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MONDO
Khaled El Qaisi: la speranza della libertà restituita è ancora in lotta
Dopo un mese di prigione senza capi d’accusa, la riconquistata libertà dell’italo-palestinese Khaled El Qaisi è ancora miraggio. Cresce l’attesa per le decisioni del sistema giudiziario israeliano che, ancora una volta, ha adottato condotte illecite nei territori illegalmente occupati da troppi decenni. In questo scenario, governo e gran parte della stampa italiana si segnalano per il loro silenzio di fronte a crimini evidenti. Siamo ritornati a parlarne con Triestino Mariniello
Non c’è dubbio che la vicenda di Khaled El Qaisi sia entrata in una fase di delicata, inquietante incertezza. Dopo un mese di detenzione immotivata in un regime carcerario duro, sotto la pressione di continui interrogatori e privo del conforto di assistenza legale e umana, lo studente italopalestinese è stato scarcerato con divieto di espatrio e obbligo di reperibilità su richiesta delle autorità israeliane. I prossimi giorni ci diranno se El Qaisi possa finalmente mettersi alle spalle questa crudele e disumana vicenda o se, malauguratamente, debba sottoporsi a misure più restrittive, materializzandosi un’accusa fondata su elementi comprovanti presunti reati contro la sicurezza di Israele. Non è dato conoscere, ove mai attuata, una strategia di governo e diplomazia italiani a tutela dei diritti del connazionale coinvolto; sinora, si è visto soltanto qualche timido cenno di interesse verso l’accaduto con la consueta postura “anestetica” di fronte alle palesi violazioni commesse da Israele.
La scarcerazione di El Qaisi un effetto lo ha invece avuto: ha fatto tirare un sospiro di sollievo alla neghittosità di grandissima parte dei media nazionali che hanno stentatamente documentato l’articolata serie di illeciti messi in atto da Israele ai danni di un cittadino italiano. Da qualche giorno, dopo il decreto di pseudolibertà, è difficile trovare anche un solo breve trafiletto su questo caso di medievale iniziativa carceraria che umilia i diritti della persona violando impunemente leggi e risoluzioni internazionali.
Nel fragoroso silenzio mainstream di queste ultime giornate si è fatta coraggio la passione triste di qualche voce sbilenca in maldestro soccorso dell’immagine di un Israele democratico, tesa a neutralizzare preventivamente il “cinismo” di chi cerca di compiere un’analisi critica di un operato ingiusto e criminale che vede vittime i palestinesi già sottomessi a un’illegale occupazione.
Sulla vicenda, sul contesto in cui è maturata e le possibili conseguenze abbiamo domandato elementi di chiarezza a Triestino Mariniello, Reader in Law (Professore associato) presso la John Moores University di Liverpool in Gran Bretagna.
Prima di occuparci delle più recenti fasi della vicenda che colpisce Khaled El Qaisi, prima arrestato e detenuto da Israele per un mese senza chiarite motivazioni, poi scarcerato ma posto in un regime di evidente restrizione della libertà, in che quadro procedurale si può dire che sia maturato il suo fermo? La prassi coercitiva adottata dalle autorità israeliane, spesso illecita e crudele come denunciato da numerosi rapporti, appare “complicata” dal fatto che Khaled palestinese di nascita avesse passaporto italiano. Eppure, senza imputazione a suo carico, gli è stata negata quella serie di garanzie tipiche per un giusto processo e di tutela legale. Sono proprio tanti gli elementi di iniquità…
È una vicenda complessa e complicata e desidero subito chiarire che non mi è dato conoscerne i dettagli. Mi permetto di osservare che, forse, nessuno li conosce, nemmeno gli stessi avvocati di Khaled El Qaisi. L’idea che si è alimentata è quella dell’intenzione da parte delle autorità israeliane di istituire un procedimento penale con quelle eventuali, purtroppo spesso soltanto teoriche garanzie da applicarsi al caso in questione. Ora, il fatto che sia stata più volte prolungata la detenzione di El Qaisi senza che venisse espresso dal giudice un capo d’accusa rientrerebbe in quei riferimenti normativi interni a Israele che offrono la possibilità alla corte di attendere 45 giorni per la formulazione specifica dell’imputazione. Al riguardo, altre fonti riportano che tale durata sia fissata in un termine massimo di 30 giorni. Indipendentemente dall’entità di tale durata, che però denota già all’origine il perimetro di una certa vaghezza procedurale, si è trattato di una detenzione preventiva senza necessità della formulazione di un capo d’accusa. Tutto ciò si è accompagnato all’evidente anormalità di udienze a porte chiuse e in assenza di legale: ebbene, siamo in un contesto largamente praticato in Israele con una profonda discrasia tra legge scritta e prassi, dove quest’ultima aderisce a eccezioni e condotte illecite sul piano procedurale che la stessa relatrice speciale dell’Onu Francesca Albanese ha così ben evidenziato nei suoi rapporti denunciando le violazioni delle pratiche giudiziarie israeliane nei confronti dei palestinesi nei territori occupati. Il caso specifico di cui parliamo va a incastonarsi in questo contesto e di per sé non costituisce assolutamente una novità.
Khaled è stato arrestato dai militari in Territorio Occupato e quindi trasferito a un procedimento ordinario, non marziale quale quello abitualmente applicato ai palestinesi.
Questa costituisce, diciamo così, un’anomalia rispetto al trattamento riservato agli altri palestinesi non in possesso di un passaporto europeo. In un certo senso, se proprio si vuole, potrebbe aver “pesato” il fatto che El Qaisi fosse cittadino italiano. Il che, comunque, non ha riservato a El Qaisi di godere di quelle minime garanzie legali che gli sono state negate in fase processuale e detentiva e dunque dal punto di vista del diritto internazionale gli illeciti compiuti da Israele rimangono più o meno sovrapponibili a quelli che compie nel trattamento generale dei palestinesi imprigionati.
Qualche commentatore, in soccorso del buon nome di Israele, ha evidenziato che procedure giudiziarie di questo tipo con detenzioni prolungate e atti di tortura psichica e fisica a esse connessi rientrano nella prassi della prevenzione e lotta al terrorismo. Si è sostenuto che avrebbero somiglianza con pratiche presenti in altri Paesi, come il 41bis in Italia stessa o quelle di Guantanamo dopo gli eventi dell’11 settembre. Fino a che punto si può configurare un’analogia tra queste prassi?
Innanzitutto, da un punto di vista giuridico, vanno distinti differenti piani di discussione. Il primo è quello relativo alle condizioni di detenzione, l’altro riguarda la mancanza di formulazione di capi d’accusa, il terzo infine fa riferimento all’effective legal representation cioè il diritto a un’effettiva rappresentanza legale. Già solo considerando quest’ultimo aspetto e non passando in rassegna vari altri illeciti commessi, è chiaro che fare paragoni tra le prassi menzionate e maturate in contesti assai diversi lascia il tempo che trova. Ci si deve invece chiedere se, come in altri contesti, siamo in presenza di violazioni commesse. Ebbene, il diritto a un’effettiva rappresentanza legale è chiaramente inesistente nel caso di Khaled. Da qualche parte, si è potuto leggere che avesse incontrato, tra l’altro in rarissime occasioni, un avvocato, ma il diritto a un’effettiva rappresentanza legale presuppone ben altro che il mero incontrare il proprio legale. È sì importante che questo avvenga se non altro per constatare l’irregolarità delle procedure, le condizioni psico-fisiche del detenuto, casi di tortura e così via. Tuttavia, la cosa è certamente più articolata: parliamo di un diritto che deve essere effettivo e che cioè metta l’avvocato in condizione di poter difendere il proprio assistito. Quindi, in mancanza di capi d’accusa e prove a sostegno, senza possibilità di presentare testimoni e di regolari sessioni di interrogazione, tale diritto è cancellato.
Si argomenta che tali prassi debbano e possano inscriversi in uno stato di emergenza.
Spesso si fa riferimento allo stato di emergenza. Ora, è vero che il diritto a un giusto processo a livello giuridico internazionale è un cosiddetto diritto derogabile, cioè un diritto che in contesto di emergenza o stato di guerra può essere limitato. Però, il diritto a un giusto processo è un diritto molto ampio che contiene molti corollari al suo interno e tra questi vi è appunto il diritto a un’effettiva rappresentanza legale che non ammette invece deroga anche in un ipotetico caso di emergenza. Come il divieto di tortura, si tratta di un diritto che non ammette mai limitazione. Oltretutto, un giusto processo contiene molti elementi: per citarne uno, ad esempio, vi è il diritto ad avere i documenti inerenti il procedimento in corso tradotti in una lingua comprensibile, cosa frequentemente elusa dai tribunali israeliani.
So che sugli illeciti compiuti da Israele avrebbe molto altro da aggiungere ma, ritornando al caso di Khaled, nell’ultima udienza è stato emesso un provvedimento di scarcerazione accompagnato però dal rispetto di una serie di restrizioni, non ultima il divieto di espatrio unitamente a quella di essere continuamente disponibile su richiesta dell’autorità giudiziaria. Nei prossimi giorni dovrebbe pronunciarsi la Corte: quali scenari è lecito attendersi?
Gli scenari sono diversi e al momento possiamo fare soltanto delle mere speculazioni. Cosa potrebbe succedere? Un primo scenario è quello di un eventuale, nuovo provvedimento di arresto con l’attivazione di un procedimento penale ordinario a seguito di prove in possesso del procuratore a sua volta informato dall’intelligence. Il secondo è quello per cui non essendoci prove a sostegno dell’accusa, cosa per la verità assai improbabile in Israele dove le fattispecie di reato sono assai vaghe, potrebbe sopraggiungere comunicazione da parte del comandante militare di area in cui si rileva la pericolosità sociale della persona che viene nuovamente arrestata e sottoposta a detenzione amministrativa. In questo caso la decisione è del comandante militare ma deve essere autorizzata, di fatto ratificata, da parte di una corte militare. Insomma, si attiva il procedimento basato su Military Order 1651 e tutto passa nelle mani della corte militare.
Sono possibili ulteriori, differenti decisioni?
Potrebbe essere emesso un decreto di espulsione con ritiro della carta d’identità palestinese. A mio avviso, dopo arresto e detenzione è la misura più afflittiva in assoluto per un palestinese: significa non poter più ritornare sostanzialmente nella propria terra. Infine, vi è un’ulteriore possibilità, quella che auguriamo a Khaled e i suoi cari: la piena libertà restituita per totale estraneità a quanto sospettato.
Quale misura ritiene che sarà la più probabile a essere adottata?
Onestamente, è impossibile rispondere a questa domanda. In assenza di prove e acuti inserimenti provenienti da ambienti dell’intelligence e dei militari sul merito, penso che lo scenario dell’espulsione con ritiro di carta d’identità debba essere considerata un’opzione non così remota. Ma anche in questo caso, andrebbe fatta una ricerca accurata su eventuali casi precedenti per poterne ricostruire modalità e prassi e poter rispondere con maggior precisione. Non mi risultano casi precedenti di cittadini europei. Forse, quello di Salah Hamouri franco-palestinese arrestato, deportato col ritiro della carta d’identità palestinese, potrebbe costituire un caso somigliante all’eventualità di cui stiamo parlando.
Tra le ipotesi, vi è la temuta detenzione amministrativa paventata anche dall’avvocato Rossi Albertini in rappresentanza degli interessi della famiglia di Khaled El Qaisi. Cosa comporta questo genere di detenzione?
È un buio tunnel in cui sono introdotti, al momento, circa 1.200 palestinesi. Si tratta di una detenzione non penale, in assenza di capo d’accusa, che si esplica al di fuori di tutte le garanzie sostanziali e processuali tipiche di un procedimento penale. È un quadro legislativo che Israele adotta derivandolo direttamente dal diritto umanitario internazionale per il quale essa è una misura eccezionale di restrizione della libertà personale per motivi di sicurezza. Purtroppo, per Israele non è eccezione ma prassi. Specie nei periodi di maggiore tensione, come durante la prima e la seconda Intifada, i casi di detenzione amministrativa sono stati molto numerosi e hanno riguardato parlamentari palestinesi, politici, attivisti, difensori dei diritti umani, donne, bambini. Nella realtà dei Territori Occupati è quindi una prassi che consente al comandante militare di area, informato dai servizi di intelligence, di ritenere socialmente pericoloso un individuo anche senza evidenza di reato. Dopo otto giorni, la persona è trasferita al giudizio della corte militare e nella stragrande maggioranza dei casi, pressoché la totalità, il tribunale ratifica ciò che chiede il comandante militare. Le prove addotte vengono secretate per questioni di sicurezza e, in pratica, nessuno potrà mai accedervi. In un’aula a porte chiuse, il procuratore si limita alla dichiarazione di prove che attestano la pericolosità della persona senza darne specifica: un atto di fiducia cieca alla sua parola, senza possibilità di difesa. Il giudice militare può accettare un ordine di detenzione amministrativa della durata fino a sei mesi ma, alla scadenza, rinnovarlo ogni volta, illimitatamente per altri sei mesi. Con la detenzione amministrativa non sai mai cosa ti attende: stai per essere scarcerato trascorsi i sei mesi e proprio in quel preciso momento ti viene notificato un prolungamento di ulteriori sei mesi… In questo regime sono documentati casi di detenzioni durate 8 anni consecutivi o 12 anni complessivi. Abbiamo seguito e studiato per anni le peculiarità della detenzione amministrativa quello che colpiva parlando con ex-detenuti era il riferimento continuo a una condizione di profonda incertezza. Ci veniva riferito che fosse persino peggio di una diagnosi di cancro incurabile: in quel caso sai più o meno quanto ti resta da vivere. Va ricordato che anche in questo contesto sono ampiamente documentati i casi di tortura. E tutto ciò vale per i palestinesi della Cisgiordania. A Gaza, dove pure vige la possibilità di detenzione amministrativa, la prassi è di ammazzare direttamente i palestinesi sospettati.
Oltretutto, si tratta perlopiù di palestinesi arrestati nei Territori Occupati e poi deportati in carcere israeliano…
Esistono anche centri di detenzione in Palestina, ma è vero che moltissimi sono tradotti in carcere in Israele con palese violazione del diritto umanitario internazionale. Questo è accaduto anche a Khaled El Qaisi. Anche in questo caso non vi è nessuna deroga possibile al diritto umanitario internazionale: c’è un divieto assoluto di deportare un individuo dal territorio occupato a quello della potenza occupante. Quindi per El Qaisi v’è stata una violazione palesissima delle convenzioni di Ginevra anche in questo caso.
Cosa sinora ha fatto, non ha fatto e avrebbe dovuto fare il governo italiano nella gestione della vicenda El Qaisi?
Da un punto di vista della presa di posizione pubblica, non è stato fatto nulla. Su un piano più riservato, privato, qualche giornalista ha riportato di iniziative delle autorità italiane seguendo una pista da mantenersi confidenziale. Questo è preoccupante perché tale modalità potrebbe essere comprensibile se El Qaisi fosse stato nelle mani di un gruppo ribelle, non in quelle di uno Stato o Paese definito alleato. In questa vicenda, era chiaro sin dall’inizio che ci fosse bisogno di pressione da parte dello Stato italiano. I modi di esercitare tale pressione possono essere modulati ma trasferire il confronto al solo piano politico sembra quasi sottintendere alla discrezionalità del governo di cosa operare o meno. Ed è qui che si sbaglia: l’Italia non può agire con discrezionalità di fronte a gravi violazioni del diritto internazionale. In simili casi, va fatto tutto il possibile. Prima di essere politica, la questione è giuridica. In presenza di gravi violazioni del diritto internazionale, si ha l’obbligo di intervenire: va smontata la retorica della discrezionalità d’intervento. Le violazioni di Israele sono ampiamente riportate da organizzazioni indipendenti, dalle Nazioni Unite, anche da organizzazioni israeliane e anche di fronte al solo rischio che un tuo connazionale possa essere oggetto di iniquità, torture etc. è obbligatorio intervenire immediatamente. Nel citato caso di Hamouri, la Francia col suo ministro degli Esteri si è fatta molto sentire con vive proteste verso Israele. Invece, nei rapporti tra Italia e Israele sussiste questa presunzione per cui agli alleati non si debba applicare il diritto internazionale ma debba invece essere la politica ad agire, ignorando norme e risoluzioni vigenti. Una cosa risibile anche per uno studente al primo anno di giurisprudenza.
La stampa nostrana, tranne qualche meritoria eccezione, ha ben amplificato il clima di silenzio sul caso pur trattandosi della vicenda che colpisce un cittadino italiano. Vale la pena ricordare che proprio a ridosso dell’estate scorsa l’Ordine dei giornalisti nazionale ha adottato la vaga definizione IHRA di antisemitismo che pure costituisce un potente deterrente per un’informazione critica nei confronti di Israele…
Non sono sorpreso per nulla. Pur trattandosi di un cittadino italiano, non si sarebbe automaticamente assistito a una copertura mediatica maggiore. Sui fatti di Palestina v’è un sostanziale buco informativo da tempo, molto tempo. Mi ha sorpreso l’articolo scritto da Manconi su “La Stampa”, giornale normalmente ben distante da posizioni in favore della condizione palestinese. Con tutto il rispetto per i fatti riguardanti le vicende di questi giorni, la stampa italiana ci ha abituato a evidenti distorsioni o assenze informative: si vedano i reportage sui conflitti di Gaza che fanno notizia solo per il racconto dei missili lanciati dalla Striscia. Eppure, altrove, si sta manifestando una tendenza differente, persino negli stessi Stati Uniti: si veda come è stato ampiamente trattato il caso della giornalista Shireen Abu Akleh uccisa dall’esercito israeliano, al punto che è stata poi aperta un’inchiesta a riguardo negli stessi Usa. Credo che il punto di svolta sia rappresentato dalla pubblicazione del report di Human Rights Watch sull’apartheid che ha fatto presa sull’opinione pubblica, aprendo un mondo possibile di valutazione finalmente obiettiva della questione israelo-palestinese.
Immagine di copertina di Enric Borràs, Palestina, Check Point (2007). Tratta da Flickr, licenza creative commons.