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CULT
La città e i suoi scontenti
La narrazione della città nella serialità televisiva rende esplicito il desiderio di ripulirla dai reietti e i marginali per ridarle lo splendore di un passato armonico che tuttavia non è mai esistito.
Guardano o ascoltano New York dall’alto, uno dalla vetrata del suo sontuoso loft all’ultimo piano di un grattacielo, l’altro dal tetto di un palazzo anonimo, che potrebbe essere in qualsiasi quartiere. Non sembrano avere molto in comune Wilson Fisk e Daredevil, il cattivo e il buono di Daredevil (uno dei prodotti Marvel per Netflix), se non la classica infanzia travagliata e una visione romantica della città dei loro anni giovanili. Eppure più gli episodi si susseguono, più viene a galla la vicinanza tra i due punti di vista. Quella che osservano è una città che detestano: delirante, avvelenata dalla droga, dalla violenza di strada, dagli stupri e dagli omicidi. Aspetti della vita metropolitana difficili da ignorare, visto che in alcuni quartieri «la strada trasforma qualsiasi giorno normale in una serie di domande difficili e a ogni risposta sbagliata si rischia un pestaggio, una sparatoria, o una gravidanza. Nessuno ne esce indenne» – come scrive Ta-Nehisi Coates nel suo bellissimo Tra Me e il Mondo.
Oltre al loro punto di vista privilegiato (entrambi in fondo si posizionano in alto per guardare e ascoltare le numerose contraddizioni che innervano “i bassifondi” della città) è soprattutto il loro desiderio a rendere affini i due nemici: ripulire la città dai “reietti”, igienizzarla, per ridarle lo splendore dei suoi anni migliori. Anche tutti gli altri protagonisti dell’universo Marvel sono animati dallo stesso disgusto e dallo stesso desiderio, dall’investigatrice privata Jessica Jones all’ex soldato The Punisher, passando per l’eroe di Harlem Luke Cage e il multimilionario Iron Fist.
L’invenzione del passato come Eden da recuperare è sempre stato uno dei mantra delle ideologie reazionarie, così come il desiderio di recuperare una dimensione comunitaria tipica della cittadina di provincia. Ma né l’uno né l’altra sono state mai attraversate da quell’età dell’oro in cui l’armonia la faceva da padrone, semmai da una diversa logica di violenza strutturale e simbolica. Dalla loro prospettiva paranoica e apocalittica, la città è la protagonista del declino morale della società, che può essere arrestato solo con spedizioni punitive al di fuori della legge. Paradossalmente, proprio negli anni delle lotte di Black Lives Matter contro le violenze e i crimini della polizia statunitense, queste serie tv restituiscono una rappresentazione delle forze dell’ordine come baluardo moderato che contiene a stento le pulsioni diffuse di farsi giustizia da sol*.
Il desiderio di sicurezza va ben al di là della semplice preoccupazione per la proprietà privata e struttura un’idea di società di una particolare classe sociale, quella privilegiata: «il mercato della sicurezza genera di per sé una sua domanda paranoica. La sicurezza diviene così un bene posizionale definito dall’accesso che il reddito consente a «servizi di protezione» privati o all’appartenenza a speciali enclave residenziali e quartieri controllati. Come simbolo di prestigio – e qualche volta come linea di demarcazione fra coloro che sono semplicemente benestanti e i veramente ricchi – la sicurezza è unità di misura di una incolumità personale, ma più ancora dell’isolamento dell’individuo da gruppi e persone indesiderabili nella sfera dell’habitat, del lavoro e dei viaggi» (Mike Davis, La Città di Quarzo, p.122).
L’altra faccia della stessa medaglia è quella che glorifica la flessibilità della città, pronta in qualsiasi momento a piegarsi ai desideri e alla creatività dell’individuo, ignorandone le criticità e le asimmetrie. In questo immaginario, nella città si può scegliere la propria identità, la propria strada, senza gli impedimenti dovuti alle aspettative delle reti familiari e alle poche opportunità offerte dalla provincia. Da Sex and the City a Looking e Girls, al di là della qualità di questi show televisivi (e, almeno gli ultimi due, sono di grande qualità), i protagonisti non sembrano mai davvero angosciati dalle proprie condizioni materiali e la strada non sembra mai trasformare il giorno “in una serie di domande difficili”, domande che semplicemente non fanno parte della loro quotidianità. Hannah Horvath, protagonista di Girls, quando la coordinatrice del più importante programma di scrittura creativa negli Stati Uniti (al quale Hannah è iscritta) le dice che non tutt* sono fatt* per l’ambiente accademico, risponde «I thrive on the streets, I always have!» («Io fiorisco per le strade, da sempre! »). Il neoliberismo ha affrontato il desiderio di pulizia con una strategia economica piuttosto che militare: grazie alla logica della “riqualificazione” si apre l’area da sanare a nuovi investimenti e viene aumentato il valore degli immobili, sancendo un nuovo patto tra élite politica e finanziaria e sbarrandone di fatto l’accesso a tutte quelle persone con redditi minimi, saltuari o informali. Così «i focolai di infezione, i buchi e le caverne più infami, entro cui per il modo di produzione capitalistico sono rinserrati una notte dopo l’altra i nostri operai, non vengono eliminati; vengono soltanto spostati! La stessa necessità economica che li ha prodotti la prima volta in un posto, li genera la seconda volta in un altro posto» (David Harvey, Città Ribelli, pp. 35-36).
In una delle ultime scene di The Deuce, uno dei più importanti saggi televisivi sulla città dell’ultimo decennio (ideata da David Simon, già creatore di The Wire, Treme e Show Me a Hero), attraversiamo in auto la New York degli anni Ottanta fino a Brooklyn, dove ritroviamo tutto quello che è stato rimosso da Manhattan negli anni precedenti, pronto per essere spostato di nuovo nel momento in cui Brooklyn stessa dovrà diventare appetibile per gli investimenti delle grandi corporazioni finanziarie e delle classe privilegiate. Nel ventunesimo secolo Brooklyn appetibile lo è diventata e ora Hannah può fiorire per le sue strade. Non possiamo certo essere nostalgici della Brooklyn di qualche decennio fa (o di Harlem come fanno i personaggi di Luke Cage), quando i corpi che l’attraversavano potevano sparire in qualsiasi momento e si trasformavano nelle chiacchiere di chi fino al giorno prima si sedeva allo stesso tavolo o sostava a due passi sullo stesso marciapiede. Ma il prezzo di questo cambiamento è pagato da strati specifici della società, spesso delineati lungo la linea del colore, che, negli Stati Uniti in particolare, è tanto fondativa quanto quella di classe (con la quale spesso si intreccia): gli/le afroamerican* e gli/ le immigrat* sono ancora costrett* a lottare per non essere John Doe o Jane Doe (i nomi usati solitamente nel gergo giuridico statunitense per indicare un cadavere la cui identità è sconosciuta), solo che lo fanno “un po’ più in là”.
«This city is diseased!» («Questa città è malata!») è un ritornello che passa di bocca in bocca tanto tra i supereroi e supereroine che tra i cattivi di turno dell’universo Marvel. Nell’immaginario televisivo la violenza nelle province rurali viene raccontata come aberrazione (basti pensare a True Detective o Sharp Objects), come qualcosa di straordinario, anche nella forma, quasi a riconfermare l’essenza armonica della dimensione comunitaria, nelle città la violenza sembra far parte della quotidianità, gli omicidi sono rapidi e spesso figli di un calcolo razionale. Ma la malattia che i Wilson Fisk e i Daredevil vogliono “curare” sono i marginal*, i reiett*, quell* che animano le contraddittorie vie del mercato informale, perché espuls* da quello formale. Eppure la città per questi soggetti è più di un semplice spazio di assoggettamento a una condizione disperata e criminale al quale i supereroi Marvel (proprio come l’élite metropolitana) vorrebbero relegarli. «La città globale è un luogo strategico per attori privi di potere, giacché li mette in grado di affermare la propria presenza, di porsi in quanto soggetti, anche quando non ottengono un potere diretto. Gli immigrati, le donne, gli afroamericani nelle città statunitensi, le popolazioni di colore, le minoranze oppresse, si affermano come soggetti rilevanti, il che difficilmente potrebbe accadere in contesti suburbani o in piccole città» (Saskia Sassen, Globalizzati e scontenti, p. 19). Pensiamo alle protagoniste di Pose, donne trans nere che, pur subendo molteplici e simultanee discriminazioni nella New York dilaniata dall’Aids tra gli anni Ottanta e Novanta, ripensano la famiglia e il lavoro di cura in maniera radicale, andando ben al di là della mera sopravvivenza. Una possibilità, quella di ripensare il diritto alla città, inaccettabile per chi ha solo in mente di restaurare “quella di un tempo”, quella mai esistita, in cui i privilegi di classe, di razza, di genere e di nazionalità non vengano mai più messi in discussione.