DIRITTI
Jobs Act del lavoro autonomo
Piccoli passi in avanti e tanti diritti ancora da strappare
Il Disegno di Legge varato dal Consiglio dei Ministri dello scorso giovedì 28 gennaio non è lo «Statuto del lavoro autonomo e professionale». Basta soffermarsi sul suo ambito di applicazione per coglierne la parzialità. A differenza di ciò che si afferma sui media, il Ddl non delinea una disciplina organica del lavoro autonomo, ma prevede solo interventi singoli destinati a una parte di questo variegato mondo: gli iscritti alla gestione separata INPS, che, sulla base degli ultimi dati (senz’altro incompleti), risultano poco più di 220.000. Petizioni di principio a parte, dal Ddl sono di fatto esclusi molti altri lavoratrici/lavoratori autonomi, a partire dai professionisti iscritti alle casse di previdenza private (come avvocati, ingegneri, architetti, farmacisti e geometri) che, secondo le ultime rilevazioni ADEPP, sfiorano la quota di 1,5 milioni.
Analizzando il merito del Ddl, alcuni degli interventi previsti sono positivi e condivisibili, frutto della pressione dei movimenti dei freelance degli ultimi anni, ma non possono che essere un inizio: ci riferiamo alla deducibilità integrale delle spese di formazione (che pure riguarda solo i freelance nel regime fiscale ordinario) e alle misure sulla malattia (l’equiparazione delle terapie domiciliari alla degenza ospedaliera vale solo per le malattie oncologiche). Stesse considerazioni per le misure in materia di previdenza e assistenza, come quella sui congedi parentali, o quella sulla sospensione del pagamento dei contributi previdenziali. In tutti questi casi, però, la platea dei destinatari esclude gli ordinisti.
L’articolato predisposto dal Governo si conclude – oltre che con un II Titolo dedicato al «lavoro agile» del tutto fuori luogo, poiché si occupa dei dipendenti nella grande impresa, nonché ulteriore liberalizzazione del recesso illegittimo da parte del datore – con proposte di carattere generale che in ogni caso non affrontano gli enormi problemi degli autonomi: in primo luogo il gravissimo abbattimento dei redditi (circa il 45% dei lavoratori autonomi faticano a superare 15.000 euro annui), la mancanza di ammortizzatori sociali, una eccessiva e iniqua pressione fiscale e previdenziale a fronte di magre prestazioni sociali. Nulla si fa per affermare il diritto a un equo compenso, che, insieme alla certezza dei pagamenti e al reddito minimo garantito, è misura decisiva per sottrarre gli autonomi dal ricatto del lavoro sottopagato. Sulla certezza dei pagamenti, poi, anziché ipotizzare nuove spese a carico di lavoratrici e lavoratori, oltretutto a favore delle assicurazioni private, sarebbe auspicabile che fosse l’istituzione pubblica a farsi carico dell’eventuale insolvenza del committente. E i rilievi critici potrebbero andare avanti.
No, quello del Governo, non è uno Statuto, e infastidisce il tentativo di volerlo far passare come tale. Lo Statuto che serve è altra cosa: serve una vera estensione universale del welfare e delle tutele; servono correttivi solidaristici al regime previdenziale contributivo; serve una rigorosa progressività fiscale, capace di far pagare di più a chi ha di più; servono diritti nel mercato, indubbiamente, ma anche diritti nel rapporto di lavoro, diritti collettivi alla coalizione e alla contrattazione. Vorremmo un nuovo Statuto dei diritti universali capace di unire e non di dividere: si procede con il Jobs Act del lavoro autonomo quando un altro Jobs Act, tra il maggio 2014 e il marzo del 2015, ha distrutto i diritti del lavoro subordinato e parasubordinato. Serve uno Statuto capace di estirpare la radice amara del lavoro gratuito e in grado di prevedere tutele e garanzie per tutti i soggetti del lavoro precario e intermittente.
Per questo rilanciamo la nostra Carta dei diritti e dei principi del lavoro autonomo e indipendente. E soprattutto rilanciamo la sua implementazione collettiva, da portare avanti presentazione dopo presentazione, città dopo città. Solo una scrittura aperta può mettere in primo piano istanze e diritti all’altezza della sfida.
Seguiremo l’iter parlamentare del Ddl del Governo, tenteremo di contaminarlo e di estenderne il perimetro sia nel merito che nell’ambito di applicazione. Chiediamo subito dunque di essere ricevuti in audizione. E prepariamoci a una grande mobilitazione generale, nella società e presso il Parlamento, che possa sostenere quest’azione.
Vogliamo lo Statuto, sì, proprio quello che non c’è.