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La conoscenza è una ferita che si può curare
Pubblicati per la prima volta nel 1963, i “Tre Studi su Hegel” presentano una dialettica senza sintesi, continua apertura del reale, teoria materialistica del linguaggio inteso come critica
«Una volta ho detto che dopo Auschwitz non si poteva più scrivere una poesia»: durante le lezioni tenute in contemporanea alla stesura della Dialettica Negativa, Adorno lamenta di essere stato inteso alla lettera. Intendere un’affermazione in senso letterale significa sottoporla a verifica, cercare la corrispondenza, esaminare il vero in termini di aderenza – di equivalenza. Compito della filosofia è invece stare «nell’intervallo», nella «vibrazione di due possibilità così opposte tra loro». In ciò consiste il lavoro del filosofo, che «è dare parola a ciò che altrimenti non la trova». Compito in questo caso è recuperare – salvare – una differenza interna al pensiero che chiama in causa la nozione di esperienza, centrale nell’elaborazione di Adorno, che non risponde ai dettami del principio di non contraddizione, ma che anzi la implica. Lo «scandalo» di Auschwitz è in questo senso la sua durata, la sua programmaticità, categoria moderna per eccellenza, che accomuna le dittature «all’American way of life»: entrambe ordinano l’esperienza, anticipano la sua possibilità nelle griglie di un reale interamente amministrato. Se Hannah Arendt dirà che dopo Auschwitz «tutto è possibile», per Adorno che tutto sia possibile significa che nulla lo è. Per entrambi i campi sono un «laboratorio» di adeguamento del reale a un ideale di autonomia, dove ciò che viene liquidato è tutto ciò che rifiuta la propria corrispondenza all’ideale. Ideologia è per Arendt il procedimento di «emancipazione del reale dall’esperienza», assolutizzazione di un «meccanismo logico» che ipostatizza una «coerenza che non esiste affatto nel regno della realtà». Il volontarismo del soggetto assoluto – pienamente autonomo – produce lo svuotamento del reale: il carattere totale dei sistemi pienamente realizzati dalle dittature è la coincidenza del reale con l’esistente, puro procedimento logico che determina il possibile a partire da ciò che esso stesso pone. Così la condizione di sopravvissuto – Adorno si chiede cosa significa vivere dopo Auschwitz – è la stessa che troviamo nell’ideale del self-made man, in cui l’impotenza è sublimata nel suo rovescio: l’individualismo della morale borghese è sintomo di un’impotenza radicale dentro un’ideologia – quella del successo, del performativo, che è generazione di esperienze prevedibili – che la toglie.
A questa coincidenza che è programmatica, totalitaria e positiva, non si tratta di opporre un altro positivo: se «una delle tesi più discutibili di Hegel è quella della razionalità del reale» per cui «sarebbe autenticamente possibile solo ciò che è diventato esso stesso effettuale», smascherare una tale filosofia che «marcia sempre con i battaglioni più forti», che «fa propria la sentenza di una realtà che seppellisce sotto di sé ciò che potrebbe essere altrimenti», richiede di smascherare il realismo ingenuo che vorrebbe restituire l’esperienza come prova: come verifica che sottopone il pensiero a una presunta oggettività che non sia già stata mediata soggettivamente. Adorno scrive che oggi persino la scienza ha smesso di credere nell’esistenza di una situazione oggettiva, non contaminata dall’osservazione. Contro Hegel significa allora per Adorno non interrompere questa cattiva dialettica che diventa apologia del reale, ma forzare il suo metodo contro i suoi esiti in forma di fedeltà, rintracciare la verità in ciò che è falso – il suo nucleo di verità – nel momento della negazione. La dialettica negativa non è una sospensione, non è fenomenologia interrotta, ma un procedere che dichiara la propria aderenza a ciò che nel pensiero è «finito», «limitato», «insufficiente» e «inadeguato». Contro il compimento e la pacificazione del reale, Adorno riconosce che la totalità è sempre antagonistica, che la contraddizione dialettica è sempre «esperita nella società». Nulla è esterno alla produzione umana, la stessa categoria di esperienza è interamente dipendente dal lavoro sociale.
In consonanza con il ragionamento di Hannah Arendt in Le origini del Totalitarismo, la complicità nascosta che il linguaggio intrattiene con i totalitarismi è frutto di un rovesciamento in cui il pensiero ha «reso la distruzione rispettabile come dispositivo per giungere all’essere». La tradizione di pensiero dominante – in questo senso Adorno «salva» Hegel nella sua funzione antipositivista – articola il reale attorno alle esigenze di verità delle proprie categorie di pensiero. Il linguaggio della metafisica eleva le categorie del pensiero a categorie dell’essere: istituire legami con la copula «è» non dimostra l’esistenza di ciò di cui si predica (allo stesso modo Adorno dirà, con riferimento a Heidegger, che «non si consegue alcuna conoscenza filosofica separando il prefisso di un verbo e riunendoli poi nuovamente con un trattino»). Il «senso» per cui lavorano le ontologie dell’esistenza è in realtà il frutto di un equivoco semantico: si predica la realtà delle regole formali del linguaggio. Il linguaggio «sensato» si costruisce nella rimozione violenta del suo oggetto – sovrappiù di «estraneità», mediazione reciproca, primato dell’oggetto sul soggetto. Per Adorno non è tanto una questione di difendere il particolare contro l’universale, quando mostrare che il procedere della razionalità ricava concetti dalla rimozione della temporalità dei suoi oggetti. Dove per temporalità non bisogna intendere una mutevolezza interna agli oggetti del pensiero, un loro divenire altro da sé, quanto una loro particolare «povertà», il carattere parziale, l’insufficienza costitutiva che toglie loro ogni autonomia. «Niente si può comprendere isolatamente»: la possibilità della conoscenza è nella «finitezza», nella «caduta». Il luogo della conoscenza è la «frattura» in cui bisogna avere «la capacità di stare», in quanto il singolo «si dischiude alla conoscenza» in forza «dell’insufficienza della sua mera singolarità».
In Adorno il linguaggio è apologia o critica. La critica coincide in un certo senso con l’elogio dell’equivoco e della vaghezza. È per questo che l’interpretazione letterale di un enunciato è sempre l’elezione dell’univocità a parametro del reale. Alcune delle pagine più belle, fuori dall’esposizione della dialettica negativa come metodo, Adorno le dedica all’analisi del dettato della «chiarezza» che contraddistingue la tradizione filosofica occidentale della razionalità cartesiana. L’ideale della chiarezza è sintomo di un realismo ingenuo, la cui ingiunzione è «niente venga pensato che non sia comunicabile». Ciò che viene comunicato non è mai partecipato: al «cliente», che acquista il prodotto finito, nel migliore dei casi «gli si danno parole d’ordine o testi pubblicitari». C’è una lezione del ’51 in cui Adorno fa una digressione sull’uso delle particelle linguistiche nell’epoca del nazionalsocialismo: la difficoltà a usare determinati connettori è indicativa di un’incapacità di compiere operazioni logiche, da cui il parlante è dispensato. Il claim pubblicitario somiglia al comando, in cui si tratta solamente «di stabilire se si è per o contro la cosa»; ai sistemi chiusi della follia – in cui le connessioni hanno il carattere dell’evidenza –; all’ideologia, in cui ogni cosa può essere dedotta «senza lacune». L’ideale della chiarezza è l’applicazione di uno «schematismo» in cui «la sicurezza di sé del soggetto e la sua prova sono unite in un modo del tutto oscuro anziché venire tematizzate nella loro relazione». La stessa copula «è» toglie e istituisce una relazione, la cui semplicità è funzionale alla chiusura. Una simile chiarezza è quella dei «pensieri paranoici» che non indagano i legami di predicazione ma li assumono come premesse.
C’è di contro un uso della lingua che non corrisponde al vero ma che sana. È una lingua che si sottrae alla verifica, che ha il suo momento di verità nella mediazione interna al linguaggio – il compito, il lavoro della filosofia – e nel suo esterno. Adorno scrive che il linguaggio non istituisce il vero, il linguaggio è nel vero: le sue condizioni di possibilità più intime sono le più esterne. Una concezione materialistica del linguaggio tiene insieme il sostrato somatico, tattile, della lingua, «la zona muta del corpo», con il pensare, per via di una trascendenza che è negativa, che è critica: della tendenza del linguaggio a porre in maniera positiva ciò che è la sua ferita, degli schematismi che istituiscono l’autonomia nel posto dell’inadeguatezza. Il vero della lingua sta nel procedere che è simile a quello con cui uno straniero impara a parlare: a forza di «equivoci» necessari e «confusioni ridicole», che esplicita, al posto della comprensione, il bisogno di essere compreso.
Immagine di copertina: Paul Klee, Tramonto, 1930.