OPINIONI

Omer Faruk Yildiz

La bomba, l’oro, i campus universitari

Proliferazione del nucleare militare, smottamento del dollaro, studenti in lotta: ambivalenza della crisi americana

Tre sono le notizie che contano, che ci danno la misura del pericolo che il mondo tutto già corre e correrà sempre di più. La prima riguarda il voto del Congresso americano, con lo sblocco dei fondi per la guerra nel mondo: quasi 100 miliardi di dollari, di cui 61 per l’Ucraina e i restanti per Israele e Taiwan. La seconda è che l’Iran è a un passo dalla bomba: così, e solo così, si spiega l’attentato di Damasco che ha provocato la reazione iraniana, con tanto di verifica della difesa internazionale dei cieli israeliani. La terza è che Russia e Cina comprano oro senza sosta da due anni.

Nel loro libro più famoso, Impero, Michael Hardt e Toni Negri descrivevano l’egemonia globale americana attraverso tre figure: la bomba atomica; il dollaro; Hollywood. La proliferazione atomica era già in buona parte avvenuta, ma era caduto il Muro di Berlino e la Russia era nel caos a regia Fondo Monetario Internazionale e Boris Eltsin. Con la messa in soffitta di Bretton Woods e la liberalizzazione dei mercati finanziari, il dollaro si era affermato come riserva di valore senza rivali. Già trainanti quando Benjamin, Adorno, Horkheimer e Anders, scrivevano (con posizioni diverse) sull’industria culturale, gli studi cinematografici più imponenti del mondo stavano dettando lo standard ovunque, anche nella «vecchia Europa» che, per diversi decenni, si era caratterizzata con impegno politico, pluralismo stilistico, originalità.

Supremazia nell’uso della forza: la bomba. Mercati massimamente liquidi e moneta dominante, non solo bene rifugio, ma anche, e soprattutto, comando sulla forza-lavoro transnazionale. Colonizzazione dell’immaginario, dall’infanzia video-elettronica alla senilità televisiva. Tutto questo sono stati, e in parte ancora sono, gli Stati Uniti d’America.

Ma, soprattutto, lo sono stati; subito dopo l’Ottantanove, dalla prima guerra in Iraq di Bush senior fino all’11 settembre del 2001. Un decennio espansivo, fatto di Net Economy, bolle immobiliari sempre più grandi, della cancellazione delle norme volute da Roosevelt che separavano banche commerciali e banche d’investimento, dei Nirvana e del grunge.

Non è un caso che forse, proprio a Seattle, nella capitale del grunge e delle nuove culture musicali giovanili, si apre la prima crepa: tra novembre e dicembre del 1999, il vertice della World Trade Organization viene bloccato, con azioni dirette, sit-in e proteste diffuse da quel movimento che, di lì in poi, e almeno fino al luglio 2001, si chiama «Popolo di Seattle».

La seconda crepa, sanguinaria, nemica di Washington quanto del movimento alter-globale che a Genova raggiunge il suo picco, è l’attentato alle Twin Towers. L’America si scopre, per la prima volta, vulnerabile nel suo territorio. La guerra asimmetrica, che aveva visto gli avversari surclassati dalla superiorità tecnologica e militare in Iraq e in Serbia, si rovescia nella potenza distruttiva di un coltellino e di un manipolo di kamikaze. Da allora, una nuova «guerra dei trent’anni» ha preso avvio, col tentativo neocon di Bush junior di ristabilire il dominio militare americano nel mondo. Dominio, appunto, e non più egemonia, direzione. La radicalizzazione islamica, negli anni Ottanta favorita dagli stessi Stati Uniti in funzione antisovietica (vedi i Talebani in Afghanistan), e l’ascesa economica cinese, inarrestabile a partire dagli anni Novanta, rendono l’egemonia impossibile; la distruttività senza progetto della guerra neocon assume, in modo altrettanto sanguinario, l’esaurimento della globalizzazione a guida americana.

È riuscita, l’America, nell’impresa avviata da Bush junior nel 2001 e ignobilmente confermata da Obama dal 2008 al 2016? La risposta è plasticamente fornita dalle immagini della fuga da Kabul, nell’estate del 2021, ed è ‘no’. Se Putin decide di invadere l’Ucraina nel febbraio del 2022, infatti, è perché ha visto un ex alleato americano, Saddam Hussein, fatto fuori senza processo, la sorte analoga di Gheddafi (che alleato americano non era mai stato, però), ma, soprattutto, perché ha osservato attentamente la ritirata scomposta dall’Afghanistan.

Ed è così che Biden, pur consapevole – probabilmente, fin dall’inizio – del bagno di sangue ucraino (a oggi, Putin si è vantato con leggerezza di aver fatto fuori mezzo milione di ucraini), coglie la palla al balzo per rilanciare la NATO; con essa, e con i Nove di Bucarest, persegue l’intento non troppo velato di paralizzare l’Europa e l’euro a trazione tedesca, oltre quello esplicito di affaticare la Russia per renderla inoffensiva nei conflitti prossimi.

D’altronde, afferma candidamente Mike Johnson, lo speaker repubblicano alla Camera che ha contribuito allo sblocco dei 61 miliardi per Kiev: «preferisco mandare munizioni in Ucraina piuttosto che giovani americani». Parole “sante”.

Si diceva all’inizio, però, della bomba e della moneta. Mentre l’Armageddon atomico ha occupato la scena dei telegiornali in più occasioni, con l’inizio della guerra russo-ucraina, meno attenzione ha raccolto la notizia di fine febbraio: l’Iran a un passo dal nucleare pronto per usi militari. La notizia, evidentemente, non è sfuggita alla cricca di Netanyahu; che ha pensato bene, il Primo aprile, di perpetrare l’ennesima violazione del diritto internazionale, colpendo l’ambasciata iraniana in Siria, a Damasco. Nell’attacco, sono tra l’altro rimasti uccisi il generale di brigata Mohammad Reza Zahedi, alto comandante della forza Quds del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica (Irgc) e il suo vice, il generale Mohammad Hadi Hajriahimi: non esattamente due passanti. La risposta degli ayatollah, respinta in buona parte solo grazie al coinvolgimento delle forze del cielo di Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Giordania, ha avuto per obiettivo principale il Negev, dove si trova il più importante centro atomico israeliano. La risposta israeliana successiva a quella iraniana, pure, ha puntato sul sito nucleare iraniano di Natanz.

Mentre Netanyahu e la sua banda si apprestano a completare, con crudeltà inaudita, la nuova Nakba, la contesa della e sulla bomba, nella sua proliferazione, si fa decisiva anche in Medio Oriente.

Cosa succede, invece, all’imperialismo del dollaro? Tutti gli analisti economici si sono affrettati, negli ultimi due anni, a chiarire che l’unica moneta davvero internazionale, la riserva di valore prediletta dai più, rimane il dollaro. Vero, ma solo in parte. Non solo perché, con difficoltà indubbiamente, data l’ambiguità indiana, i BRICS avanzano con il progetto di una moneta del Sud globale. Ma anche perché sta tornando in auge il bene rifugio per eccellenza, l’oro. In paesi tra l’altro ricchi di gas, di petrolio, ma soprattutto di terre rare fondamentali per la transizione ecologica: Russia e Cina hanno infatti acquistato oro senza sosta, negli ultimi due anni. Alla fine del 2023, e per far fronte al congelamento delle riserve estere, la Russia ne aveva nei suoi forzieri oltre 2mila tonnellate (155 miliardi di dollari), mentre nel solo 2023 la Cina ne ha acquistato 225 tonnellate, prima davanti alla Polonia che pure, evidentemente, si prepara al peggio.

Se Milei propone di abbandonare il peso per il dollaro e quest’ultimo rimane prevalente negli scambi internazionali, è la sua funzione di riserva di valore che, inesorabilmente, comincia a essere erosa. E allora il Congresso americano sblocca le risorse per Kiev, per Israele, ma anche per Taiwan (e contro la Cina): un segno inequivocabile del tempo catastrofico che viene.

Hollywood, per concludere. Mesi di sciopero di sceneggiatrici/sceneggiatori e attrici/attori, contro l’uso distruttivo (di posti di lavoro e dell’umana creatività) dell’Intelligenza Artificiale generativa, hanno chiarito che la città simbolo dell’industria culturale è «divisa».

Divisa e tumultuaria, come lo sono i campus universitari, col movimento delle tende e contro la follia genocida di Israele. Mai, come ora dunque, l’America non più egemonica sul piano globale è internamente frantumata.

Da una parte, le/gli studenti dei campus, il lavoro intellettuale e creativo di Hollywood, la nuova sindacalizzazione nei servizi; i signori della guerra (da Raytheon Technologies a Lockheed Martin, fino ai Democratici) e di Big Tech dall’altra. Che la crisi egemonica possa portare con sé il riscatto di un’altra America, ostile sia a Trump che a Biden? Non lo sappiamo e la vittoria di Trump, meno certa di qualche mese fa, è comunque assai probabile; ma, dalle tende, senz’altro si deve riprendere il cammino – della prassi trasformativa e del pensiero critico.

L’immagine di copertina è di Omer Faruk Yildiz https://www.pexels.com/@fotomuhabiriomer/

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