cult
CULT
Lǝ videogiocatorǝ sono statǝ le cavie della grande radicalizzazione che ha portato all’assalto a Capitol Hill
Nella teorizzazione e organizzazione dell’assalto a Capitol Hill i nuovi media e internet hanno giocato un ruolo cruciale. Per capire come l’estrema destra statunitense abbia trasformato internet nel suo principale strumento di reclutamento, radicalizzazione e partecipazione, è utile tornare al 2014 e al GamerGate, campagna di molestie online contro sviluppatorǝ di videogiochi e punto di svolta per le destre USA. Partendo da lì, questa inchiesta esplora la base ideologica e demografica che ha trasformato l’alt-right in “controcultura” e i modelli di business e i sistemi di curatela che hanno trasformato le piattaforme digitali in editori di odio
Il 6 gennaio 2021 una folla, incoraggiata dall’allora presidente statunitense Donald Trump, ha assaltato il Congresso degli Stati Uniti d’America all’United States Capitol (“Campidoglio” in italiano). Gli obiettivi dell’attacco, che ha causato cinque morti, non sono esattamente chiari, ma lǝ manifestanti protestavano contro i presunti brogli elettorali, denunciati da Trump stesso, e volevano bloccare la ratifica dell’elezione di Joe Biden, vincitore delle elezioni presidenziali statunitensi di novembre 2020.
Internet e social media hanno avuto un ruolo importante nell’assalto, sia nella definizione della sua (vaga, frammentata) piattaforma politica sia nella sua organizzazione. Quello che ha attaccato Capitol Hill è un movimento eterogeneo che si è formato manifestazione dopo manifestazione durante la presidenza di Trump, ma che si è incontrato ed è cresciuto prima di tutto su internet. Il Center on Extremism dell’Anti-Defamation League ha riconosciuto tra lǝ partecipanti all’attacco membri del gruppo paramilitare di estrema destra Oath Keepers, l’ex-YouTuber etno-nazionalista Nick Fuentes, la New Jersey European Heritage Association (organizzazione suprematista bianca) e persone con bandiere del Kekistan (uno Stato inesistente ma diventato simbolo della destra, anche in Italia) e confederate. Il ricercatore Hampton Stall (specializzato in gruppi estremisti e paramilitari statunitensi) ha identificato quellǝ che sembravano semplici sostenitorǝ di Trump, membri del gruppo di estrema destra Proud Boys (ora classificato come organizzazione terroristica in Canada) e infine fedeli del culto di QAnon, che verrà citato varie volte in questo articolo. QAnon nasce in parte dal Pizzagate, una falsa cospirazione in cui Hillary Clinton e i vertici del Partito Democratico gestirebbero una rete di traffico di minori ridottǝ a schiavǝ sessuali nel sottosuolo di una pizzeria di Washington DC. Partendo da questo spunto, e traendo ispirazione da molte storiche teorie della cospirazione, il culto di QAnon pensa che unǝ anonimǝ funzionariǝ governativǝ, autorizzatǝ a conoscere informazioni segretissime (cioè dotatǝ di un’autorizzazione “di livello Q”), le stia diffondendo su internet sotto forma di misteriosi indizi (“Q drops,” cioè “briciole di Q”). Secondo l’interpretazione che lǝ fedeli di QAnon hanno dato alle Q drops, Trump starebbe combattendo insieme all’esercito una guerra segreta contro un culto malvagio (anche qui intento in un traffico sotterraneo di bambinǝ) gestito da personalità di Hollywood, politicǝ hollywoodianǝ ed élite mondiali.
Per capire (in parte) come un gruppo tanto eterogeneo si sia formato e sia cresciuto online sino ad assaltare il Congresso statunitense è utile tornare al 2014 e al GamerGate, una campagna di molestie che veniva spacciata come un movimento in difesa dellǝ consumatorǝ di videogiochi e a favore di una maggiore trasparenza nella stampa di settore.
Cosa è il GamerGate
Abbiamo detto che è difficile identificare gli obiettivi esatti dell’attacco a Capitol Hill, e lo stesso vale per il GamerGate, ma generalizzando possiamo dire che il movimento punti ad allontanare dall’industria del videogioco donne, persone di generi marginalizzati e persone appartenenti a minoranze e impedire la loro rappresentazione all’interno delle opere stesse. Per esempio, il GamerGate ha tra i suoi obiettivi evitare che le donne lavorino a videogiochi, evitare che esistano personaggi femminili nei videogiochi e fare in modo che i personaggi femminili presenti esistano solo in funzione di un preciso pubblico maschile (sempre per fare un esempio, chi appartiene al GamerGate si oppone a volte alla presenza di personaggi femminili con un seno piccolo). Il GamerGate nacque ad agosto 2014 dal blog The Zoe Post di Eron Gjoni. Nel blog, Gjoni raccontava e documentava dettagliatamente la sua intera relazione con lǝ game designer Zoë Quinn, accusandolǝ di averlo tradito con vari uomini, tra cui Nathan Grayson, giornalista videoludico delle testate specializzate Kotaku e Rock Paper Shotgun. L’anno dopo, in un’intervista con Zachary Jason per Boston Magazine, Gjoni raccontò come avesse recuperato, ritagliato e manipolato le informazioni, gli screenshot delle conversazioni e i contesti e come avesse curato il tono e la narrazione del blog per rendere The Zoe Post un’arma virale contro Quinn, consapevole che sarebbe statǝ molestatǝ per quello che stava pubblicando.
Ad agosto del 2014 Quinn aveva da poco lanciato su Steam di Valve, la principale piattaforma digitale di distribuzione di videogiochi per computer in Occidente, il suo videogioco Depression Quest, un’avventura testuale creata con Patrick Lindsey e Isaac Schankler e pensata per introdurre parenti e amicǝ di chi vive con disturbi dell’umore al funzionamento degli stati depressivi. Quinn aveva inizialmente pubblicato gratuitamente Depression Quest (fuori da Steam) nel 2013, ricevendo una certa attenzione da parte della critica, ma all’epoca per poter pubblicare un videogioco indipendente (privo di un editore) su Steam era necessario chiedere l’approvazione della comunità dellǝ utenti della piattaforma su un servizio chiamato Steam Greenlight. La proposta di Depression Quest fu subito accolta malamente, con commenti che affermavano che un’opera simile non avesse posto su Steam perché non era “un gioco.” Quinn fu inoltre vittima di una lunga campagna di molestie, promossa da Wizardchan, una image board (un forum con utenti anonimǝ) dedicata a uomini vergini; secondo una scherzosa leggenda diffusa su internet, un uomo può diventare un mago, “wizard,” raggiungendo i 30 anni di età ancora vergine. Come spiegava un utente di Wizardchan, Quinn si meritava le molestie perché «tutte le donne sono puttane e non hanno il diritto di essere depresse, perché basta che vadano per strada, si sdraino e aprano le gambe e qualcuno arriverebbe a risolvere tutti i loro problemi». Nonostante gli attacchi, che inclusero anche una dettagliata minaccia di stupro spedita direttamente a casa di Quinn, Depression Quest venne infine approvato per la pubblicazione su Steam. Ad agosto 2014, mentre si diffondeva la notizia della morte per suicidio dell’attore Robin Williams, che soffriva di depressione, Quinn decise di lanciare il gioco, rendendolo disponibile gratuitamente anche sulla piattaforma di Valve, in modo che chiunque avesse bisogno di un simile strumento lo avesse a disposizione. E, a questo punto, Gjoni pubblicò su The Zoe Post.
Partendo dal racconto contenuto in The Zoe Post, Quinn venne accusatǝ di aver usato la sua relazione con Grayson, il giornalista di cui abbiamo accennato prima, per ottenere copertura mediatica per Depression Quest. In realtà, Grayson non aveva mai recensito Depression Quest, ma aveva solo citato Quinn in un articolo e aveva elencato Depression Quest tra i videogiochi approvati su Steam Greenlight. Mentre The Zoe Post acquisiva notorietà, soprattutto grazie all’image board 4chan, le false accuse contro Quinn si diffondevano e si arricchivano, diventando il nucleo intorno al quale si sarebbe formato il GamerGate.
Chi supporta il GamerGate afferma di star combattendo contro la collusione tra i media tradizionali che parlano di videogiochi e femministǝ che stanno corrompendo l’informazione videoludica e promuovendo il cosiddetto “marxismo culturale” (l’espressione, evoluzione del “bolscevismo culturale” di cui parlavano lǝ nazistǝ, indica una ipotetica cospirazione di una élite giudaico-marxista per sovvertire i valori occidentali). Il concetto è sintetizzato nel motto «it’s all about ethics in video game journalism», cioè «la questione [il GamerGate] riguarda interamente l’etica nel giornalismo videoludico». A questi media tradizionali si oppongono i “nuovi media,” cioè YouTube, con i loro influencer, come il volto del GamerGate John “TotalBiscuit” Bain e Internet Aristocrat (che pubblicò uno dei primi video dedicati a quella che all’epoca si chiamava Quinnspiracy, dal vecchio handle di Quinn su Twitter, @TheQuinnspiracy), visti dal GamerGate come paladini impegnati nella difesa dellǝ consumatorǝ. Ma il GamerGate non era davvero un movimento a favore della trasparenza nell’informazione. In realtà, come dimostrano le discussioni interne al GamerGate, queste motivazioni appaiono secondarie e inventate successivamente, per fare (come scriverebbe Boccaccio) «una forza da alcuna ragion colorata», cioè per dare una scusa alla violenza. La dichiarazione di intenti di un membro del GamerGate, conservata nelle trascrizioni delle conversazioni interne, è in questo senso esemplare: «Non me ne può fregare di meno dei videogiochi, voglio solo che Zoe abbia quello che si merita».
Concentrandosi a molestare piccolǝ sviluppatorǝ, spesso marginalizzatǝ, di videogiochi indipendenti e spesso gratuiti (e in gran parte ignorando lǝ giornalistǝ, soprattutto se uomini, bianchi, eterosessuali e cisgenere), il GamerGate ha anche contribuito in realtà a impedire la discussione sui reali problemi etici interni al giornalismo videoludico. Problemi che coinvolgono non i piccoli studi indipendenti ma i grandi studi AAA (ad alto budget), che influenzano il calendario editoriale delle testate e pagano lǝ influencer. Non è sorprendente: il GamerGate era manifestazione del rifiuto, da parte della comunità dei “veri gamer,” delle nuove avanguardie videoludiche, tra cui Depression Quest, nate da un processo di democratizzazione degli strumenti per lo sviluppo dei videogiochi. E questo rifiuto era ed è ancora proprio a favore delle opere AAA delle multinazionali.
La campagna di molestie (con, tra le altre cose, diffusione di informazioni personali, attacchi informatici e minacce sia di stupro sia di morte) colpì varie persone, soprattutto donne, persone di colore e persone queer, come appunto Quinn (che all’epoca si identificava come donna ed è una persona di genere non-binario), la critica Katherine Cross, la sviluppatrice Brianna Wu, la critica Mattie Brice, lo sviluppatore Phil Fish (che a seguito del GamerGate lasciò l’industria del videogioco), l’attrice Felicia Day, la giornalista Jenn Frank (che decise di smettere di scrivere di videogiochi a causa delle molestie ricevute) e Anita Sarkeesian, che all’epoca stava leggendo il videogioco attraverso la lente dei gender studies in una serie di video pubblicata su YouTube e intitolata Tropes vs. Women in Video Games. La serie fu per molte persone nell’ambiente del videogioco il primo contatto sia con i gender studies sia con le istanze del femminismo, e aveva attirato malumore già dalla sua campagna Kickstarter.
Il nome e l’hashtag GamerGate furono coniati il 27 agosto 2014 dall’attore conservatore Adam Baldwin. A partire dal giorno successivo iniziò a uscire una serie di articoli, di cui il più rappresentativo è ‘Gamers’ don’t have to be your audience. ‘Gamers’ are over di Leigh Alexander, noti nel GamerGate come gli articoli del “gamers are dead,” cioè saggi in cui verrebbe dichiarata “la morte del gamer.” Nel suo articolo Alexander racconta come un mercato videoludico sempre più ampio e vario abbia reso anacronistica l’identità di “gamer,” una etichetta ideata dal marketing dell’industria del videogioco negli anni ’90 per promuovere il videogioco a uomini, bianchi, eterosessuali e cisgenere. Questa strategia di marketing aveva creato una comunità chiusa, drogata di violenza e sessismo e coccolata per anni da un’industria ossessionata dal progresso tecnologico e da media ridotti a consigliare gli ultimi prodotti industriali e a fomentare guerre tra fazioni/marchi (come nella “console war” tra Nintendo e Sega negli anni 90). Quando, durante il GamerGate, quella comunità mostrò la sua tossicità, industria e media non se ne presero la responsabilità. L’uscita quasi contemporanea di tanti articoli tematicamente affini fu interpretata come un ulteriore attacco della critica corrotta contro la comunità dellǝ videogiocatorǝ e come una prova dell’esistenza di una cospirazione mondiale (o almeno statunitense) all’interno dell’informazione videoludica (membri del GamerGate credono anche che gli articoli siano stati finanziati in segreto dalla Gates Foundation di Bill Gates).
Da 4chan a 8chan a 8kun
La varietà del GamerGate, diviso ulteriormente in fazioni interne, l’anonimato dei suoi membri, l’assenza di leader e di un vero e proprio manifesto condiviso rende difficile descriverlo in poche parole. Il movimento si organizza online, a livello internazionale, via chat e su piattaforme come Twitter, Reddit (dove fonda la sezione KotakuInAction, ancora attiva) e la image board 4chan. Quando 4chan vietò che continuassero discussioni riguardanti il GamerGate sulla piattaforma, la comunità ormai stabile che si era formata intorno a questo tema si spostò sull’image board 8chan. Grazie al GamerGate, 8chan è cresciuto diventando covo per tutto ciò che era troppo estremo anche per 4chan, già noto per la carenza di moderazione nei suoi contenuti.
Fu su 8chan che il terrorista Brenton Tarrant pubblicò il suo manifesto, parte dell’annuncio della strage che avrebbe compiuto nella città di Christchurch, in Nuova Zelanda, dove uccise 50 persone in un attacco razzista e islamofobo alle due moschee della città. E non solo Tarrant ha annunciato la strage su 8chan, ma l’ha documentata in diretta con una visuale in soggettiva che non può che riportare allo sparatutto in prima persona, ai Doom e ai Call of Duty, ha infarcito il video e il suo annuncio/manifesto di richiami a meme cari alle comunità delle image board e ha invitato chi stava guardando a iscriversi al canale YouTube di Felix “PewDiePie” Kjellberg, celebre youtuber specializzato in videogiochi e diventato negli anni icona dell’estrema destra statunitense. PewDiePie, che a un certo punto ha persino consigliato un video (di un canale antisemita) che negava la morte di Heather Heyer, uccisa da un suprematista bianco durante una manifestazione di estrema destra a Charlottesville, ha sempre detto di non essersi volontariamente costruito un simile seguito. Ma intanto i contenuti antisemiti della sua produzione gli hanno fatto guadagnare persino l’ammirazione di The Daily Stormer, all’epoca una delle principali testate online neonaziste negli USA. Anche l’invito a iscriversi al canale di PewDiePie è però prima di tutto un meme nel video di Tarrant, una frase ripetuta da tanti YouTuber e streamer che all’epoca promuovevano PewDiePie perché non fosse superato (come numero di abbonati) dal canale indiano T-Series (PewDiePie ha preso successivamente le distanze dal meme stesso).
Nella strage di Christchurch diventava evidente la sovrapposizione tra il linguaggio del gamer e quello dell’estremista di destra, tra l’online e l’offline, una sovrapposizione sottovalutata per anni dai media, che non hanno visto la violenza dietro ai meme. Dopo la strage di Christchurch, sempre su 8chan furono annunciate la strage nella sinagoga di Poway in California (1 persona uccisa e 3 rimaste ferite) e la strage a El Paso, dove un terrorista di destra uccise 23 persone in un Walmart per opporsi a quella che nel suo manifesto veniva definita come “l’invasione ispanica.” Su 4chan, come il GamerGate, sono nati PizzaGate e QAnon, che poi si è spostato, come il GamerGate, su 8chan. Dopo la strage di El Paso, nel 2019, 8chan fu chiuso, e QAnon si spostò sul suo erede 8kun.
La sovrapposizione tra alt-right e GamerGate
La sovrapposizione tra GamerGate e destre non si ferma al linguaggio usato e ai luoghi online frequentati. Prima del GamerGate c’era stato #YourSlipIsShowing, una campagna/hashtag, inizialmente creata da Shafiqah Hudson, contro falsi account Twitter che, organizzandosi su 4chan e fingendosi femministe nere, cercavano di radicalizzare l’utenza contro i movimenti per i diritti civili e di infierire sulla cesura tra femministe bianche e nere. Twitter non fece quasi niente per intervenire, anche se le vere attiviste nere si unirono per identificare i falsi account e segnalarli (subendo, anche loro, minacce di stupro e di morte). Nel libro Crash Override: How Gamergate (Nearly) Destroyed My Life, and How We Can Win the Fight Against Online Hate di Zoë Quinn, Hudson nota che parte delle persone coinvolte nella finta campagna di attiviste nere (chiamata #EndFathersDay) che ha fatto nascere come risposta #YourSlipIsShowing sono le stesse che hanno poi partecipato al GamerGate. Questa sovrapposizione tra linguaggi, luoghi e persone del GamerGate e dell’estrema destra non è casuale, ma è parte della sovrapposizione tra GamerGate e alt-right.
L’espressione “alt-right” (la destra “alternativa” alla tradizionale destra repubblica statunitense) venne coniata, nella sua forma originale “alternative right,” nel 2008 dal filosofo paleoconservatore Paul Gottfried, ma venne popolarizzata soprattutto dal suprematista bianco Richard Spencer. Secondo le parole di Spencer stesso l’alt-right è un movimento basato sulle «politiche identitarie degli Americani [sic] bianchi e degli Europei in tutto il mondo» cioè sulla difesa della civiltà occidentale, intesa anche come identità etnica, minacciata da immigrazione (soprattutto musulmana), dal cosiddetto “marxismo culturale”, dal femminismo e dal politicamente corretto. Internamente, il movimento dell’alt-right è vario e disomogeneo quanto quello del GamerGate, ed è diviso in fazioni a volte in forte contrasto tra loro. È quindi difficile anche solo definirne i contorni, ma (nonostante lǝ appartenenti all’alt-right dichiarino spesso il contrario) in generale è imprescindibile il suo legame con il suprematismo bianco, con l’idea che la “razza bianca” sia superiore e destinata a governare l’Occidente e a difenderlo dalle altre etnie e culture.
L’alt-right ha trovato un potenziale alleato in Donald Trump, un outsider capitato nel Partito Repubblicano quasi per caso (secondo Michael Moore, la campagna elettorale di Trump nacque come stunt per convincere l’emittente televisiva per cui lavorava, l’NBC, ad alzargli lo stipendio). Alla vittoria di Trump nel 2016, Spencer, il promotore dell’alt-right, scrisse significativamente in un tweet che l’alt-right è stata dichiarata vincitrice. L’alt-right è più profondamente connessa al populismo trumpiano di quanto lo sia il movimento conservatore. Ora siamo noi al potere». Trump ha portato avanti politiche apertamente nazionaliste, razziste, anti-anti-fasciste (son sicurǝ che esista un modo più semplice per dire “anti-anti-fascista”…) e anti-islamiche care all’alt-right. Ha dato spazio sui suoi social media, davanti al suo enorme pubblico, ai messaggi dell’alt-right, e si è spesso rifiutato di condannare il suprematismo bianco: è ormai celebre il suo commento sulle violenze della manifestazione del 2017 a Charlottesville, evento nato per protestare contro la rimozione di una statua del generale confederato Robert E. Lee. Di fronte a un raduno che metteva insieme alt-right, Ku Klux Klan e altri movimenti suprematisti bianchi e a una contro-manifestazione antirazzista dove un suprematista bianco aveva ucciso una persona e ne aveva ferite altre 19 (ne abbiamo accennato prima parlando di PewDiePie), Trump affermò che «ci sono brave persone da entrambe le parti» e condannò la violenza «da entrambe le parti». Non è questo il luogo per discutere la complessa storia dell’alt-right, delle sue dinamiche interne e del suo rapporto con altri gruppi suprematisti bianchi, ma vale la pena notare che proprio la manifestazione di Charlottesville, che avrebbe dovuto unire le destre (il nome dell’evento era “Unite the Right”), vide sia prima sia dopo l’evento profonde rotture tra i movimenti dell’estrema destra statunitense, anche a causa dell’attenzione che richiamò sulla violenza razzista dei loro membri. Come abbiamo scritto prima, alcunǝ appartenenti all’alt-right preferiscono non essere collegatǝ esplicitamente al suprematismo bianco e agli slogan nazisti che sono stati urlati invece a Charlottesville, e decisero quindi di prenderne le distanze. Comunque, l’elezione di Trump dette visibilità all’alt-right, favorendone la normalizzazione politica. Un po’ come è avvenuto in Italia nel 1994, quando per la prima volta dopo la Seconda Guerra Mondiale il partito neofascista Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale divenne parte della maggioranza di governo grazie all’alleanza con Forza Italia di Berlusconi.
Quindi, cosa c’entra il GamerGate con Capitol Hill
La sovrapposizione tra videogioco e alt-right di cui stiamo parlando è profonda anche a causa della loro sovrapposizione demografica e ideologica. Come abbiamo detto, a partire dagli anni 90 quella che all’epoca era la grande industria del videogioco ha investito nella promozione dei suoi prodotti a un pubblico prevalentemente maschile, bianco (in Occidente), eterosessuale e cisgenere, lo stesso bacino delle destre conservatrici e reazionarie. Inoltre, il videogioco (il videogioco mainstream, industriale e standardizzato) è, come il cinema, anche un efficace strumento di propaganda per i sistemi capitalisti, imperialisti e colonialisti. Da Candy Crush a The Last of Us: Parte 2, la grande industria del videogioco insegna obbedienza, culto della violenza, rifiuto dell’alterità e della complessità, ricerca della soddisfazione immediata e fede nel soluzionismo, cioè nella possibilità di rappresentare il mondo attraverso una sua descrizione/simulazione computazionale e di poterne risolvere i problemi con la tecnologia. Un terreno fertile per le ideologie liberiste e di destra.
Questa sovrapposizione tra videogioco/GamerGate e alt-right non deve far però pensare a uno stretto rapporto di causa e conseguenza: il GamerGate non ha causato la strage di Christchurch o l’attacco al Congresso statunitense, il GamerGate non si è evoluto nell’alt-right (che come abbiamo visto esisteva già prima del 2014) o nella folla che ha assaltato Capitol Hill. A questo proposito, spesso viene dimenticato che il GamerGate stia stato prima di tutto una estensione online della violenza domestica: il GamerGate è la storia di un uomo che si vendica sulla persona che lo ha lasciato. Il GamerGate è stato però anche una palestra per l’alt-right e per una serie di personaggi che avrebbero poi contribuito all’elezione di Trump. Il GamerGate ha insegnato all’alt-right come le piattaforme social e internet in generale, potevano essere usate per costruire sul terreno fertile del capitalismo, del patriarcato, dell’imperialismo e del suprematismo bianco statunitense, ha reso celebri volti che poi avrebbero usato quella notorietà per supportare Trump (come Mike Cernovich, uno dellǝ promotorǝ del PizzaGate), ha costruito le infrastrutture che sarebbero state usate in seguito e ha contribuito alla definizione delle tattiche dell’alt-right, come il trolling e il camuffamento della propaganda come scherzo e battuta (che sia misogina, omotransfoba, antisemita o in generale razzista), spesso mediata attraverso meme. A questo proposito, E;R, il canale antisemita promosso da PewDiePie, ha spiegato sul social media Gab (usato dall’alt-right) che il modo migliore per «far aprire gli occhi alle persone sulla questione ebraica» è “«fingere di scherzarci su fin quando la battuta non viene colta, fin quando non viene colta davvero».
Il GamerGate come occasione di propaganda
Grazie al GamerGate, e alla coincidenza demografica e ideologica di cui parlavamo prima, idee un tempo costrette nel recinto dell’ultra-destra hanno iniziato a circolare nel pubblico dellǝ videogiocatorǝ. È oggi quasi impossibile, anche in Italia, girare su pagine e gruppi Facebook dedicate a videogiochi, giochi da tavolo, giochi di ruolo o a qualche altra forma di quella che viene chiamata “cultura pop” senza trovare richiami al “femminismo tossico,” proteste contro l’ultimo personaggio non bianco dell’ultima serie Netflix, inviti a resistere alla “dittatura del politically correct” (un mito inventato dalle destre statunitensi negli anni ’90) e appelli contro la “cancel culture.” Spesso, lǝ responsabili non sono persone che si direbbero “di estrema destra” o che appoggerebbero apertamente le molestie del GamerGate. A volte, queste persone affermano di star attaccando un approccio al “politically correct” preso dagli USA e senza senso nel contesto europeo e possono persino presentare tale attacco come parte di una critica al modello imperialista statunitense.
Eppure negli anni queste persone hanno assorbito proprio il vocabolario e i valori dell’estrema destra statunitense e del GamerGate. «Le persone hanno adottato la nostra retorica, a volte senza neanche accorgersene», dichiarò unǝ suprematista biancǝ a The Daily Beast. «Stiamo gettando le fondamenta per un enorme cambiamento dal punto di vista culturale». L’obiettivo dell’alt-right è rendere mainstream la sua ideologia razzista e reazionaria. L’alt-right, spiega Nathan Damigo (fondatore del gruppo suprematista bianco Identity Evropa, che ha importato dalla Francia lo slogan “You Will Not Replace Us”), «è il prossimo naturale passo per portare questo movimento, decentralizzato e basato su internet, nel mondo reale. Stiamo cercando di creare una fratellanza per le persone che si sono risvegliate e che vedono il mondo sotto una luce diversa. Vogliamo l’attenzione dei normaloni [persone comuni, legate alla politica mainstream, lontane dai movimenti online e dalla cultura di internet]». Il GamerGate è stato (anche) uno strumento per questa operazione di propaganda.
In generale, le destre sono state rapidissime a adattarsi a internet. Negli USA, il movimento neonazista Stormfront è stato uno dei primi movimenti politici ad avere prima un suo bulletin board system (BBS, i forum degli anni 80) e poi un suo sito internet. Alla fine degli anni ’90, David Duke, che era stato Grande Maestro (Grand Wizard) del Ku Klux Klan, scrisse: «Credo che internet inizierà una reazione a catena di illuminismo razziale che scuoterà il mondo con la rapidità della sua conquista intellettuale». L’alt-right sfrutta internet in modo ancora più raffinato, essendo nata su internet ed essendosi formata intorno ai suoi strumenti.
Intanto, l’industria del videogioco (e del gioco in generale) ha mantenuto uno stretto rapporto con la parte più tossica e più vicina al GamerGate, del suo pubblico, e quindi con le istanze della destra statunitense. Le testate specializzatesi sono piegate alle richieste del GamerGate, trattandolo come un movimento veramente interessato a migliorare la trasparenza nel settore. Nel 2016, Nintendo ha licenziato la PR Alison Rapp, accusata da membri del GamerGate di aver ridotto la sessualizzazione dei personaggi femminili di alcuni videogiochi giapponesi durante la loro localizzazione in Occidente (Rapp non lavorava neanche alla localizzazione dei videogiochi). Nel 2018, ArenaNet ha licenziato Jessica Price e Peter Fries, che lavoravano alla componente narrativa del videogioco Guild Wars 2, perché Price aveva risposto male a un “gamer” (uno streamer e YouTuber in questo caso) maleducato e Fries l’aveva difesa, attirando le attenzioni di Reddit. La piattaforma di distribuzione Play-Asia, da cui è possibile acquistare in Occidente edizioni e videogiochi disponibili solo in Asia, si è esplicitamente proposta come strumento per superare la censura imposta in Occidente dallǝ femministǝ. La grande compagnia THQ Nordic, parte di Embracer Group, ha tenuto un evento ufficiale su 8chan. Il distributore di videogiochi (italiano) Indiegala ha usato nel 2016 un meme islamofobo per promuovere un videogioco in offerta sulla sua piattaforma. Activision Blizzard ha promosso il suo Call of Duty: Black Ops – Cold War con filmati tratti da un discorso del 1984 di Yuri Bezmenov su come la lotta per i diritti civili negli USA fosse in realtà frutto di un piano sovietico per indebolire l’avversario. In Tom Clancy’s Elite Squad, Ubisoft ha rappresentato Black Lives Matter come strumento di una cospirazione malvagia. La promozione del recente videogioco Cyberpunk 2077 di CD Projekt è stata in gran parte indirizzata verso questo pubblico di “gamer,” per esempio usando riferimenti a meme transfobi nel marketing online. E non sono mancati richiami al GamerGate e un tentativo di manipolare un hashtag creato da e per la comunità trans nella promozione della piattaforma di distribuzione di CD Projekt, GOG.
Le personalità del GamerGate sono le personalità dell’alt-right
Forse niente evidenzia la continuità tra GamerGate e alt-right meglio della continuità tra le loro personalità di riferimento. Prima di dirigere la testata di estrema destra “Breitbart News Network” e di lavorare nella campagna elettorale (come amministratore delegato) e nell’amministrazione (come capo stratega e consigliere) di Donald Trump, Steve Bannon ha scoperto nel videogioco World of Warcraft di Activision Blizzard, come raccontato in Devil’s Bargain: Steve Bannon, Donald Trump, and the Storming of the Presidency di Joshua Green, la possibilità di trasformare in un esercito manipolabile i videogiocatori bianchi e le loro comunità online. Poi, durante la nascita del GamerGate, Breitbart, grazie all’opera di Milo Yiannopoulos che si occupava della sezione tecnologica della testata, lavorò alla normalizzazione del GamerGate. Yiannopoulos, rovesciando totalmente la narrazione, intitolava il suo primo articolo sul GamerGate, Feminist Bullies Tearing the Video Game Industry Apart. «Mi resi conto che Milo poteva stabilire una connessione immediata con quei ragazzi» spiega Bannon nel libro di Green. «Si tratta di un vero e proprio esercito che puoi mobilitare. Arrivano attraverso il GamerGate o qualsiasi cosa sia in quel momento e poi finiscono coinvolti nelle vicende politiche e in Trump».
Le malefatte di Yiannopoulos meriterebbero un articolo a parte. Ne cito qui solo una, per farvi capire di che personaggio stiamo parlando: una volta Yiannopoulos ha organizzato una raccolta fondi per mandare ragazzi bianchi al college, una presa in giro delle iniziative di beneficenza indirizzate a mandare al college persone non bianche o in generale marginalizzate e nessuno sa precisamente che fine abbiano fatto gli almeno centomila dollari che ha raccolto. Ma, lasciando momentaneamente da parte Yiannopoulos, l’intero Breitbart è stato centrale nel progetto di normalizzazione non solo del GamerGate ma anche (e direi “soprattutto”) dell’estrema destra statunitense: Bannon stesso ha definito la testata come «piattaforma dell’alt-right». E, come ha dichiarato unǝ ex-collaboratorǝ di Bannon a Politico, «quando Bannon disse [che Braitbart] era una piattaforma per l’alt-right […] non stava pensando a Richard Spencer, stava pensando ai troll su Reddit e 4chan». Bannon stava pensando al GamerGate: mentre Breitbart normalizzava il GamerGate, presentandolo sotto una luce positiva a un grande pubblico, contemporaneamente normalizzava l’alt-right, facendola conoscere alla comunità dellǝ videogiocatorǝ.
Postilla. Bannon, che è stato anche parte dell’amministrazione di Cambridge Analytica (finanziata dalla famiglia Mercer, co-proprietaria di Breibart e parte del consiglio di amministrazione del social network Parler), è stato accusato nel 2020 di cospirazione a scopo di frode postale e riciclaggio di denaro per la campagna We Build the Wall, una raccolta di denaro per costruire il favoleggiato muro trumpiano tra USA e Messico. È tra le persone graziate da Donald Trump alla fine del suo mandato.
Il GamerGate come stress test per le piattaforme online
Le campagne di molestie e disinformazione del GamerGate coincisero anche con l’inizio dell’intervento russo nelle comunità online statunitensi. Proprio nel 2014 la Russia iniziò a investire pesantemente nella creazione di falsi account e bot per influenzare online il dibattito pubblico in altri Paesi. Nel 2016, l’account di origine russa Blacktivist fingeva su Twitter e Facebook di essere gestito da attivistǝ nerǝ (una tecnica che abbiamo discusso parlando di #YourSlipIsShowing) nel tentativo di fomentare le tensioni razziali negli USA come parte di una più grande campagna russa per influenzare le elezioni presidenziali statunitensi. E anche il culto di QAnon è stato inizialmente (dalla fine del 2017) promosso da simili account controllati dalla Russia.
Il GamerGate è stato in questo la prova (anche per la Russia) che le piattaforme non sarebbero riuscite a moderare i loro contenuti e non sarebbero riuscite a proteggere lǝ loro utenti (Twitter ha deciso di intervenire almeno contro le grandi reti di bot solo nel 2018). Scrive Quinn nel suo libro: «Anche con le limitate regole che le piattaforme hanno oggi, è difficile non disperarsi vedendo come le persone che dovrebbero farle rispettare in realtà non prendono sul serio i Termini di Servizio e prendono ancora meno sul serio il fatto che l’utenza non li segua. E i problemi che ci sono nel far rispettare i Termini del Servizio aumentano ancora quando questi Termini di Servizio sono essi stessi difettosi. […] Spesso, una grande piattaforma impiega pochi minuti a rimuovere materiale piratato, ma ci vogliono anni, decine di vittime e che qualcunǝ di abbastanza potente diventi bersaglio delle molestie (causando un danno all’immagine della compagnia) perché siano rimossi contenuti abusivi. L’opacità dei Termini di Servizio delle compagnie è spesso intenzionale. La maggior parte delle piattaforme possiede una dettagliata versione interna dei Termini di Servizi, ma le versioni disponibili pubblicamente sono appositamente più vaghe. Questa differenza, che esiste più per motivi pratici che per volontà di non essere trasparenti, permette alle compagnie di lavorare più facilmente all’interno di zone grigie, perché l’ambiguità permette loro di operare in modo arbitrario senza doversi preoccupare di star infrangendo le proprie regole».
Le piattaforme come luoghi di radicalizzazione
Infine, il GamerGate ha dimostrato alla politica statunitense che le piattaforme (YouTube, Facebook, Twitter, Reddit, 4chan…) sarebbero diventate efficaci luoghi di radicalizzazione e organizzazione. Facebook ha messo in dubbio che la sua piattaforma abbia contribuito in modo importante all’organizzazione dei fatti del 6 gennaio 2021. Ma, come raccontato in un report del Tech Transparency Project, è proprio su Facebook che è stato organizzato l’assalto a Capitol Hill e, come spiegato da Stuart A. Thompson e Charlie Warzel sul New York Times, sono stati i meccanismi dei social, tra cui sempre Facebbok, a premiare nel tempo gli influencer per le loro opinioni sempre più estreme: le piattaforme social e di condivisione video hanno reso la creazione e diffusione di contenuti mendaci e reazionari un business internazionale. YouTube ne è un caso esemplare e abbiamo già visto quanto questa piattaforma sia stata centrale nel GamerGate. Sul “New York Times”, la professoressa Zeynep Tufekci (dell’Università del North Carolina) ha definito YouTube “il grande radicalizzatore” e Tarrant, lo stragista di Christchurch, si era radicalizzato (anche) su YouTube: questa piattaforma di condivisione video è diventata un fondamentale luogo di reclutamento e propaganda per l’alt-right e per la destra estrema neonazista (anche per le organizzazioni che non si considerano parte dell’alt-right).
La promozione della disinformazione e dell’estremismo, solitamente di destra, avviene principalmente attraverso gli algoritmi che gestiscono i suggerimenti su queste piattaforme. YouTube consiglia, accanto al video che stiamo guardando, una serie di video selezionati dal suo algoritmo ed è possibile far partire automaticamente un nuovo video suggerito dopo la fine del video corrente. In Nuova era oscura, James Bridle spiega come chi crea video abbia imparato a sfruttare questa funzione di esecuzione automatica, dando alle proprie creazioni titoli pensati non più per essere letti e scelti da esseri umani ma dall’algoritmo stesso. Come Jack Nicas ha raccontato su “The Wall Street Journal“, dai suggerimenti dell’algoritmo dipende (il dato è del 2018) il 70% del tempo speso dall’utenza guardando video su YouTube. E anche partendo da video di influencer di destra ancora comunque mainstream come il celebre Ben Shapiro è facile finire a guardare personaggi con posizioni sempre più estreme, perché l’algoritmo premia soprattutto informazioni false, propaganda di estrema destra e contenuti violenti, contemporaneamente confermando ed estremizzando le opinioni della sua utenza video dopo video. E siccome, come abbiamo visto, il GamerGate è riuscito efficacemente a saldare la cosiddetta “cultura pop” con la cultura dell’alt-right statunitense, è facile seguire un simile percorso di radicalizzazione anche partendo da video di videogiochi realizzati da YouTuber apparentemente lontanissimi non solo dall’estrema destra ma dalla destra in generale
Prima che YouTube iniziasse a sfavorire video che includessero informazioni potenzialmente false o pericolose (ma non abbastanza estreme da essere vietate sulla piattaforma) nel 2019, secondo un esperimento di BuzzFeed un nuovo account, muovendosi da video consigliato a video consigliato, si trovava a guardare contenuti di estrema destra e/o falsi entro una decina di passaggi. Secondo una ricerca interna di Facebook, riportata da The Wall Street Journal, il 64% delle persone che si aggiungono a gruppi estremisti sulla piattaforma li scoprono grazie ai suggerimenti dell’algoritmo della piattaforma stessa, che raccomanda gruppi o pagine che potrebbero interessare alla sua utenza. Facebook ha di recente deciso di togliere le comunità legate a temi politici dai contenuti che la piattaforma può suggerire, prima negli Stati Uniti d’America per le elezioni presidenziali del 2020 e poi in tutto il mondo. Un altro possibile percorso di radicalizzazione, soprattutto su YouTube e sul servizio di live-streaming Twitch, nasce dalle collaborazioni tra gli influencer, che spesso si ospitano a vicenda nei rispettivi show e canali. È una graduale impollinazione incrociata tra gli audience all’interno della complessa rete creata dalle destre sulla piattaforma, dove tecniche di marketing tipiche degli influencer sono usate per vendere, invece, idee politiche.
Ariadna Matamoros-Fernández (dell’Università del Queensland) lo ha definito «razzismo delle piattaforme, una nuova forma di razzismo derivata dalla cultura delle piattaforme di social media, dal loro design, dalle loro possibilità tecniche, dai loro modelli di business e dalle loro politiche», cioè dal modo in cui le loro funzioni e i loro algoritmi collaborano con «le pratiche dell’utenza per camuffare e amplificare umorismo razzista e abusi» allo scopo di permettere «la circolazione di hate speech fatto più o meno alla luce del sole». Esiste un’intera pagina su Wikipedia dedicata solo ai linciaggi causati in India da false notizie diffuse su WhatsApp (Facebook, proprietaria di WhatsApp, non è intervenuta fin quando il governo indiano non ha minacciato azioni legali). Facebook è usata in Myanmar da metà della popolazione e rappresenta il 99,4% del mercato locale dei social media ed è diventata, secondo le Nazioni Unite, «un utile strumento» per la diffusione di odio islamofobo da parte dei movimenti buddhisti nazionalisti appoggiati da governo civile ed esercito (Facebook ha bloccato gli account dei vertici dell’esercito birmano solo quando le Nazioni Unite li hanno accusati di genocidio e crimini contro l’umanità per le loro azioni contro la minoranza musulmana).
Anche se ci stiamo concentrando sulla propaganda online, dobbiamo aprire una breve parentesi, perché non bisogna ignorare il peso che i media tradizionali, come la televisione, hanno avuto per esempio nella promozione di Trump già a partire dalle primarie del partito repubblicano. I canali televisivi, in difficoltà, hanno infatti visto in Trump, già personaggio televisivo (ha condotto l’edizione statunitense di The Apprentice), un’occasione di lucro e gli hanno dato gratuitamente tutto lo spazio possibile.
Il deplatforming
Tornando a parlare di piattaforme online, è chiaro perché le compagnie che le possiedono possano avere scarso interesse a intervenire: questi contenuti creano buzz, engagement, movimenti sui social media, discussioni e, quindi, profitti attraverso i loro introiti pubblicitari. Piattaforme di condivisione video e social network intervengono sempre troppo tardi, non intervengono affatto o persino intervengono a favore di questi network dell’odio razzista, sessista e eterocisnormativo. Quando il creatore, pentito, della casa del GamerGate su Reddit, KotakuInAction, cercò di cancellare la sezione, Reddit la ripristinò. Twitter, Facebook, YouTube e TikTok hanno agito metodicamente contro QAnon solo nel 2020; Reddit aveva già agito nel 2018, ma è stata fondamentale per la crescita del culto fuori da 8chan, come ponte verso l’ancora più mainstream Facebook. Quando queste compagnie agiscono il pubblico, già radicalizzato, ha spesso raggiunto una massa critica che gli permette di spostarsi altrove e continuare la conversazione su altre piattaforme. Da 4chan a 8chan e poi 8kun, da Twitter a Parler e poi Telegram, da Facebook a Gab, da Youtube a BitChute. Il rischio è quello di ritrovare una parte di queste persone su piattaforme sempre più lontane dall’occhio pubblico e sempre meno monitorate e moderate.
Scrivendo questo, non sto mettendo in discussione l’utilità del deplatforming, cioè del privare lǝ estremistǝ di destra di una piattaforma, e non sto sostenendo che violi la loro libertà di esprimersi o che si tratti di censura. Una piattaforma, essendo una compagnia privata, ha diritto di esprimersi liberamente, cioè di scegliere chi ospitare. È stato anche dimostrato, per esempio nel caso di Daesh (il cosiddetto “Stato islamico”), che il deplatforming sia una tattica efficace, e se l’obiettivo dell’alt-right è entrare nel dibattito mainstream, isolarla e costringerla (tempestivamente) fuori da piattaforme mainstream può effettivamente sabotare il suo progetto. Inoltre, togliendo spazio a chi usa le piattaforme per fomentare odio razzista, xenofobo, misogino e omotransfobico e per molestare sviluppatorǝ di videogiochi, queste compagnie stanno semplicemente migliorando i loro servizi per lǝ utenti che vogliono usarli nel modo corretto.
Negli ultimi anni le compagnie si sono mostrate più interessate alla moderazione dei contenuti. Secondo i dati riportati da The Economist (a ottobre 2020), in due anni la quantità di “hate speech” rimossa da Facebook è per esempio aumentata di dieci volte, e ogni giorno 17 milioni di account falsi vengono rimossi dalla piattaforma (il doppio rispetto a tre anni fa). È una escalation che vediamo in quasi tutte le compagnie che gestiscono servizi social o di condivisione video, spesso anche grazie all’assistenza di altri algoritmi. A volte (e sempre con maggior frequenza), sono governi e istituzioni a premere perché parte di questi contenuti siano rimossi o a determinarne la regolamentazione. Ma il deplatforming pone dei problemi, per esempio quando viene eseguito su ordine di governi liberticidi e non offre tutte le soluzioni a questa situazione. Facebook sta colpendo anche gruppi e organizzazioni di sinistra, trattando lǝ attivistǝ antirazzistǝ e antifascistǝ come se fossero equivalenti ai membri delle milizie di estrema destra. Se la discussione politica diventa cattiva per gli affari, le piattaforme come Facebook saranno incoraggiate semplicemente a eliminare e scoraggiare tutti i contenuti politici. Intanto, secondo una recente indagine, Facebook sta comunque continuando a lucrare sull’anti-vaccinismo, permettendo la monetizzazione di pagine che diffondono disinformazione sulla pandemia di COVID-19
La situazione è complicata dal consolidamento di monopoli come Facebook e Google nella comunicazione online e la necessità dell’informazione tradizionale (che, va detto, spesso non fa più fact-checking di un qualsiasi blog dedicato al genocidio della razza bianca) di adeguarsi a questo linguaggio e a questi modelli di business per non morire. In alcuni Paesi, molte persone non sanno neanche che esista un “internet fuori da Facebook.”
I social network come editori e curatori dell’odio
Nonostante il loro peso e il loro crescente impegno nel limitare la diffusione dell’odio, per anni e ancora oggi queste piattaforme hanno rifiutato le loro responsabilità, descrivendosi non come editori (quindi non come qualcunǝ che stia scegliendo e curando i contenuti che ospita) ma come meri e neutrali strumenti tecnologici (“piattaforme” appunto). Intanto, come abbiamo visto, contribuiscono attivamente grazie ai loro algoritmi ad avvicinare l’utenza a disinformazione ed estremismo fascistoide e rendono economicamente vantaggioso per lǝ YouTuber creare contenuti sempre più estremi perché tali contenuti sono favoriti dagli algoritmi della piattaforma.
In Why media companies insist they’re not media companies, why they’re wrong, and why it matters, Philip M. Napoli e Robyn Caplan scrivono: «Mark Zuckerberg di Facebook si è concentrato sul sottolineare che la piattaforma fornisca semplicemente strumenti all’utenza per aiutarla a dedicarsi in prima persona alla propria attività di creazione e curatela. Una posizione che sembra ignorare, o almeno rappresenta malamente, il ruolo che gli algoritmi delle piattaforme giocano nel priorizzare e filtrare i contenuti. […] Invece, non dobbiamo ripensare il fondamentale ruolo dellǝ curatorǝ solo perché sono cambiati i meccanismi con cui questa curatela, la scelta editoriale, avviene. […] I media hanno sempre, in qualche misura, provato a dare al proprio pubblico quello che voleva. Da questo punto di vista, Facebook, Twitter o Google sono ben poco diversi da qualsiasi pubblicazione, trasmissione o testata digitale che cerca disperatamente di capire cosa il proprio pubblico voglia per potergli fornire esattamente quello che desidera. La vera differenza è che queste piattaforme digitali sono semplicemente più efficaci ed efficienti nel farlo». Algoritmi e Intelligenze Artificiali, spiegano anche Napoli e Caplan, non sono inoltre “neutrali,” ma ripetono le distorsioni delle società in cui sono sviluppatǝ. Il deplatforming serve a poco se avviene su media che ancora faticano a definire e accettare il loro ruolo e, quindi, le loro responsabilità.
Fascismo eterno, GamerGate eterno
E, per finire, il deplatforming non può bastare perché, come ho già detto, l’estremismo di destra non nasce con il GamerGate. Neanche il GamerGate nasce con il GamerGate: le sviluppatrici venivano molestate online e allontanate dal mondo del videogioco prima del 2014. Per esempio, nel 2007 i dati personali (tra cui l’indirizzo) della sviluppatrice e blogger Kathy Sierra furono diffusi su internet e lei decise di lasciare la scena pubblica. Così, i linciaggi erano un problema in India prima di WhatsApp, e le “challenge” (le “sfide”) uccidevano o rischiavano di uccidere bambinǝ e ragazzinǝ prima di TikTok. E quando dico che il razzismo sui social media e sulle piattaforme di condivisione e streaming video assume caratteristiche precise e può essere descritto come un prodotto della platform economy non intendo dire che il razzismo non esistesse prima dei social media. L’attacco alle moschee di Christchurch non è leggibile senza capire gli ambienti frequentati online da Tarrant, ma non è davvero comprensibile senza considerare l’islamofobia che esiste offline da ben prima che internet esistesse e che impregna le fondamenta della cultura occidentale. «Non possiamo dare tutta la colpa a Facebook» ha detto a “The New York Times” Harindra Dissanayake, consigliere presidenziale in Sri Lanka, dove la piattaforma ha contribuito a una serie di linciaggi di matrice islamofoba. «I semi sono nostri, e Facebook è il vento». Una risposta unicamente tecnologica, una sistematina all’algoritmo di YouTube, non può risolvere il problema, e dare la colpa ai social network è anche un modo facile per scaricare altrove le responsabilità sociali dei governi e dei nostri sistemi di produzione.
Alt-right e GamerGate arrivano da lontano, danno risposta allo stesso timore, che è un timore ben radicato: di fronte a una società in cambiamento (il primo presidente nero degli USA, la democratizzazione dello sviluppo di videogiochi…), di fronte alle conseguenze della crisi economica (quella del 2008), tentano violentemente di tornare a un passato idealizzato e a privilegi che temono di perdere, cercando unǝ responsabile, sentitǝ come esternǝ alla loro comunità, per la crisi che vivono. Questi capri espiatori sono le donne, le minoranze etniche, persone non eterosessuali o non cisgenere… «Se vi siete mai sentiti bullizzati, ridotti a vittime, molestati, marginalizzati…» scrisse Yiannopoulos, «e non da qualche stronzata di concetto immaginario come il patriarcato ma da persone che vogliono togliervi la possibilità di esprimervi e che vi chiamano perdenti, bambinoni, shitlord [troll], che dicono che siete maschi bianchi, cis, etero e privilegiati… ecco, allora Milo Yiannopoulos è qui per voi».
Oggi il pubblico dei videogiochi è molto più vario rispetto a quello a cui pensavano lǝ pubblicitariǝ degli anni ’90: giocano a videogiochi 2,7 miliardi di persone al mondo e, in Italia, secondo l’ultimo report disponibile (i dati sono del 2019), il 45% di chi gioca a videogiochi si identifica nel genere femminile. Ed è a questo cambiamento che il GamerGate risponde. Già nel 2014 su “The Daily Beast” Arthur Chu descriveva perfettamente questo aspetto. Chu compara l’odio dei “veri gamer” contro lǝ sviluppatorǝ indipendenti all’odio dellǝ appassionatǝ di rock degli anni 70 contro la musica disco (troppo nera, troppo femminile, troppo queer, troppo poco musica vera, troppo elitaria), e paragona il GamerGate alla Disco Demolition Night del 1979, una iniziativa promozionale incentrata sulla distruzione di dischi di musica disco e degenerata in una (breve) rivolta. La Disco Demolition Night ebbe ricadute su tutta l’industria musicale statunitense, segnando effettivamente la fine della musica disco e il ritorno del rock negli anni 80. Sempre nel 2014, Kyle Wagner comparava il GamerGate, definito «il futuro della guerra culturale», al Tea Party, movimento ultraconservatore interno al Partito Repubblicano statunitense, nato nel 2009 come reazione all’amministrazione Obama.
E come il GamerGate finge di essere “dalla parte dellǝ consumatorǝ,” anche se in realtà difende le grandi multinazionali colpendo lǝ piccolǝ sviluppatorǝ, così l’alt-right si spaccia per “controcultura” al servizio della classe lavoratrice anche se in realtà difende gli interessi della cultura capitalista e patriarcale egemone. Le preoccupazioni di questa classe lavoratrice (le crisi economiche, la crescente forbice sociale, gli effetti delle politiche neoliberiste, l’allontanamento di partiti un tempo ritenuti di sinistra da qualsiasi istanza sociale e popolare…) sono però reali. Ed è a queste preoccupazioni che bisogna dare una risposta. Una risposta che non sia minacciare unǝ ventenne che distribuisce online giochi gratis sulla depressione, magari.
Dopo Trump
Ecco quindi il percorso che, iniziando molto tempo fa, attraversa lǝ troll contro cui ha combattuto #YourSlipIsShowing, il GamerGate e arriva sino alle elezioni del 2016, ai quattro anni di governo di Trump e all’assalto a Capitol Hill. È un percorso che continua, perché questa cosa non finisce con Trump, che è stato infine anche sospeso da Twitter, Instagram e Facebook, Shopify, Snapchat, YouTube e Twitch, mentre Reddit e Discord sospendevano le sezioni a lui dedicate, Google, Apple e Amazon smettevano di ospitare Parler sulle loro piattaforme e sui loro server e TikTok reindirizzava gli hashtag collegati all’attacco di Capitol Hill. Questa cosa non finisce con Trump perché l’imperialismo statunitense non è iniziato con Trump, non finisce con Trump perché la creazione di contenuti estremi e tossici è ancora alla base del modello di business delle piattaforme e non finisce con Trump perché ancora esistono le organizzazioni e le strutture che hanno permesso che tutto ciò accadesse. Come il GamerGate ha portato l’estrema destra nel videogioco e i videogiocatori nell’estrema destra, QAnon ha riunito nel culto di Trump persone di estrazione e opinione a volte totalmente diverse tra loro, facendo leva su meccanismi simili a quelli su cui farebbe leva un gioco e mettendole in contatto con le idee dell’alt-right, con cui condividono (tra le altre cose) una certa sfiducia verso il tradizionale Partito Repubblicano, pur finendo infine per diventare una stabile parte della base del partito e scalandone i vertici.
Dopo l’inaugurazione dell’amministrazione Biden, QAnon si trova a una svolta: The Storm, l’evento culmine atteso dallǝ fedeli, praticamente il loro equivalente della seconda venuta di Gesù Cristo, doveva avvenire entro il giorno dell’inaugurazione, cioè entro la fine del mandato di Trump. Trump, che sinora aveva condotto una guerra segreta di cui solo lǝ adeptǝ di Q erano a conoscenza, avrebbe finalmente svelato al mondo la cospirazione, dichiarato la legge marziale e arrestato e giustiziato tuttǝ lǝ colpevoli. Invece non è successo nulla. Ora, molte persone che credevano in QAnon si rendono conto di essere state prese in giro per anni, altre hanno affermato che in realtà Biden è d’accordo con Trump e che il piano sta andando come previsto, e altre ancora stanno cercando di dare un senso alla situazione avvicinandosi a ideologie più estreme. L’alt-right ha spesso guardato con sospetto le fantasie di QAnon, considerandole una perdita di tempo rispetto alla vera lotta per la difesa dell’etnonazione statunitense e della sua cultura. Ed esponenti di quella destra che aveva comunque contribuito a diffondere QAnon (come Bannon) si stanno già allontanando dal culto, affermando che si sarebbe trattato di un’operazione di intelligence con l’obiettivo di distrarre la base elettorale di Trump. Ma alt-right e QAnon condividono gli stessi ambienti online, e l’estrema destra sa che lo sfaldarsi di QAnon è una ghiotta occasione per fare proselitismo sfruttando il disorientamento dei membri del culto di Q.
Ci aspettano insomma nuovi mescolamenti e nuove occasioni di diffusione delle ideologie della destra statunitense ma, per il momento, questo viaggio nella destra (anche) videoludica finisce qui. Ora che abbiamo messo in fila (almeno in parte) gli eventi che ci hanno portato a oggi, dobbiamo capire quali possano essere le nostre risposte per il futuro. Spero che questo articolo vi abbia dato qualche spunto.