EUROPA

Kosovo 1999, una «guerra umanitaria» dentro la globalizzazione. Intervista a Bettin

Un intervento militare a sostegno della globalizzazione che scatenò un enorme movimento globale. Lo racconta Gianfranco Bettin, uno dei protagonisti di quelle mobilitazioni. «Probabilmente siamo solo all’esordio di una nuova stagione di movimenti e di nuova partecipazione».

20 anni fa in queste settimane si consumava la “Guerra per il Kosovo”. Una coalizione di paesi appartenenti alla NATO decise di aggredire in modo unilaterale la Serbia, giustificando l’atto con ragioni umanitarie e con la finalità di proteggere la minoranza albanese. Fu la prima guerra umanitaria sostenuta da governi “progressisti” (D’Alema, Blair, Clinton, Schroeder). L’Italia fu al centro della contesa, le sue basi militari Nato del Nord (Istrana, Ghedi, Aviano) furono utilizzate dai caccia che ogni notte scaricavano le loro bombe su Belgrado e sulle postazioni serbe in Kosovo. Contro quella guerra in Italia e in Europa si schierò un movimento pacifista radicale e determinato. In quegli anni, Gianfranco Bettin era un punto di riferimento per chi si opponeva al conflitto militare. Lo abbiamo intervistato.

Gli anniversari spesso aiutano a guardare a ritroso e leggere momenti storici con maggiori chiavi di lettura. Quale interpretazione possiamo dare, a distanza di 20 anni, agli eventi che portarono alla guerra in Kosovo del 1999?

Il tempo passato dovrebbe farci riflettere su quanto non è stato risolto con quella guerra, che dipende dal tipo di intervento realizzato. Allora la situazione tra Serbia e Kosovo e nei Balcani orientali era a rischio, in molti luoghi già si vivevano contesti violenti in cui vi erano sopraffazioni pesanti verso chi si trovava di volta in volta a essere la minoranza, il più debole alla mercé di chi invece esprimeva forza e prepotenza.

Questa situazione è stata prima lasciata marcire ed esasperare e poi si è voluto risolverla con un intervento unilaterale di forza, cristallizzando rapporti che si erano definiti sul campo militare senza favorire alcun processo di ricostruzione, incontro e riconciliazione tra le diverse parti in tutta quell’area.

A oggi la situazione è ferma al cessate il fuoco del 1999. Soprattutto nelle zone più controverse non c’è ritorno alla convivenza né il rilancio di uno sviluppo sociale e civile. Non si è favorito l’assopimento delle tensioni. Si sono semplicemente irrigiditi i rapporti di forza “a quella data” che erano stati fortemente squilibrati dall’intervento Nato, ma non si è risolta la situazione. Oggi questo è evidente a tutti, a partire dal fatto che le truppe internazionali sono ancora di stanza sul posto.

Faticosamente ogni entità statale o parastatale emersa da quel conflitto ha cercato comunque di fare la propria strada – così pure hanno fatto Kosovo e Bosnia. Pesa molto però una mancata soluzione europea e una balcanica. Grazie alla propria capacità politica e diplomatica l’Europa degli anni ‘90 avrebbe dovuto ricercare una soluzione balcanica massimamente condivisa e invece ci siamo trovati di fronte ad una soluzione militare e, in seguito, a un equilibrio basato sul mantenimento di un ordine manu militari.

Dopo 20 anni non c’è stato nessuno sviluppo politico di quella situazione, siamo rimasti cristallizzati a quell’anno con tutto quello che consegue in termini di permanenza di rancori, dolori, rimossi, non detti. L’assenza di conflitto è garantita solo dalla presenza militare. Manca ancora oggi un pezzo di Europa perché irrigidita dentro una pax militare che non ha lasciato spazio a una pace economica, politica e sociale condivisa. Quell’Europa aveva già lasciato massacrare Sarajevo ed era rimasta a guardare. Con il Kosovo agisce, ma soltanto con strumenti bellici.

Quell’Europa aveva anche governi e ministri appartenenti all’area progressista (da D’Alema a Fischer), che però non misero in discussione il conflitto. Perché?

Lì c’è un equivoco di fondo. L’intervento militare della Nato per il Kosovo (veniva nominato così) accadeva dopo Sarajevo e Srebrenica. Nel mondo c’era una cattiva coscienza di chi aveva lasciato marcire e deflagrare quella situazione, evitando di intervenire (tranne all’ultimissimo momento con un’operazione aerea). L’Europa aveva una coda di paglia insanguinata che è stata utilizzata, allo scoppio della crisi, come motivazione nobile per evitare che si commettesse un massacro simile a quello della Bosnia a danno della popolazione albanese del Kosovo.

Ma il quadro politico era fondamentalmente diverso da quello di qualche anno prima. Sul campo c’erano già militari e caschi blu, era aperta la strada della diplomazia non militare che avrebbe potuto avere degli interlocutori sul campo come Rugova in Kosovo o come molti oppositori di Milošević in Serbia, e c’era un peso politico e diplomatico e una proposta strategica ed economica da mettere in campo. Tutto questo è stato trascurato e bypassato a favore dell’intervento militare.

I progressisti di quegli anni si erano da poco arruolati “sul fronte” della buona globalizzazione, dandone una lettura come minimo ingenua, ma nella realtà condiscendente. Quel fronte vedeva nella globalizzazione un elemento fautore delle sorti magnifiche e progressive dell’umanità. Pertanto considerava l’intervento militare a favore dei cosiddetti diritti umani (la guerra umanitaria) come uno strumento di questa nuova era di sviluppo, crescita e pace. In essa l’assenza di conflitto sarebbe stata garantita dall’intervento militare a ogni tentativo di uscire dalla prospettiva dominante. La guerra del Kosovo fu vista in quest’ottica da paesi come Germania e Italia, Francia e gli stessi Stati Uniti.

Lo schieramento di sinistra socialdemocratica e laburista aveva bisogno di dare questa lettura e questa sovrastruttura ideologica. Non dimentichiamolo: coglievano un tema ineludibile e non risolto nel caso della Bosnia, cioè «cosa sceglie di fare la comunità internazionale per difendere chi è alla mercé degli aggressori?». Il tema era stato posto anche da forme nuove di pacifismo che parlavano di interposizione, di presenza civile di pace nonviolenta, perfino con proposte molto avanzate di legge europea (ne ricordo una di Alex Langer). Si volevano costruire forze capaci di stare sul campo per dare qualche strumento concreto per interporsi e poi aprire la pacificazione o perlomeno la tregua e con forme di dialogo e di confronto e tornare a una convivenza civile. Tutto questo è spazzato via dall’intervento NATO.

Le forze che condividono una lettura progressista della globalizzazione leggono nello strumento militare l’unico possibile e nello sceglierlo prediligono quello più efficace di tutti, la NATO. Abbandonano tutto il resto, tutto quello che si era immaginato di poter fare senza l’elemento militare come centrale, o quantomeno concependo gli interventi come condivisi, gestiti da entità internazionali e non da un organismo politico militare come la NATO.

I governi di allora si fanno strumento armato di una visione geo-strategica, socioeconomica e politica più ampia che era quella della globalizzazione: la nuova era, che vedevano come l’orizzonte in cui collocare ogni scelta inclusa quella della pace intesa come “portare l’ordine mondiale” in luoghi che fossero in conflitto. Era di sicuro, come sempre, una guerra di interesse specifica perché si voleva occupare militarmente una posizione nei Balcani che si riteneva importante, ma aveva anche questo retroterra ideologico molto forte.

Molto interessante questo parallelo. Pochi mesi dopo la guerra per il Kosovo “accade” Seattle ed esplode il movimento che mette in discussione quella globalizzazione economica portata avanti dai governi progressisti. I due movimenti pacifista e no global furono collegati?

I movimenti furono in grado nel giro di alcuni mesi di connettere l’opposizione a una guerra specifica, la crisi del Kosovo, a un complesso ideologico e di interessi più ampio che è quello della globalizzazione. Nel farlo decostruirono la guerra umanitaria all’interno della critica alla globalizzazione economica. Questo fu un passaggio fondamentale. Sono gli anni in cui si procede a colpi di decisioni del FMI, della Banca Mondiale e degli altri organismi che diventano politiche economiche internazionali, ratificate dai governi senza discussione. Si struttura così quel laboratorio politico istituzionale e socioeconomico su scala internazionale che è stato chiamato globalizzazione.

I grandi raduni dei Social Forum offriranno non solo gridi di allarme e proteste ma anche piattaforme di alternativa che diventeranno un grande festival democratico dei movimenti. Si riesce pertanto a mettere in campo una decostruzione dell’ideologia della globalizzazione compresa la sua parte bellicista, che non si nasconde più dietro il colonialismo né dietro l’importanza di proteggere l’ordine liberale dal comunismo, come era fino al 1989, ma si ammanta del discorso umanitario. Durante tutto il 1999, culminato con Seattle, questo nuovo grande protagonista entra in campo, raccogliendo il patrimonio dei tanti movimenti pacifisti degli anni ‘90, sapendoli arricchire di idee e pensieri, per cui non si dice solo NO alla guerra ma si dice SI a un altro mondo è possibile.

Qual è allora un insegnamento del movimento di quegli anni che può essere utile in un momento in cui, di nuovo, i movimenti scendono in campo su scala globale, per i diritti delle donne o le questioni ambientali?

Un grosso insegnamento di quegli anni è recuperare la capacità di una lettura complessiva che poi va tradotta e articolata in soggetti portatori di esperienze e percorsi. In questo quadro ognuno compone un pezzo del puzzle di quella visione alternativa. Non a caso si parlava di movimento dei movimenti. Lo striscione che apriva il corteo di Seattle del ’99 recava la scritta “For the Jobs and the Trees” per il lavoro e per gli alberi, era la prima occasione in cui sindacati di vario tipo convergevano con movimenti verdi e ambientalisti di tutto il mondo trovando il nesso tra i due elementi. Il lavoro, che mancava dentro il vecchio modello di sviluppo (e che era un lavoro oppressivo e sfruttato), era rifiutato e si cercava il lavoro nuovo possibile dentro un’economia che voleva essere alternativa rispetto a quella predatoria estrattiva, consumista. Le minoranze critiche erano consapevoli da prima di questa necessità di connessione, ma in quegli anni la consapevolezza si fa movimento e si fa movimento dei movimenti, riuscendo a dare vita a diverse esperienze a seconda di città, genere, generazione. 

Quel movimento nasce e si sviluppa in modo impetuoso e viene disperso dalla nuova realtà politica. Un conto, infatti, è confrontarsi con governi progressisti, un conto è farlo con Bush e Berlusconi. Gli “ingenui” progressisti aprono la strada alla destra, che comprende di riuscire a essere ancora più ideologicamente coincidente con i veri obiettivi della globalizzazione economica in corso. I cosiddetti “progressisti” non lo hanno colto e ne sono stati spiazzati. Si crea pertanto una situazione politica più dura anche per i movimenti che, con la Guerra di Bush figlio nel 2003 contro l’Iraq, non riescono a conseguire nessun risultato malgrado scenda in campo quella che il “New York Times” chiamò l’altra grande superpotenza mondiale, in uno dei momenti più importanti a livello globale in termini di manifestazioni di piazza. Tutto questo, però, sedimenta e prende strade diverse per mille rivoli e lo vediamo a lunga gittata ogni tanto riemergere carsicamente e rimanere visibile anche nelle fasi di stanchezza. Oggi il sedimento di quegli anni ritorna con i nuovi movimenti che sentono la necessità di entrare in campo, dai giovani per il clima alle donne che vogliono diritti e rivendicano identità di genere. Probabilmente siamo solo all’esordio di una nuova stagione di movimenti e di nuova partecipazione.