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L’uomo più odiato
Martin Shkreli, ha recentemente acquistato i diritti sulla vendita del Daraprim, un farmaco conto la Toxoplasmosi. La sua prima mossa è stata alzare il prezzo da 13 a 750 dollari. Operazioni di questo tipo sono sempre più frequenti nell’industria farmaceutica.
Il Daraprim è un farmaco usato da oltre 60 anni per la cura della toxoplasmosi, una grave malattia infettiva, e indicato anche come efficace per il trattamento di altre malattie che colpiscono il sistema immunitario, Aids e alcuni tipi di tumore, per esempio. Un farmaco così importante da essere inserito nella List of Essential Medicines, un elenco messo a punto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Shkreli ne ha arbitrariamente modificato il prezzo in meno di ventiquattro ore: da poco più di 13 dollari a 750!
Rincari improvvisi come questo, non sono però così rari nel settore farmaceutico. La cicloserina, per esempio, un farmaco usato per trattare la tubercolosi, è passata da 500 a oltre 10 mila dollari dopo l’acquisizione da parte di Rodelis Therapeutics. La doxyciclina, un antibiotico che fino a ottobre 2013 costava 20 dollari a flacone, oggi ne costa quasi duemila. E si potrebbe continuare ancora tenendo conto delle conseguenze dell’acquisto dei diritti su vecchi farmaci dimenticati e della loro trasformazione in medicinali specializzati ed estremamente costosi.
A seguito delle proteste in campo medico, accademico e non, in meno di 48 ore, S. ha annunciato in seguito che abbasserà il prezzo del farmaco, senza specificare quale sarà il nuovo costo di una pillola.
Il principio attivo del farmaco Daraprim non è coperto da brevetto, il che vuol dire che qualsiasi azienda farmaceutica potrebbe sviluppare e produrre un trattamento generico a base di pirimetamina, ma l’investimento andrebbe al ribasso e sarebbe inutile. Parliamo di mercati totalmente al di fuori di qualsiasi di parametro. Gruppi come PhRMA spendono decine di milioni di dollari ogni anno facendo lobbying al Congresso, per far si che le aziende farmaceutiche possano praticare prezzi esorbitanti per la prescrizione di farmaci che spesso costano solo pochi dollari per la produzione. Un sistema che ha reso i proventi delle aziende farmaceutiche uno dei business più redditizi dell’economia globale.
L’industria farmaceutica americana si è affrettata a prendere le distanze da Shkreli e dalla sua “manovra”, presentandolo come la mela marcia di turno, ma sappiamo dove nascono i problemi.
Un “salto di qualità” (in senso peggiorativo) è stato compiuto durante l’amministrazione Bush nel 2003 con il “Medicare Act” (Medicare Modernization Act o MMA) una legge che ha introdotto un programma di prescrizione di medicinali in base al sistema Medicare, in cui si sanciva anche l’elargizione di sussidi alle compagnie farmaceutiche. Ma quello che andrà ad incidere di più sui programmi di assistenza sanitaria mondiale è il Trattato Trans Pacifico di libero scambio (TPP) che coinvolge dodici paesi dell’area pacifica e asiatica e riguarda il 40 per cento dell’economia mondiale. L’Italia non è parte del TPP, ma del Tisa, che segue le stesse logiche ultraliberiste.
L’accordo segreto in questione (due capitoli sono stati resi pubblici da WikiLeaks e da altri media internazionali) potrebbe rafforzare, prolungare e creare nuovi monopoli su brevetti e normative per i prodotti farmaceutici, con il risultato di aumentare il prezzo dei farmaci e ridurre le potenzialità di un sistema concorrenziale in grado di abbassare i prezzi. Come spiega bene l’appello lanciato dall’organizzazione medico-umanitaria Medici Senza Frontiere (MSF), “se venisse approvato nella sua forma attuale l’accordo TPP , avrebbe un impatto devastante sulla salute globale”, considerando anche che “i negoziatori USA hanno fatto pressioni per introdurre disposizioni che favoriscano le case farmaceutiche, a danno di più di 800 milioni di persone nei paesi coinvolti nel TPP”.
Negli ultimi decenni, l’industria farmaceutica ha registrato un calo nell’ambito di nuove scoperte, nonostante gli investimenti e le promesse commerciali riposte nelle nuove biotecnologie. Una innovazione che, a quanto pare, è rimasta puramente speculativa. E’ stato l’attivismo per l’accesso alle cure per l’Hiv, negli anni in cui l’epidemia del virus era all’apice, che ha posto per primo una critica forte alla ricerca biomedica e alla regolamentazione restrittiva degli studi clinici, che aveva preso le mosse negli anni ’30, per poi subire una ristrutturazione ancora più rigida negli anni ’60 (nel pieno del boom farmacologico).
Negli anni ’80 e ’90 “gli attivisti e le attiviste si battevano contro il prudenzialismo di Stato che vietava alle/ai malate/i terminali di assumere nuovi farmaci prima del completamento dello studio clinico” (M. Cooper, C. Waldby – “Biolavoro globale”). Molti ostacoli furono raggirati importando illegalmente farmaci sperimentali e non approvati e organizzando in modo autonomo una serie di studi clinici. Il recente film The Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée ha riportato in parte l’attenzione sul tema.
L’esclusione riguardava intere fasce della popolazione. L’attivismo per l’accesso alle cure si concentrava inizialmente soprattutto sui problemi riguardanti la classe media di uomini bianchi omosessuali. Molte donne e uomini affette/i da Hiv erano spesso non bianche/i e con scarso accesso alle cure sanitarie, se non addirittura prive/i di assicurazione sanitaria. Le coalizioni sinergiche tra malati di Hiv e attivisti, l’organizzazione internazionale Act Up (AIDS Coalition to Unleash Power), l’ampio movimento per la salute delle donne nato sul problema del cancro al seno, posero al movimento le questioni di genere, razza e classe sociale. Il risultato è stato un cambiamento dei criteri di partecipazione agli studi clinici.
Il NIH Revitalization Act del 1993 sull’inclusione delle donne e delle minoranze come soggetti in Ricerca Clinica, “ha inaugurato quello che Steven Epstein ha definito il paradigma inclusione-e-differenza nella ricerca clinica: sempre più una ridefinizione centrata sull’identità biomedica negli Stati Uniti”. Elementi che si possono definire estremamente ambivalenti, soprattutto a lungo termine in cui la “standardizzazione di nicchia” ha rivestito un ruolo centrale nella creazione di nuovi mercati per l’industria farmaceutica e di una sua ridefinizione in senso neoliberale. Consideriamo anche i tentativi di esternalizzazione dell’innovazione farmacologica a un pubblico diffuso attraverso il modello social network, secondo un procedimento spesso inconsapevole,definito anche “glocalizzazione down-top” (“Biolavoro globale”- prefazione).
“Innovazioni prodotte dall’utente” (von Hippel 2005) che generano valore grazie ai contributi tecnici non retribuiti e alla condivisione gratuita dei database degli utenti nei vari modelli, in cui vengono raccolti dati sulle qualità dei farmaci non autorizzati e i vari effetti collaterali, un background gratuito e fondamentale per le compagne farmaceutiche. Il panorama che si profila è quello di una personalizzazione della cura medica, accompagnata da una crescente privatizzazione dei rischi.
Oggi negli Stati Uniti, ad esempio, la sperimentazione dei prodotti farmaceutici dipende dall’esistenza del lavoro precario, dalla disoccupazione e dall’assenza di assicurazione medica di ampie fasce di popolazione che spingono in molti a sottoporsi a test clinici sperimentali in cambio di denaro, mentre i pazienti non assicurati vengono indotti a prendervi parte in cambio di farmaci.
Le nuove tecnologie della produzione biomedica sono finalizzate sempre di più al reperimento di nuove forme di valore e ad una nuova ridefinizione di diritti contrattuali legati al corpo, mentre quella che possiamo definire come “bioeconomia“ integrata di scienze mediche, agricole,industriali e della vita si presenta sempre di più come “il luogo principale di investimento strategico, il momento decisivo per il superamento del recente disavanzo competitivo tra le economie postindustriali avanzate e le economie emergenti di Cina e India”.