MONDO

La comunicazione indipendente e la denuncia della violenza di Stato in Argentina

Pubblichiamo la seconda parte dell’inchiesta su media alternativi e comunitari come risorse per la resistenza e la denuncia della violenza poliziesca in Argentina.
Repressione di Stato e media alternativi in Argentina

Zittire i media, innanzitutto

Tra le strategie necessarie alla repressione, il controllo dei mezzi di comunicazione è da sempre una delle più importanti: i media possono essere un potente alleato nel nascondere la violenza istituzionale, o spostarel’attenzione sulla necessità di ordine e sicurezza, costruendo una narrativa della paura e della legge come punizione che diventa senso comune, l’unica realtà riconosciuta e valida. Ma i media possono essere anche uno scomodo nemico, se scelgono di denunciare la repressione, l’abuso di potere, il volto violento dello Stato, rivendicando allo stesso tempo la legittimità della protesta, dell’espressione pubblica del dissenso, e mostrando le cause della diseguaglianza sociale.

Ecco perché durante le manifestazioni e i presidi la repressione colpisce soprattutto i giornalisti, chiunqueabbia una videocamera o una macchina fotografica in mano. Non è un caso, si tratta di persone che fanno comunicazione popolare, che registrano dal vivo le situazioni di conflittoe denunciano quel che ilmainstreamtace o distorce. Così è stato anche durante lo sgombero della Sala Alberdi, dove la polizia ha reagito con violente cariche, lacrimogeni, idranti e gas urticanti alla resistenza di una delle occupazioni culturali più significative e costruttive di Buenos Aires, e ha sparato a tre persone con proiettili potenzialmente letali.

“Questa politica repressiva non è una casualità: si è ripetuta al Borda, al Parco Indoamericano e in questi ultimi tempi con i docenti e la manifestazione delle donne” ha spiegato il Polaco parlando delle ragioni che hanno portato al processo della Metropolitana: la lista degli scenari di repressione degli ultimi anni è lunga, e l’aggressione ai giornalisti mostra l’intervento sistematico per evitare qualsiasi registro dei fatti. Quel che ha permesso di identificare da dove venissero gli spari, quella sera alla Sala Alberdi, e quindi trascinare i tre poliziotti al banco degli imputati, sono state proprio le immagini e i video raccolti e messi a disposizione da numerosi manifestanti e mediattivisti.

Al termine di un processo in cui la partecipazione è stata continuamente ostacolata da proroghe e udienze aggiuntive, lo scorso 6 giugno la magistratura ha sostanzialmente avallato la risposta violenta dello Stato al reclamo di un gruppo di cittadini per la riapertura di uno spazio culturale; tuttavia il paziente lavoro di ricostruzione dei fatti portato avanti dalla Red Nacional de Medios Alternativos (RNMA) ha dimostrato, in aula ma soprattutto fuori, nell’opinione pubblica, che l’uso di armi da fuoco durante la repressione non fu un gesto individuale dei tre poliziotti identificati e imputati, ma il risultato di un ordine gerarchico, che coinvolge e rende responsabili tutti i funzionari allora in carica: il ministro alla cultura cittadino Hernán Lombardi, il responsabile della sicurezza Guillermo Montenegro e il sindaco Mauricio Macri.

La battaglia delle leggi e delle politiche

L’incolumità e la libertà di movimento dei giornalisti che fanno informazione durante manifestazioni ed eventi di protesta è parte del fondamentale diritto a comunicare, che coinvolge anche l’accesso a un’informazione plurale e diversificata, così come la regolamentazione della proprietà dei mezzi di produzione del sistema mediatico, con misure di contrasto al monopolio. In diversi paesi latinoamericani negli ultimi dieci anni si sono aperti spazi di cambiamento in direzione progressista: le leggi sui media approvate in Argentina, Venezuela, Uruguay, e poi in Ecuador e Bolivia, nonostante contengano differenze anche importanti, hanno in comune il riconoscimento di un terzo settore della comunicazione che non corrisponde né al pubblico né al privato, ma è formato da tutti i media della società civile che in questi paesi hanno una lunga tradizione di lotta al fianco dei popoli, e che si riconoscono come “comunitari, alternativi e popolari”.La norma argentina 26.522 fu salutata nel 2009 come una delle più avanzate in termini di ampliamento del diritto a comunicare, ma la sua applicazione reale, che avrebbe garantito licenze e fondi ai media dal basso, è stata sempre un cammino irto di ostacoli e segnato dalla mancanza di volontà politica da parte del governo di Cristina Kirchner. Dopo le elezioni del 2015 è arrivato il colpo di grazia: una delle prime misure messe in attodal nuovo presidente Macri è stata proprio la modifica, via decreto di necessità e urgenza, della famosa legge sui media.

Il ripristino dei privilegi alle grandi corporazioni mediatiche, la perdita di rappresentanza istituzionale e il congelamento di tutti i programmi di finanziamentosono state le primeconseguenze visibili, ma i segnali di una politica intenzionata a sostituire la libertà d’espressione con la libertà d’impresa non si si sono fermati lì. Di poche settimane fa è la notizia della fusione di Telecom e Cablevisión, che estende l’impero delle corporazioni mediatiche privatea un livello mai visto nel Paese, e d’altra parte la repressione delle voci dissenzienti ha preso forma già dallo scorso anno conuna serie di sgomberi, sanzioni e divieti di trasmettere a diverse radio e riviste, pratiche che in Argentina non si vedevano più dagli anni Novanta dei governi di Menem e del neoliberismo sfrenato, in cui le emittenti alternative venivano perseguite in quanto “clandestine”.

Nel gennaio 2016 è stato sequestrato il trasmettitore a Radio Masi, della comunità boliviana di San Luis, con l’accusa di interferenza su una frequenza usata per le comunicazioni aeroportuali; a luglio ENACOM – l’ente statale preposto alle politiche di comunicazione – ha attaccato FM Sol y Verde nella provincia di Buenos Aires, e solo la mobilitazione di movimenti e organizzazioni politiche ha fermato lo sgombero. In ottobre è stata la volta della FM Rosiclerdi Salta “La Voz del Migrante”, obbligata a interrompere le trasmissioni per interferenza con una radio commerciale. A febbraio di quest’anno, una nuova denuncia di ENACOM per interferenza con il segnale aeroportuale ha interrotto le trasmissioni di FM Ocupas a Moreno, nella cintura bonarense, mentre nella capitale Antena Negra Tv ha subito due volte il sequestro dell’attrezzatura perché trasmetteva su un canale della tv digitaleoccupato dalla potente azienda di sicurezza privataProsegur, e sta affrontando una causa legale a due dei suoi integranti. Radio EstaciónSur , che va in onda dalla Catamarca, si è vista rifiutare la richiesta di licenza lo scorso aprile, e nello stesso periodo la polizia è intervenuta su ordine del Ministero delle Comunicazioni per sgomberare due radio comunitarie di La Matanza e Virrey del Pino e portare in questura i responsabili delle emittenti che dovranno affrontare una causa penale, con la solita accusa non meglio specificatadi interferenza aeroportuale.

Gli interventi dell’ENACOM e delle istituzioni statali poggiano sulla risoluzione 2064/17che consente di sgomberare e chiudere le emittenti senza licenza o autorizzazione, in combinazione con un protocollo firmato nel dicembre 2016(ris. 9435) che abilita a intervenire direttamente conle forze di polizia nei casi di interferenza. D’altronde, la banda delle frequenzeè satura da decenni nelle grandi città argentine, e le emittenti alternative sono sempre state illegali; non hanno avuto la possibilità di regolarizzarsi nemmeno con la nuova legge, che avrebbe dovuto funzionare sulla base di una mappatura – mai realizzata – dell’attuale distribuzione delle frequenze. L’esperienza accumulata, la legittimità costruita nel tempo, la passione e la costanza, la creatività davanti ai problemi e il legame con i quartieri, le comunità, i movimenti e le organizzazioni sociali sono le vere risorse che rendono la comunicazione alternativa in Argentina una realtà solida e resistente. La scommessa di poter cambiare il mondo comincia dal rompere la narrazione unica, superare il senso comune, mobilitare e legittimare sentimenti e immaginari di lotta. Le scelte politiche del governo Macri in tema di comunicazione parlano chiaro della minaccia che la presenza dei media alternativi rappresenta: dietro ad ogni radio, pagina d’informazione, tv di zona, collettivo audiovisivo c’è una comunità, una rete di movimento, un gruppo di docenti e giuristi, un’associazione nazionale o internazionale che rivendica il diritto a comunicare, alla pluralità e alla diversità di voci nella sfera mediatica.

La comunicazione alternativa resiste ed esiste

Già a pochi mesi dalle prime misure repressive è nato Interredes, un coordinamento che raccoglie le principali reti di media nazionali, e che si è subito attivato sul piano rivendicativo nei confronti di ENACOM; allo stesso tempo è tornata a riunirsi la Coalizione per una Comunicazione Democratica, che a partire dal 2008 aveva promosso la nuova legge sul sistema mediatico con un ampio processo partecipativo, e che ora fa appello alle sedi del diritto internazionale. Inoltre, nuove emittenti, riviste, pagine web continuano a nascere e funzionare, come hanno sempre fatto, nonostante le condizioni avverse. Tra queste, Barricada Tv, che il 28 giugno ha festeggiato una data d’importanza storica:dopo anni di lotte per ottenere la licenza e l’assegnazione di una frequenza, la televisione alternativa ha cominciato a trasmettere in digitale in tutta la capitale con una programmazione quotidiana che copre le 24 ore (come abbiamo raccontato qui). E infine, i media alternativi, comunitari, popolari continuano a mostrare e denunciare la repressione, evidenziando l’allarmante aumento degli episodi che ne fanno una sistematica politica di Stato, mentre i media mainstream insistono con una spudorata retorica di criminalizzazione della protesta e passano sotto silenzio le ragioni dei reclami. L’ultimo mega-operativo è intervenuto lo scorso 28 giugno a sgomberare le organizzazioni sociali riunite davanti al ministero per lo Sviluppo Sociale per chiedere il reintegro di 40mila lavoratori del settore cooperativo.

A metà aprile è stata la volta dei docenti, colpiti a manganellate e con gas urticanti per aver montato una scuola itinerante in piazza, nel contesto di una lunga mobilitazione che dall’inizio dell’anno chiede adeguamenti salariali e finanziamento all’educazione. Il 6 aprile la gendarmeria ha utilizzato il suo arsenale repressivo sull’autostrada Panamericana, nell’ambito di uno sciopero nazionale esteso a tutto il Paese e in cui il ministro alla sicurezza Bullrich ha dato indicazione di mettere in atto il “protocollo anti-picchetto”, uno strumento già proposto nel febbraio 2016, orientato alla criminalizzazione e limitazione delle manifestazioni pubbliche, in cui erano previste anche restrizioni alla libertà di movimento dei giornalisti durante le proteste.

“Nell’ultimo anno e mezzo sono state date direttive per cui la violenza istituzionale si può lasciar passare” ha dichiarato Demian Konfino, dell’Osservatorio dei Diritti Umani della Città . “Non lo metterei in relazione con il maggior numero di effettivi ma piuttosto con il messaggio che si sta dando concretamente agli operativinell’istituto di formazione della polizia. La forza poliziesca ha una centrale politica. Dipende da un governo che ha un’ideologia” ha aggiunto. Ma “c’è qualcosa che sta funzionando molto bene ora per prevenire la violenza istituzionale: il registro audiovisivo. […] A nessun agente piace quando lo filmano, perché sa che può avere delle conseguenze. Non è lo stesso farlo nell’anonimato o registrato da una videocamera. È una delle novità che si sta verificando negli ultimi anni, ed è una delle principali cose che farei davanti a un caso di presunta violenza istituzionale” ha concluso Konfino. Non esistono ricette sempre valide, però è ormai chiaro che per ridurre e prevenire la repressione, appropriarsi dei media è sempre più un’arma fondamentale, mentre “a medio e lungo periodo [la strategia] è seguire organizzandoci e prendendo coscienza”. La comunicazione alternativa argentina si trova lì, accanto e dentro le mobilitazioni, non solo per denunciare, ma anche e soprattutto per condividere quei saperi e costruire quella narrativa che può trasformare la repressione in lotta.