OPINIONI

Itsart, non è cultura ma odio di classe

La “Netflix della cultura italiana”, lanciata dal Ministro Dario Franceschini, non è includente e va semplicemente a consolidare privilegi e disparità già esistenti senza essere di alcun aiuto al mondo e alle realtà culturali del nostro paese

«Bisogna restaurare l’odio di classe. Bisogna promuovere la coscienza del proletariato: i padroni ci odiano e non lo nascondono, noi dobbiamo aiutare i proletari ad avere coscienza della propria classe. L´odio deve essere ricambiato».
 
Edoardo Sanguineti, poeta e autore
 

Continui rinvii, dichiarazioni roboanti, nessuna trasparenza rispetto a compensi ad artisti e selezionatori, nessuna informazione disponibile sulle competenze di questi ultimi: così è nata Itsart, il 31 maggio, un anno dopo essere stata lanciata dal tre volte Ministro della Cultura Dario Franceschini come l’ennesima riforma in diretta tv insieme a Fabio Fazio.

Ricevere i comunicati stampa del Ministero è cibarsi di parole vuote, perciò è opportuno ricostruire il contesto. Da fine febbraio 2020 i luoghi della cultura sono stati chiusi a lungo a causa dell’epidemia di Covid-19. Lavoratrici e lavoratori del settore, ridotti alla fame, hanno chiesto ogni giorno un dialogo con il Ministero della Cultura e con quello del Lavoro, per sedersi a un tavolo e cambiare le cose una volta per tutte, a partire dal lavoro mal pagato, in nero, non riconosciuto in termini di tutele perché discontinuo per la maggior parte dei lavoratori.

La critica cinematografica ha un ruolo importante nell’invisibilizzazione delle istanze della categoria, avendo affrontato poco o in modo superficiale le tante questioni sul piatto. Di Itsart, in particolare, si sono occupati in pochi, mentre molti hanno diffuso in maniera totalmente acritica i famosi comunicati del Ministro, che spesso arrivano via e-mail ma non appaiono nemmeno sul sito del Mic, né sui giornali.

Alle richieste di un reddito di continuità e di concertazione i due ministri non hanno quasi mai risposto, e quando l’hanno fatto è stato un comportamento di facciata: sia il nuovo welfare culturale lanciato il 20 maggio, sia Itsart poco dopo, hanno escluso la quasi totalità delle istanze di chi in questo settore lavora. Sono arrivati infine bonus e fondi, ma nessuna riforma strutturale, organica, reale.

(foto di Francesco Pierantoni da commons.wikimedia.org)

Se il nuovo ‘welfare’ dimentica il lavoro nero, il reddito di continuità, il riconoscimento del lavoro di formatori, non prevede il pagamento delle ore di lavoro gratuito (ad esempio le ore che gli attori dedicano alla preparazione per uno spettacolo) e non tiene conto di altre priorità note, Itsart in questo senso è un vero e proprio capolavoro: è esattamente tutto ciò che non dovrebbe essere. Un insulto per la categoria.


 
La cultura in streaming 

Ma torniamo indietro di qualche mese. Sulla possibilità dello streaming della cultura emergono subito opinioni diverse, raccolte in occasione di un pomeriggio di dirette on line moderato per il Forum dell’arte contemporanea italiana da chi scrive con Adriana Polveroni (docente di museologia del contemporaneo all’Accademia di Brera), Maria Giovanna Mancini (storica dell’arte contemporanea) e Lorenzo Balbi (direttore artistico del MAMbo), con contributi di alto valore politico da parte di artisti e operatori culturali.

Se è vero che lo streaming permette di vedere contenuti di genere diverso e in numero maggiore a quanti ne vedremmo uscendo di casa, infatti, è altrettanto vero che per invertire la tendenza la cultura andrebbe anzitutto resa più accessibile a tutti: accessibile dal punto di vista economico, ma anche da quello della fruizione.

On line spesso manca l’approfondimento e incontrare gli autori di persona potendo rivolgere loro delle domande rimane impagabile. Bisognerebbe dunque investire di più nella formazione del pubblico, allocando risorse come chiede peraltro l’Europa.

C’è chi ritiene che presentare le proprie opere in streaming significhi arrendersi allo strapotere delle piattaforme: il regista Romeo Castellucci non sarà su Itsart con i suoi spettacoli, perché trova che rappresenti una sconfitta per gli eventi in presenza e che sia «impossibile fare teatro attraverso uno schermo». 

Itsart ha un ufficio stampa che snobba i giornalisti, pertanto è impossibile ottenere rassicurazioni rispetto a questioni specifiche. Di fatto non sappiamo come siano stati scelti i selezionatori, ma sappiamo che almeno uno di loro nell’area cinema non ha un curriculum adeguato.

Come se non esistessero centinaia di film programmers che conoscono i contenuti disponibili al momento, più tutti gli altri professionisti del caso. I nomi dei selezionatori chiamati non sono mai stati resi pubblici, perciò i dubbi non fanno che crescere, legittimamente.

E dopo un anno e mezzo di esclusione i lavoratori avrebbero il diritto di sapere come relazionarsi con chi gestisce la piattaforma. Alcuni attori riferiscono di essere stati contattati dai direttori dei teatri per cedere un loro spettacolo: il teatro svolgerebbe dunque il ruolo di intermediario trattenendo una quota, quando i lavoratori ripetono da anni che sono proprio le intermediazioni a impoverire le loro paghe. 

Romeo Castellucci (foto di Lorenzo Gaudenzi da commons.wikimedia.org)

Come persone offese, molti lavoratori faticano a esprimersi a riguardo, perché potrebbe significare altre esclusioni da parte dei suddetti direttori o da parte delle istituzioni che non ammettano il dissenso (comuni, regioni, ministero finanziano le arti, come previsto dalla Costituzione). Per questo sarebbe necessario l’intervento della critica, che invece teme le stesse reazioni. (Smentiamola: non è così). Voci dissonanti vengono silenziate. E grazie a questo silenzio, la trasparenza su Itsart continua a mancare: senza bando è nata e senza rassicurazioni al pubblico e alla stampa sta rimanendo.

Una prospettiva l’ha indicata l’artista Francesco Vezzoli: «La politica deve mettere in atto una strategia di forza nei confronti dei finanziatori, soprattutto quelli privati, che potrebbero aiutare lo stato a investire in progetti di rilievo» e solo in secondo luogo pensare a soluzioni come Itsart.

Secondo altri, tra cui Filippo Fonsatti, presidente di Federvivo, quanto stanziato per questa impresa finora non è sufficiente. «Senza investimenti pubblici di centinaia di milioni di euro, stiamo parlando del nulla», ha detto.

Il rischio è che possa durare poco, come successe al portale VeryBello, nato per promuovere gli eventi culturali italiani nel periodo dell’Expo di Milano del 2015. Un altro disastro annunciato. Chili, la piattaforma scelta dal Ministro per dare vita a Itsart (fondata tra gli altri da Stefano Parisi, che si candidò a sindaco di Milano con le destre), è in perdita, mentre ci sono altri canali che già programmano cultura e che potevano risultare adatti: Sky Arte, Nexo+, Arte TV, Audiovisiva.

Oltre a Rai Cultura, che si può vedere anche via Raiplay, ma che meriterebbe un discorso a parte, perché deve restare pubblica, mentre il Ministro pretende che Itsart abbia dei ricavi – anche se non dice quali per i performer. E i musei le cui collezioni o mostre temporanee appaiono su Itsart? Stesso problema, medesima mancanza di interlocuzione e trasparenza. Architettura e design sono poi una voce minoritaria, nonostante l’Italia produca opere eccellenti. Lo stesso vale per i compositori presenti: zero italiani.

E dato che è accessibile solo in Italia e Regno Unito ci si aspetterebbe fosse stato fatto il classico studio di settore, valutando esperienze affini.

Nessuno l’ha fatto – tantomeno la critica – ma in Inghilterra è nata nel 2016 Marquee.tv, che il “Financial Times” ha definito la «Netflix for arts & culture fans”» E ITsART,  dal nome inglese, propone proprio «lo spettacolo e la cultura italiana, live, registrata, gratis e a pagamento, in Italia e nel mondo”» Se per Franceschini doveva essere una Netflix come ha detto a Fabio Fazio e a milioni di ascoltatori, per Giorgio Tacchia, Ceo di Chili che l’ha realizzata a livello tecnico, è invece «la Disney della cultura e dell’arte» (Tacchia ha lavorato per Disney).

I giovani non sembrano essere i benvenuti, dato che nel comunicato stampa di lancio non si legge alcun evento pensato per loro. Itsart esordisce invece con un nome noto come Claudio Baglioni, protagonista di un concerto acquistabile al costo di 12,90 euro, non proprio alla portata di chiunque. La maggior parte dei film non sono recenti e nella sezione “cinema italiano” non c’è nemmeno una regista donna.

Solo cercando meglio si scova Nico di Susanna Nicchiarelli, oltre a una sezione chiamata Ritratti di donne, non così conosciute al grande pubblico. Tutte bianche, a eccezione della curatrice Johanne Affricot. Comunque, questi contributi durano solo due minuti, non sufficienti se si vuole raccontare l’Italia contemporanea, sempre più meticcia. Di certo non c’è il rischio di tokenismo.


 
Una piattaforma per ricchi
 

I contenuti sono oltre settecento, ma pochi sono esclusivi e, tra questi ultimi, non c’è nessun nome conosciuto alle masse. Gli altri contenuti, dunque, si trovano anche altrove e alcuni addirittura in modalità gratuita. Alcuni contenuti sono gratuiti anche qui, ma bisogna sorbirsi la pubblicità. Tra i film, alcuni si trovano gratuitamente su altri siti legali. Bene riscoprire i capolavori del passato, ma si dovrebbe sapere che per molti un film del passato è solo un film ‘vecchio’: bisogna fare di più se si intende promuovere l’educazione all’immagine, ma forse questo non è un obiettivo.

E non c’è un’app collegata, quando ormai sappiamo che molti guardano film e altri contenuti, indipendentemente dalla durata, preferendo usare lo smartphone. Alcuni prezzi non sono ancora disponibili. Non è possibile usufruire di una prova gratuita, né di una scontistica di lancio.

E poi, di nuovo, il tema del riconoscimento del lavoro: i performer non godono del trattamento economico dei propri diritti, come ha denunciato (parlando a tutte le piattaforme esistenti) Artisti 7607, organismo di gestione collettiva dei diritti connessi al diritto d’autore, in una conferenza stampa con Valerio Mastandrea, Elio Germano, Carmen Giardina, Michele Riondino, Kasia Smutniak, Corrado Guzzanti, Claudio Santamaria e molti altri.

Non proprio due scappati di casa e questo provoca una distanza tra artisti e governo, pericolosa dal momento che si attendono i decreti attuativi del nuovo welfare culturale appena lanciato e in parlamento si inizia finalmente a parlare di una proposta di legge per il riconoscimento della professione di artista. Non ci sono produzioni originali che aiuterebbero la ripresa del settore, ma solo contenuti distribuiti.

Doveva essere – stando a un comunicato stampa di Itsart – «un’innovativa occasione di contatto tra produttori e pubblico, tra artisti e spettatori», ma così non è.

Qualcuno sostiene che sia sbagliato contrastarla una volta nata, ma Itsart non è uno spazio di libertà, non rispetta chi lavora e non rende giustizia all’Italia che fa cultura. Servono altri spazi, soprattutto fisici. Con Itsart non abbiamo imparato niente e di sicuro il Ministro non ha imparato niente. Peggio ancora, nemmeno con il nuovo welfare culturale annunciato pochi giorni fa esistono garanzie contro il lavoro nero e malpagato.

Odiare Itsart è odio di classe, anche se spesso non esternato. I padroni ci odiano e l´odio deve essere ricambiato, diceva Edoardo Sanguineti. Persino qualche artista con il portafoglio pieno condivide le ragioni di quest’odio – e prima o poi dovremo occuparcene.

Immagine di copertina di Ilaria Turini