La Capitale di Ligresti
A Roma pochi lo conoscono, lui però Roma la conosce (e anche bene).
Dopo l’arresto di uno dei re della rendita abbiamo ricostruito i suoi interessi capitolini e la logica perversa della speculazione finanziaria sul mattone.
Parrebbe (e lo è) una, neppure inedita, scorribanda finanziaria all’interno di un patrimonio societario, per infilare, attraverso la predisposizione di un bilancio tarocco, nel salvadanaio di casa soldi sottratti al patrimonio societario. Di questo Salvatore (Totò) Ligresti e i suoi figli sono stati accusati dai giudici di Torino.
La società in questione è una società di Assicurazioni (Fonsai) e tecnicamente sembra sia bastato “sottostimare” (nascondere) del denaro, che per legge avrebbe dovuto essere salvaguardato per eventuali risarcimenti (si parla di 600 milioni di euro), per ritrovare parte di quella cifra nelle proprie disponibilità. Un’operazione di cassa per nascondere un “buco”. Così, quando tocca fare i conti, saltano fuori, invece che perdite (da risanare), utili (da mettere in tasca).
Una manna (253 milioni) per la cassaforte della famiglia Ligresti (Premafin) che, i fatti risalgono al 2010, controllava, allora, la maggioranza delle azioni di quel gruppo, prima della fusione con l’altro gigante assicurativo Unipol sotto l’attenta regia di Medio Banca e Unicredit.
Una beffa e un danno di 300milioni per i piccoli risparmiatori che, sulle capacità di mercato dell’ingegner Ligresti, avevano puntato assolvendolo (ma non avevano forse fatto lo stesso i cosiddetti “salotti buoni” e il sistema bancario?), dal protagonismo “tangentizio” del lontano 1992.
Lui, a differenza del valore del titolo azionario in questione – crollato dai 38 euro del 2008 all’attuale 1,8 -, ha sempre cercato di non scendere da quella vetta su cui si era seduto a partire dal primo miliardo di lire conquistato, nella Milano degli anni ’60, tirando su un’abitazione sul tetto di un’altra.
Ma l’ingegnere, prima di altri, ha capito che le case, più che farle sarebbe stato meglio (per lui) costruirle come macchine di rendita. Insomma capire che: più che mattoni, cemento, stanze, balconi, finestre, le case sono fatte di due cose: il terreno dove si vuole realizzarle che è meglio acquisire quando a questo non è destinato; la disponibilità di una banca che finanzi i lavori e costruire così, prestito dopo prestito, un sistema capace di guardare non solo all’immobiliare.
Lui, l’ingegnere, si è dimostrato capace in tutti e due i campi. Trovare terreni disponibili e tanto denaro per tentare indipendentemente dal tirar su muri e a volte riuscendoci scalate azionarie verso banche e il mondo delle informazioni, sacrificando così a questo il suo primo amore: l’edilizia.
Al tempo stesso Ligresti rappresenta esattamente di come si vorrebbero città e territorio oggi: farne uno spazio totalmente disponibile alle forme dello sfruttamento: una merce.
Finanza e immobiliarismo sono le gambe su cui si regge quel gigante, rappresentato dal potere dispotico, che taglia servizi, cancella le più elementari forme di assistenza, nega i diritti, intervenendo in modo diretto sulla vita di noi tutti. E l’edilizia? Una volta servita a produrre un titolo e disegnata su carta si trasforma nella filigrana con cui è fatta una banconota e un titolo. A costruire ci penseranno (se ci penseranno) altri magari lasciando fossili edilizi.
Di questi lasciti il portafoglio dell’ingegnere è pieno. Noti quelli di Milano: dall’abbandono della propria sede asserragliata nella torre simbolo della città, alle più modeste(architettonicamente) torri in molte zone della rigenerazione urbana milanese, alla torre che caparbiamente si è voluta sottrarre a Macao. Solo per ricordare gli ultimissimi passaggi.
Dismissioni anche fuori dalla cerchia dei navigli.
Anche se a Roma, non ha avuto mai l’onore di essere compreso nella lista dei palazzinari e lui non è uno che compare nella lista cittadina dei following dei movimenti, ha tentato anche qui di mettere giù il suo modello. Lo ha fatto in tre mosse:
1. mettendo le mani sul complesso della ex Fiorentini sulla Tiburtina, un tentativo di “recupero” in salsa romana in materia di compravendita di aree dismesse un tempo di Alfio Marchini (intervento fermo);
2. mettendo le mani sull’operazione “torri dell’Eur” (cedute da Finctecna al pool immobiliare: Toti, Marchini, D’amato, Ligresti, Armellini, Astrim ( che è di Unicredit per il 31%) Fimit.Un operazione “firmata” Renzo Piano. Nonostante la star fosse stata convinta da Alemanno a rivestire le future case di vetro con il “ romano” travertino, l’operazione è stata abbandonata consegnando alla città ancora inquietanti fossili edilizi;
3. mettendo le mani su 250mila metri cubi di case spuntate per lui a Casal Boccone in spregio allo stesso Piano Regolatore, nella zona “martirizzata” dalla più massiccia invasione edilizia di Roma; dismessi ancora, dopo aver ottenuto una redditizia mutazione di destinazione d’uso, ad una banca (Monte dei Paschi di Siena).
Tre “lasciti” che, a ben vedere, mostrano che l’ingegnere che le case invece di costruirle le abbandona, ci consegnano il proprio credo urbanistico/finanziario. Perseguire la rendita di pochi contro il reddito di molti. Con il solito sistema: accumulare debiti (per Ligresti l’esposizione è di 4 miliardi di euro) e poi costringere le banche a “tenerti in piedi”. Perché come dice il suo amico banchiere Cesare Geronzi, che Ligresti ha sempre finanziato, “salvare i crediti è un dovere per ogni banchiere”.
Di questo vorrebbero che fossero fatte le nostre città.