produzione di cosmetici e medicamenti. Tradotto, significa che le imprese private dovranno dare – se lo vorranno – una percentuale dei profitti ricavati a chi, soprattutto comunità indigene e rurali, in prima istanza scopre le proprietà terapeutiche di alcune specie di flora e fauna. Il secondo grande risultato è stata la creazione di un nuovo organismo sussidiario all’articolo 8J del Quadro globale per la biodiversità Kunming-Montreal del 2022, che consiste nel riconoscimento dei saperi delle popolazioni indigene e afro in quanto risorse fondamentali per la protezione degli ecosistemi, e quindi del coinvolgimento diretto di queste ultime nella formulazione di politiche pubbliche relative all’uso sostenibile delle risorse biologiche.
Quanto alla Colombia, ospitando l’evento ha saputo rafforzare la sua immagine a livello internazionale e inoltre ha presentato un’agenda avanguardistica con un piano d’azione per contribuire al raggiungimento degli obiettivi generali che prevede l’estensione dal 24% al 34% della protezione del territorio nazionale, contando terre, acque dolci e salate, zone costiere.
Il presidente Petro, dal canto suo, ha denunciato che «i megaricchi emettono anidride carbonica, facendola pagare ai paesi che hanno foreste». Ciò nonostante, la Colombia a otto anni dalla firma degli Accordi di Pace rimane una questione complessa: un rapporto di Global Witness per l’anno 2023 ha definito il paese come il luogo più insicuro al mondo per chi difende l’ambiente, contando 79 omicidi, 461 dal 2012. Il paese rimane fra i principali produttori ed esportatori di cocaina, e monocolture ed estrazione mineraria illegale continuano a generare pesanti impatti sull’ambiente; i principali responsabili sono i gruppi armati che controllano queste economie illecite, fra i quali si trovano le dissidenze delle FARC sorte dopo il 2016 e, in particolare, i paramilitari che controllano ampie fette di territorio, soprattutto lungo la costa atlantica.
D’altra parte, il resto del pianeta non se la sta passando meglio, fra guerre, crisi climatica dovuta all’attività umana e un genocidio in corso, per cui il poco o niente ottenuto alla COP16 dovrà contare su una buona dose di coordinazione e volontà politica dei vari Stati firmatari per poter sperare di realizzarsi.
Nel frattempo, parole a parte, la perdita della biodiversità è una minaccia incombente, come dimostra il fatto che degli otto milioni di specie presenti al mondo, uno si trova già ad alto rischio di estinzione. Fare pace con la natura è urgente e necessario: per farlo occorre ripensare un intero modello di sviluppo, e molto altro.
Ma a Cali, alla COP16 della gente, un barlume di speranza è stato offerto dalle popolazioni indigene accorse in massa: «È importante che il mondo sappia che siamo vivi e che stiamo proteggendo il territorio e la madre terra», ha specificato la senatrice della Repubblica Aida Quilcue, appartenente al gruppo etnico Nasa. «Noi stessi, nel corso della storia, siamo stati vittime di sterminio fisico e culturale; ma esistiamo ancora e con le nostre conoscenze ancestrali, con la nostra specificità, siamo un’alternativa di vita al saccheggio e alla violenza».
L’immagine di copertina è dell’autore
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