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La Blonde di Dominik, un bellissimo “pezzo di carne”
È uscito in questi giorni su Netflix “Blonde” di Andrew Dominik. Tratto dall’omonimo romanzo di Carol Joyce Oates il film si ispira alla biografia di Marilyn Monroe, di cui ne offre però un’immagine vittimistica e sminuente che torna indietro, nell’interpretazione della sua figura, di almeno venti anni
Sesso, violenza sessuale, violenza domestica: il trigger warning di Blonde di Andrew Dominik traccia, prima ancora del suo inizio, il confine di un’operazione morbosa e pruriginosa, che non rende giustizia e che anzi umilia e disumanizza Marilyn Monroe, la cui vita è al centro della pellicola.
Davanti a un’opera come questa la prima questione a emergere è quella del confine tra realtà e fiction. Il problema non è, chiaramente, l’aderenza alla realtà: un romanzo e un film hanno pieno diritto di finzione. Non è un problema se non si ha notizia di alcun ménage a trois tra Marilyn e gli attori Charlie jr. “Cass” Chaplin – morto tra l’altro dopo Monroe e non prima – ed Eddy G. Robinson jr. (anche se frequentò e fu amica di entrambi), né è un problema se la vera Marilyn non ha mai recitato in teatro la parte della Magda di Arthur Miller.
Il problema è esattamente l’inverso: al di là di questi due dettagli e poco altro, infatti, Dominik rimane volutamente e pericolosamente ambiguo nel rapporto tra realtà e finzione. Nonostante descriva il film come una «fantasia rischiosa», la ricerca dell’autenticità, del particolare reale, è ossessiva: i vestiti, gli ambienti, le cicatrici sul corpo, i dettagli sono riprodotti in modo precisissimo, selezionando tra le migliaia di immagini di Marilyn che fanno parte della memoria collettiva. Con due sole eccezioni, le scene sulla spiaggia di Amagansett con Miller: nella prima di esse, l’attrice che interpreta Marilyn Monroe, Ana De Armas, indossa – al posto del costume bianco intero delle foto originali – il maglione che, nella realtà, la diva aveva addosso durante l’ultimo servizio fotografico di George Barris nel luglio 1962, poche settimane prima della sua morte; nella (drammatica) seconda indossa invece un abito identico a un vestito di scena del suo ultimo film incompiuto, Something’s got to give. Anche queste eccezioni, che richiamano entrambe le ultime settimane della vita dell’attrice, sono dovute forse a un eccesso di realismo: De Armas è più magra di come era allora Monroe, incinta, e il suo corpo sarebbe sembrato ancora meno realistico di quanto lo sembri con un semplice cambio di look basato comunque celebri foto di Marilyn. Mentre Something’s got to give sarebbe stato l’unico film dell’attrice nel ruolo di madre che, nelle scene girate con i figli, indossa proprio quell’abito: rimane incompiuto, come le sue gravidanze. Lo spettatore rimane nella sua confort zone: quella che vede sullo schermo continua a ricordargli e sembrargli la vera Marilyn, in tutto e per tutto. La spasmodica ricerca del dettaglio più aderente alla realtà raggiunge il parossismo con il montaggio nel film di alcuni fotogrammi originali di A qualcuno piace caldo, che rende quasi impossibile distinguere originale e riproduzione.
Il romanzo omonimo di Joyce Carol Oates (2000), da cui il film è tratto, non crea la stessa impressione di autenticità: leggendolo, non si ha davanti agli occhi una donna vestita e truccata come Marilyn e circondata dai suoi oggetti e, forse per questo o forse perché il racconto è diluito in oltre 1.300 pagine, il libro riesce a essere bellissimo, restando sempre chiaro che si tratti di fiction. Non è lo stesso nel film di Dominik, che, pur essendo un’opera di finzione liberamente tratta da un romanzo (quindi da un’altra opera di finzione), gioca in maniera abbastanza truffaldina sul genere del biopic, strizzando continuamente l’occhio a chi conosce ogni particolare della vita di Monroe: per tutti gli altri, del resto, il film procede così tanto per episodi slegati – e anche la scelta dei tagli rispetto alla sua vita dice molto – che seguirne lo svolgimento è difficilissimo, come complesso è riconoscere i personaggi maschili – da Joe Di Maggio ad Arthur Miller, da Billy Wilder a John Kennedy –, che non vengono quasi mai chiamati per nome. Solo Monroe, unica protagonista, è riconoscibile ed esposta agli occhi e ai giudizi di chiunque guardi il film: l’immagine che emerge si radica nella mente dello spettatore e della spettatrice come se quella interpretata da De Armas fosse la vera, l’autentica, Marilyn e come se l’intreccio della pellicola fosse la sua vera biografia, distorcendo così la percezione del suo personaggio e della sua persona. Ma la raffigurazione della Marilyn di Blonde è molto lontana dalla realtà.
La Monroe di Dominik è, infatti, quella dello stereotipo, derivante da un approccio psicoanalitico davvero superficiale e a tratti ridicolo, che contrappone la persona Norma Jean (questo il suo vero nome) al personaggio Marilyn Monroe, racchiudendo entrambe nel recinto della vittima eterna: la protagonista Blonde è la Norma Jean che non ha conosciuto il padre, la Norma Jean cresciuta con una madre “pazza” e terrorizzata dalla possibilità di essere “pazza” come lei, la Norma Jean che insegue, per tutta la (breve) vita, un’assenza, sia essa quella della figura paterna – che nella pellicola ricerca in ogni uomo che incontra – oppure quella di un figlio. È una Marilyn piangente, una Marilyn bambina con gli occhi sgranati incapace di crescere, eternamente triste ed eternamente “altrove” con la testa. È una Marilyn stuprata, fatta soffrire, stralunata, fatta a pezzi. Una Marilyn fragilissima, che in Blonde non è mai una donna con una agency e non è mai una professionista. La Marilyn attrice, infatti, scompare, così come scompare l’aurea che costituiva la forza del suo fascino e del suo successo: quando le chiedono come ha iniziato a fare l’attrice, Dominik le fa rispondere «credo di essere stata scoperta», mentre ripensa al dirigente della Fox che la stupra; le lezioni di recitazione che prende costantemente – dall’inizio della sua carriera – vengono limitate a quelle di Lee Strasberg; Gli spostati, una delle sue migliori interpretazioni, in Blonde manca completamente, come anche Fermata d’autobus.
Contrariamente alla rappresentazione di Dominik (e di molti altri), Norma Jean e Marilyn Monroe erano però la stessa persona, tanto che il nome d’arte – tra l’altro almeno parzialmente scelto da lei stessa (Monroe era il cognome della madre) – divenne ufficialmente il suo nome anche all’anagrafe. Tra i tanti nomignoli che l’attrice adottò da adulta – Mrs. Miller, Mona Monroe, Zelda Zonk, ecc. – non sembra invece esserci traccia del suo nome reale: Marilyn Monroe, probabilmente, non aveva alcun desiderio di farsi chiamare Norma Jean.
Cancellata la Monroe attrice, della Marilyn di Blonde vengono invece rappresentati in modo morboso e pruriginoso gli atti sessuali ai quali viene costretta o spinta. Al di là dell’invenzione del menage a trois con il figlio di Chaplin ed Eddy G. (che almeno si limita a essere pruriginoso senza essere volgare, se come penso non ci sia nulla di male a impostare le relazioni sessuali e sentimentali nel modo a cui a ciascuno va), non si può non citare la lunghissima sequenza del pompino praticato a Kennedy. Mentre il presidente parla al telefono delle accuse di molestie rivoltegli da altre tre ragazze, vediamo la bocca piena di Marilyn, forse la mano, forse la base del pene: vediamo tutto ciò come se noi stessi fossimo Kennedy nel momento in cui Marilyn gli sta praticando una fellatio, vediamo tutto ciò come lo fantastica qualsiasi uomo. Si abusa, in questo modo, ancora una volta la Marilyn reale, quella morta nel 1962, buttata da Dominik su uno schermo come un pezzo di carne – il nice piece of meat dell’album degli Smiths su cui compare nella celebre foto nuda del calendario – molto di più di quanto le sia successo in vita. Il sesso, in Blonde, viene da Monroe sempre subito passivamente, è sempre frutto di violenza (fisica o psicologica), non è mai piacevole, mentre nella realtà Marilyn ebbe un rapporto positivo nei confronti della sessualità. Nel film, gli uomini sono tutti predatori o profittatori e non viene lasciato spazio alla possibilità che la stessa Monroe, come qualsiasi altra donna, abbia potuto desiderare semplicemente – come probabilmente fu – un one-night stand con qualcuno di essi, Kennedy in primis.
L’immagine della Marilyn Monroe reale viene sfruttata e abusata da Dominik, senza ovviamente che essa possa opporsi come invece la vera Marilyn ha, durante la sua vita, spesso fatto. Dominik ce la mostra mentre vomita – e noi, gli spettatori, siamo nel punto di osservazione “privilegiato” del fondo del water: vediamo la sua bocca che si apre, il vomito che ne esce. Ci troviamo, come spettatori, nella sua vagina – allargata da uno speculum – o, forse, diventiamo noi stessi la sua vagina: il posto in cui moltissimi uomini attratti dalle donne vorrebbero stare, ma immagine che mette (credo) quasi qualsiasi donna profondamente a disagio. Vediamo lo speculum entrare, le pareti vaginali allargarsi, siamo lì dentro, senza alcun bisogno narrativo che giustifichi il fatto di esservi stati messi. La sessualizzazione del personaggio di Marilyn Monroe non era mai arrivata a questo punto e Dominik, che ha affermato esplicitamente che il proprio desiderio di vedere un film vietato agli under-17 su Marilyn Monroe, vi si spinge consapevolmente.
Il disagio psicologico di Marilyn viene ridotto a un destino già scritto, senza scampo, semplificando in modo superficiale i disturbi psichiatrici in sé, che diventano macchiettistici, grotteschi. In Blonde Marilyn Monroe è sempre sola (nella realtà aveva moltissimo amici), se si escludono i mariti e gli amanti (e Whitey, il contraddittorio truccatore che la spinge ad assumere stupefacenti per farla lavorare), sempre triste (tranne che, per poco, con Miller), spesso su di giri. Le persone che, come Marilyn Monroe, soffrono, che sono depresse, smettono di essere potenzialmente ciascuno di noi – cioè persone che lavorano, vivono, amano, odiano per gran parte delle loro esistenze – e diventano semplicemente “altro”, un altro destinato a una morte prematura.
Ad aggiungere disgusto a disgusto c’è poi la continua raffigurazione, nelle sembianze in computer grafica di un feto di diversi mesi, degli embrioni delle gravidanze di Monroe finite – volontariamente o meno – anzitempo. La Marilyn di Blonde – non sappiamo se quella reale lo abbia mai fatto e penso sia morboso chiederselo – interrompe più o meno volontariamente una gravidanza e l’embrione mai nato continua a parlarle (sempre con le sembianze di un feto grandicello), a smuovere i suoi sensi di colpa, in una sorta di incomprensibile retorica antiabortista orribile anche sotto il profilo estetico.
Il sessismo che sottende l’intera operazione Blonde è così evidente che sorprende che nel 2022 un film del genere possa essere ritenuto accettabile e prodotto (da Brad Pitt), calpestando e svilendo la memoria, la storia, la carriera di una donna e aggiungendo particolari tanto pruriginosi e morbosi, quanto completamente inventati, per fare cassa. Perché Marilyn Monroe vende e continua a vendere, grazie alla forza dirompente di un personaggio che la macchietta cinematografica di Dominik non potrà mai neanche avvicinare. Nella dicotomia tra donne “per bene” e donne “per male”, e nell’immaginario stesso di Dominik, Marilyn Monroe rimane evidentemente una puttana di cui si può dire qualsiasi cosa. Per nessun uomo – da Winston Churchill a James Dean – sarebbe ritenuta accettabile una rappresentazione biografica come quella di Monroe in Blonde, come non lo sarebbe neanche per altre donne icone del XX secolo, ad esempio lady Diana o Sophia Loren. Entrambe sono due “signore”, mentre la retorica sminuente di questo film è la stessa che continua a circoscrivere Marilyn nel recinto della whore, rendendo possibile ritrarla in modo così superficiale, disumanizzante e degradante.
Marilyn Monroe era però una persona, non un personaggio. Una persona complessa e contraddittoria, che aveva luci e ombre, che visse momenti di felicità e momenti di depressione, buona ma anche egoista e meschina. Una persona multimodale, come qualsiasi altra: «Non sono vittima di disturbi emotivi, sono solo umana», disse di sé in un’intervista.
Domink non sembra, invece, avere così chiaro che le persone sono complesse e non possono essere ridotte a macchiette. Per questo ci restituisce una rappresentazione volgare, infantilizzante e sminuente dell’attrice, mentre – nel suo neanche celato paternalismo – parla del film come di una (sua) «fantasia di salvataggio» di Marilyn, descrivendolo – a mio avviso senza pudore né contezza della realtà – come «sempre dalla sua parte». Stare dalla parte di Marilyn, evidentemente, per lui significa cancellare la sua persona, la sua appartenenza politica (per fortuna no gli interessi intellettuali e culturali), il suo essere una self made woman che ha costruito da sé il suo personaggio pubblico, che ha rivendicato i suoi diritti di attrice e di lavoratrice, che ha creato una propria casa di produzione indipendente per farlo al meglio. In Blonde l’agency di Marilyn – quella per esempio ben descritta, anche se con toni a volte esagerati e ideologici, nel documentario della CNN Reframed: Marilyn Monroe, andato in onda a inizio 2022 – viene completamente cancellata: ciò significa non stare dalla parte di Marilyn.
In My story, “autobiografia” che non sappiamo quanto sia stata davvero ispirata da Marilyn Monroe, si legge: «La gente ha l’abitudine di guardarmi come se fossi uno specchio invece di una persona. Essi non mi vedono, vedono i propri pensieri indecenti». Non trovo parole più adatte di quelle di Marilyn stessa per descrivere il film che, a sessant’anni dalla sua morte, Dominik ha fatto “ispirandosi” alla sua vita.
In copertina e nel testo alcuni fotogrammi di Blonde di Andrew Dominik