ITALIA
“La casa è in fiamme”: azioni di Fridays for Future in tutta Italia
Nella mattinata di venerdì, le assemblee territoriali di Fridays for Future, composte prevalentemente da giovani e giovanissim* delle scuole e delle università, hanno improvvisato in molte città italiane dei flash mob di fronte ai più importanti istituti bancari del nostro Paese. Per venerdì era infatti in programma l’uscita della terza stagione de La casa de papel, la serie tv spagnola record di incassi, la cui attesa era trepidante sui social proprio tra le nuove generazioni.
L’intreccio e i protagonisti delle prime due stagioni richiamavano esplicitamente la resistenza contro il capitalismo finanziario, ponendo scenograficamente la domanda: come vengono utilizzati i soldi che la banca centrale manda in stampa ogni giorno? Gli/Le attivist* del movimento ecologista, in alcune città in collaborazione la nascente rete italiana di Extinction Rebellion, hanno così raccolto l’hype altissimo della nuova stagione de La casa de papel come occasione mediatica per lanciare una contestazione contro gli investimenti nel settore dei combustibili fossili da parte delle più grandi banche del mondo.
Così, in più di 15 città italiane, nelle più grandi (Milano, Roma, Torino, Venezia, Pisa, Palermo, Catania), ma non solo (Brescia, Vicenza, Pordenone, Forlì, Sassuolo, Reggio Emilia, Sassari, Castellamare del Golfo) decine di attivist* si sono radunati di fronte alle sedi di Unicredit e Intesa San Paolo. Indossavano, con una variazione sul tema rispetto alla banda della serie tv, delle tute verdi, le maschere di Salvador Dalí a travisare il volto e una maschera antigas che copriva i baffi dell’icona surrealista, rappresentando in forma immediata il rapporto tra la crisi climatica e la speculazione finanziaria.
“La casa è in fiamme” è stato lo slogan al centro dell’iniziativa, riprendendo il titolo che Greta Thunberg ha dato al libro in cui racconta la sua battaglia contro il cambiamento climatico, diffusasi in tutto il mondo lo scorso 15 marzo a partire da un suo appello. “La casa è in fiamme” è un denso concentrato di quel messaggio di emergenza climatica intorno a cui i Fridays for future hanno organizzato il loro slancio mobilitativo, la comunicazione pubblica, la “presa” su* ragazz* di tutto il mondo, dopo che l’ultimo rapporto IPCC (International Panel on Climate Change, il gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite istituito per produrre una valutazione politica dei dati scientifici relativi al cambiamento climatico) ha decretato che abbiamo 11 anni per dimezzare le emissioni di CO2 e salvarci dagli effetti distruttivi del riscaldamento globale. Il 2018 è stato, a livello globale, l’anno più caldo dal 1800 a oggi; in Italia le temperature del 2018 ci dicono che il clima si è surriscaldato come mai da 218 anni a questa parte, scatenando la preoccupazione collettiva per la futura vivibilità del pianeta.
Foto dell’azione di Pisa
A tre anni dai più che discutibili accordi di Parigi – il cui piano d’azione, che prevedeva di contenere il riscaldamento globale sotto i 2 gradi, è stato comunemente ritenuto insufficiente, e per di più inapplicato dai governi nazionali – gli investimenti da parte delle più grandi banche del mondo sui combustibili fossili sono addirittura aumentati. I trentatre maggiori gruppi finanziari hanno infatti investito più di 1.700 miliardi di euro, di cui una buona percentuale destinati a quelle cento società che, operando nel settore del petrolio, del carbone e del gas, sono attualmente responsabili di più del 70% totale delle emissioni di CO2. A renderlo noto è il rapporto Banking on climate change 2019, redatto da Rainforest action network, Banktrack, Indigenous environmental network, Oil change international, Honor the earth, e il Sierra club. Si tratta della decima relazione del gruppo di associazioni che monitorano gli spostamenti di denaro da parte delle banche verso l’estrazione di combustibili fossili dal suolo.
Ai primi posti per investimenti totali, ovvero petrolio, sabbie bituminose, fracking ed esplorazione petrolifera, si trovano quattro grandi banche americane: Jp Morgan Chase, Wells Fargo, Citi e Bank of America. Complessivamente le banche statunitensi rappresentano il 37% di tutti i finanziamenti globali sui combustibili fossili, alla faccia di chi vorrebbe scaricare su Cina, India e le tigri capitalistiche orientali le maggiori responsabilità relative alla catastrofe climatica imminente. Al 29° posto della classifica troviamo Unicredit, con un investimento totale di 17 miliardi negli ultimi tre anni (circa 6 all’anno), rivolti soprattutto alle attività di lavorazione di gas naturale liquefatto (GNL o LNG) e alla costruzione di gasdotti che si stanno diffondendo a macchia d’olio nel centro e sud Italia. Nondimeno, Intesa San Paolo dal 2012 al 2017 ha finanziato con 7 miliardi di euro la costruzione di gasdotti in giro per il mondo. Unicredit e Intesa San Paolo sono state, non a caso, gli obiettivi della contestazione di Fridays for Future ed Extinction Rebellion. La destinazione degli investimenti delle principali banche italiane rivela, d’altronde, la strategia dei recenti governi italiani in materia, ben racchiusa nel Piano nazionale integrato per l’Energia e il Clima che il governo italiano ha inviato alla Commissione Europea: sostituire l’energia prodotta dalle centrali a carbone con un impiego sempre più intenso di gas metano (un altro idrocarburo di origine fossile), trasformando l’Italia in un vero hub del gas. La costruzione sui territori del centro e sud Italia di metanodotti in grado di collegare l’Italia con i fornitori dell’area del Mar Caspio, nonché gli ingenti investimenti di ENI sull’acquisto di metano, confermano questa linea strategica.
Foto dell’azione di Milano
Per altro, gli investimenti accresciuti sul carbonio e sul petrolio stanno alimentando, a detta di molti economisti, una vera e propria “bolla” (la cosiddetta “bolla del carbonio”) che gonfia artificialmente le quote azionarie legate al carbonio e i valori delle aziende che operano nel settore. L’esauribilità della risorsa, la supposta transizione ecologica e riduzione delle emissioni, nonché l’evoluzione tecnologica delle fonti rinnovabili potrebbero infatti, nel prossimo decennio, far crollare le quotazioni del carbonio, mandando in fumo miliardi di investimenti. Le perdite economiche sul mercato finanziario sono stimate, da uno studio pubblicato su Natura Climate Change, tra i mille e i quattromila miliardi di dollari entro il 2035 (in particolare in quei paesi che sono grandi esportatori di combustibili fossili, come Stati Uniti, Russia e Canada), superiori dunque a quelle della “bolla immobiliare” che causò la crisi del 2008. E con quali soldi verranno, questa volta, salvate le banche e rigenerata la bolla? La domanda potrebbe porsela proprio il Professore in una delle prossime, già annunciate, stagioni de La casa de papel.
Sebbene nella forma del flash mob, a forte richiamo mediatico ma a scarsa partecipazione reale, il passaggio di venerdì segna un importante avanzamento politico del nuovo movimento ecologista italiano, che inizia a individuare più precisamente i responsabili della crisi climatica nei predatori del capitalismo finanziario. Le scelte politiche delle banche – che investono e scommettono sul carbone, sul petrolio e sul metano, che speculano sulla devastazione ambientale e sul saccheggio dei territori, che alimentano la “bolla del carbonio” sulla pelle, e con i soldi, dei risparmiatori – vengono lucidamente messe al centro della contestazione e delle rivendicazioni legate all’azzeramento delle emissioni.
Foto dell’azione di Torino
Non è certo un caso che il movimento dei Fridays for future subisca le prime intimidazioni da parte delle Questure e degli apparati dell’ordine costituito. A Torino, cinque attivist* si sono incatenati di fronte agli ingressi della Unicredit di via Nizza, mentre il resto del presidio consegnava le chiavi al direttore della filiale, pretendendo che scendesse a “liberare” gli/le incatenat* e ad assumersi così simbolicamente le responsabilità della banca da lui rappresentata in quella sede. Il direttore, dopo essersi difeso ricordando gli investimenti virtuosi della Unicredit sulle fonti rinnovabili (8 miliardi in un lasso di tempo che neppure lui conosceva, contro i già ricordati 17 miliardi in tre anni investiti sui combustibili fossili), si è negato al confronto e rifiutato di liberare gli/le attivist*, inviando anzi la Digos a intimare che il presidio lasciasse l’area circostante la banca. I funzionari della Digos non si sono certo fatti ripetere una volta in più di intervenire per convincere i Fridays for future a liberare da sé le persone incatenate e sciogliere il proprio concentramento. A Milano, un nutrito schieramento del reparto celere ha impedito che gli/le attivist* potessero entrare all’interno della Unicredit di Corso Italia e consegnare il proprio appello al direttore di quella filiale. A Roma, infine, il gesto di repressione più grave dell’intera giornata. Gli/le attivist* si dirigevano verso la sede Unicredit di Piazza di Spagna, quando sono stati bloccat* senza alcun motivo dalle pattuglie della polizia in Via del Corso e trattenut* attraverso il prelievo dei documenti. A* giovan* del presidio non è stato infine concessa la possibilità di svolgere il flash mob, ma soltanto una fotografia in Piazza di Spagna.
Un ultimo aspetto merita ancora di essere segnalato a proposito della giornata di venerdì. Il movimento dei Fridays for future (discorso diverso quello relativo a Extinction Rebellion, proveniente dal Regno Unito e che in Italia presto scoprirà le sue carte) nasce dai recenti appelli degli scienziati e di una giovanissima adolescente svedese e segna una nuova fase di politicizzazione delle giovani generazioni. Sebbene questo movimento non sia in alcun modo riconducibile (né per composizione interna, né per terreno di lotta, né per modelli organizzativi, né per contesto esterno e salute della controparte) al ciclo dei movimenti 2010-2011, tuttavia emerge almeno un elemento che quel ciclo ha lasciato sulle spalle delle nuove mobilitazioni in corso. Chi paga la crisi climatica? Chi lo decide? Come sono investiti i soldi che i risparmiatori depositano in banca?
In uno dei passaggi memorabili della passata stagione de La casa de papel, il Professore ricordava il Quantitative Easing, con cui la Banca Centrale Europea nel 2011 stampò centinaia di miliardi di euro per salvare le banche sull’orlo del collasso. «Non stiamo rubando a nessuno, stiamo facendo un’iniezione di liquidità, ma non alle banche», disse per giustificare il proprio assalto alla Zecca di Madrid: un’iniezione di liquidità per le persone, un Quantitative Easing for the people, per la distribuzione della ricchezza sociale in Europa. Anche la rete dei Fridays for Future, in Italia, si chiede chi debba pagare la crisi climatica, annodando quella domanda alla rivendicazione di giustizia sociale attraverso una parola d’ordine dalla portata forse rivoluzionaria: “giustizia climatica”. L’uscita dalla crisi climatica deve pagarla chi su di essa ci ha speculato, le grandi multinazionali dei combustibili fossili, le imprese del settore energetico, siderurgico, metallurgico, minerario e i loro promotori finanziari. E chi lo decide? Governi incapaci di guardare oltre il loro naso, oltre la prossima tornata elettorale, o assemblee pubbliche di cittadin* preoccupat* per il proprio futuro, che già dimostrano ogni venerdì nelle piazze una straordinaria intelligenza collettiva capace di cogliere i veri responsabili della crisi climatica, possibili vie d’uscita e l’inadeguatezza delle istituzioni esistenti a legiferare a proposito di questo tema?