approfondimenti
ITALIA
Istituzioni del Comune: soggettività e potenza
Pubblichiamo un estratto da “Governo e potere dei “commons” ai tempi del capitalismo cognitivo”, di Pierluigi Vattimo, pubblicato quest’anno da La scuola di Pitagora editrice, che si concentra sui concetti di povertà e di amore, con una riflessione sui beni comuni di Napoli
Pubblichiamo un intervento di Pierluigi Vattimo, uno tra gli osservatori più accorti dei beni comuni intesi come campo di ricerca: un terreno, peraltro, che a Pierluigi risulta familiare, poiché lo pratica da tempo come attivista. Il testo, estratto da Governo e potere dei “commons” ai tempi del capitalismo cognitivo, pubblicato quest’anno presso La scuola di Pitagora editrice, si concentra sui concetti di povertà e di amore, e svolge una riflessione in riferimento ai beni comuni di Napoli come a un contesto socialmente autonomo, o comunque definito quanto basta per aprire possibilità di ricerca e di orizzonti — e ciò sebbene i beni comuni siano concepiti nel testo, ovviamente, in relazione con il resto della realtà metropolitana, con i quartieri e con chi li abita. Si tratta di un intervento interessante da approfondire, tra le altre cose, perché restituisce un quadro delle comunità dei beni comuni di Napoli come soggettività dotate di caratteristiche definibili e di un’agentività specifica.
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Quando i commoners a Napoli si sono messi a scrivere la dichiarazione di uso civico e collettivo dei commons urbani emergenti, lo hanno fatto a partire da una consapevolezza, quella, di costruire Istituzioni del Comune allo scopo di dotarsi di uno spazio dove affrontare, cooperando, le “difficoltà di vivere il presente”. E quando si parla di difficoltà di vivere il presente a Napoli – così come nei tanti Sud dell’Europa, e del mondo, che, occorre ribadire, si ritrovano sempre più anche nelle estreme periferie delle grandi capitali cosiddette ricche del Nord – non si fa riferimento ad una astratta situazione di difficoltà socioeconomica, si tratta di uomini, donne e bambini che quotidianamente devono ingegnarsi per provare ad affermare un’esistenza dignitosa.
Dai dati raccolti nel corso del mio lavoro di ricerca emerge, infatti, che i commoners sono, nella quasi totali dei casi, i primi a vivere quella che definisco essere una condizione di nobile povertà, volendo con questo concetto richiamare, consapevolmente, la visione positiva della povertà descritta da M. Hardt e A. Negri (2009) secondo i quali oggi: “la povertà della moltitudine non va intesa come uno stato di miseria o di deprivazione, e neppure come una specie di mancanza, essa invece denota la produzione di un genere di soggettività che si afferma in corpo politico plurale e aperto, opposto sia all’individualismo sia all’unitario ed esclusivo corpo sociale dei proletari. I poveri, in altre parole, non sono coloro che non hanno nulla, ma la grande molteplicità di coloro che stanno all’interno della produzione sociale indipendentemente dall’ordine della proprietà” (p. 50-51).
La povertà è da sempre, come continuano ad osservare M. Hardt e A. Negri, una rappresentazione della “minaccia diretta rivolta contro la proprietà” (ibidem, p. 58), soprattutto perché la condizione di povertà contiene in sé il potere di destabilizzare e di rovesciare la repubblica della proprietà per come questa si è consolidata nella storia moderna, ma anche perché non possedendo nulla, i poveri “potrebbero anche essere giustificati a rubare, come il nobile Jean Valjean” (ibidem).
Già A. Thiers, primo presidente della terza repubblica francese, nel 1850 in uno dei suoi più celebri interventi all’Assemblea Nazionale dichiara che, la moltitudine (facendo esplicito riferimento così ai poveri) è pericolosa “è la vile moltitudine e non il popolo che vogliamo escludere” (citato in Schnapp e Tiews, 2006, p. 71) e questa esclusione va garantita per legge, dal momento che i poveri sono mobili e dunque è impossibili da fissare come un oggetto sottomesso al potere.
Queste affermazioni per i teorici del pensiero neoperaista, secondo i quali il concetto di moltitudine si accomuna a quello di povertà, vanno lette in controluce o comunque come sintomi di un’intuizione relativa alla potenza dei poveri. Quello che conta è che nella costruzione storica del pensiero dominante vi è sempre stata una certa attenzione rivolta verso la minaccia che la povertà rappresenta alla proprietà privata, ancora M. Hardt e A. Negri osservano, a tal proposito, che non è quindi un caso se “Nel corso delle grandi rivoluzioni borghesi del XVII e XVIII secolo, il concetto di moltitudine è espulso dal lessico politico e giuridico. Anche grazie a questa rimozione la concezione della repubblica (res publica piuttosto che res communis) è stata caratterizzata come uno strumento per affermare e salvaguardare la proprietà.” (Hardt e Negri, 2009, p. 61). La proprietà è in definitiva, dal punto di vista dei teorici del pensiero neoperaista, la chiave della definizione della repubblica e del popolo, “dal momento che entrambi sono stati confezionati come concetti universali, fondati cioè sul presupposto dell’esclusione della moltitudine dei poveri” (ibidem).
«Quello che conta è che nella costruzione storica del pensiero dominante vi è sempre stata una certa attenzione rivolta verso la minaccia che la povertà rappresenta alla proprietà privata»
Più in generale, i discorsi sulla povertà (la parola “discorso” secondo la tesi di M. Fama è utilizzata nell’accezione foucaultiana del termine, Foucault, 2009; 2013), suggerisce M. Fama (2017), andrebbero impostati in modo tale da riuscire a decostruire il concetto stesso di povertà, al fine di giungere così ad una critica delle politiche attraverso le quali sono state trattate le questioni ad essa ascritte. M. Fama per dare consistenza alla sua tesi arriva addirittura a teorizzare l’inesistenza stessa della povertà “in questo modo avremmo a che fare con uno spazio vuoto da riempire di volta in volta; ci potremmo domandare in che momento, riflettendo quale razionalità e sullo sfondo di quali processi si è ad un certo punto cominciato ad avere l’esigenza di dare un nome a questa cosa che immaginiamo essere la povertà, di renderla un oggetto di sapere e di concepirla come qualcosa di cui i governanti dovranno farsi necessariamente carico; potremmo cercare […] di far emergere il modo in cui una serie di discorsi, all’interno di determinati regimi di verità, hanno conformato delle discipline […] come gli ospedali, le workhouse, ecc – attraverso cui la povertà è stata prima definita, poi disciplinata, regolata ed infine governamentalizzata” (ibidem, p. 70-71).
Dal mio punto di vista, e sull’onda dei dati raccolti sui commoners partenopei, credo fermamente che il punto di vista della povertà, che sul piano teorico ci viene offerto dal pensiero neoperaista, sia quello da assumere per dare un significante concreto all’idea di nobile povertà che si definisce nel cotesto dei commons a Napoli.
La grande maggioranza degli attori coinvolti nei processi di commoning a Napoli è infatti riconducibile ad una condizione di povertà (assoluta o relativa poco importa); con riferimento alla particolare esperienza denominata Skipa, per esempio, ho calcolato che il reddito medio per nucleo abitativo mensile non è superiore alle ottocento euro; in contesti come lo Scugnizzo, Santa Fede Liberata e l’ex Opg il dato si riduce, ed il reddito medio pro capite si aggira intorno alle cinquecento euro mensili, ma questa condizione soggettiva non determina, in modo definitivo, una considerazione di sé stessi in quanto poveri da parte dei commoners.
Alla domanda, infatti, “come descriverebbe la sua condizione socioeconomica entro lo spazio che vive?”, una parte consistente degli intervistati, 86%, circa, ha risposto, per così dire, ribaltando l’osservazione: “povero rispetto a cosa?”. La percezione che, sostanzialmente, hanno della propria condizione socioeconomica i commoners non coincide infatti per nulla con la definizione di povertà contemporanea (Non è facile definire la povertà in senso assoluto, infatti, per ogni tipologia di famiglia esiste una diversa soglia di povertà. La soglia assoluta di povertà nel 2018, l’ultima disponibile, calcolata dall’ISTAT era di circa 1000 euro al mese per una famiglia di due persone).
Certo si ha la consapevolezza di non navigare nell’oro, ma si ha allo stesso tempo la convinzione che solo continuando ad alimentare il percorso di commoning entro il quale si è impegnati attivamente ad operare che si ci riesce a percepire ricchi rispetto al contesto che abitano. Ai commoners non interessa possedere titoli di investimento redditizi in qualche banca, o di possedere un’automobile ci categoria lusso, o di non essere titolari di un conto corrente bancario.
Questa condizione “di mancanza” non impedisce, anzi stimola, l’impegno a costruire Istituzioni del Comune, la ricchezza per i commoners è percepita rispetto ad un contesto preciso di riferimento che produce e riproduce ricchezza sociale da condividere allo scopo di riuscire ad affermare il diritto ad avere una casa, fuori dai vincoli del mercato, così come il diritto ad un’esistenza dignitosa fuori dal modo di produzione capitalistico. Ed è per questa ragione specifica che, per esempio, l’impegno maggiore che i commoners assumo, con particolare riguardo rispetto all’ex Scuola Skipa, è sempre stato quello di promuovere la cosiddetta campagna magnammece ‘o pesone (che tradotto letteralmente dal napoletano all’italiano vuol dire: mangiamoci l’affitto).
Ma, come spesso accade, la realtà e molto più complessa di quanto appare, infatti, per la verità, il numero delle case occupate, a Napoli, è molto più consistente di quello che la campagna magnammece ‘o pesone riesce a rappresentare.
Dall’ultimo report della municipalizzata Napoli servizi, aggiornato al luglio 2020, da questo punto di vista, si evince, infatti una realtà difficile da quantificare; con riferimento alla gestione del solo patrimonio immobiliare comunale destinato all’emergenza abitativa, si calcola che sono circa 2.600 le case del Comune occupate abusivamente su oltre 24mila alloggi, e che circa la metà degli inquilini è morosa o irregolare.
In definitiva, dalle interviste da me raccolte viene fuori un dato, quello che la condizione di povertà degli abitanti dei commons urbani emergenti non è assolutamente percepita come tale, anzi è proprio questa condizione di povertà che determina la possibilità di godere di una certa ricchezza di agire liberamente dentro e contro il modo di produzione capitalistico allo scopo di affermarne così altri modelli esistenziali, basati, perlopiù, sul principio del Comune come modo di produzione.
L’osservazione di un reale contesto di comunità fondata sul Comune come modo di produzione, come è quello partenopeo, ci conduce a chiederci piuttosto: “Chi è il povero?”.
Il migrante che ha offerto la sua attività per ricostruire un paese ormai svuotato della sua anima, come era Riace prima dell’arrivo stesso dei migranti? Oppure il giovane impegnato nella ricerca di un finanziamento milionario per implementare la sua applicazione social? Chi decide quale delle due scelte sia legittima rispetto ad un agire sociale?
La povertà, seguendo la rilettura che di questo concetto hanno operato M. Hardt e A. Negri, libera le eccedenze, ed il soggetto povero, proprio perché percepito tale, non ha nulla da perdere se posto davanti alla possibilità di operare in senso di un cambiamento radicale. Il povero non è preoccupato se, per esempio, si debba prendere una decisione in relazione all’attribuzione dei diritti di proprietà. Chi non è proprietario di nulla, non ha da tutelare nessun interesse esclusivo rispetto ad una potenziale posizione di rendita realizzata dal diritto proprietario di un bene. Per K. Marx, in tal senso, va ricordato, infatti, che la miscela esplosiva che si compone dalla connessione tra povertà e potenza rappresenta la minaccia mortale per la proprietà privata (Dussel, 1999).
A questo punto abbiamo la necessità di capire che cosa è diventata oggi la povertà e soprattutto di capire chi sono attualmente i poveri. Dal mio punto di vista, infatti, questo approccio produce il potente effetto di mettere in discussione le distinzioni di classe, tradizionali, fornendoci una prospettiva sulla povertà che ci consente di considerare tale condizione non in funzione della “mancanza di”, ma della “possibilità di” farsi attori protagonisti dei cambiamenti possibili, anche perché i poveri, così come i migranti, o i precari in generale, sono sempre più esclusi dai processi decisionali istituzionali, eppure, nel loro più totale atto di produrre valore, interni ai ritmi globali della produzione della ricchezza.
«Ma ciò che più conta è che dalla condizione di povertà emerge l’amore: che viene fuori dalla solidarietà, dalla cura verso gli altri, dalla costituzione di comunità e capacità di cooperare; sono queste attitudini alla vita, per i poveri, delle vere e proprie condizioni per la sopravvivenza»
Purtroppo, le statistiche economiche sulla povertà possono solo continuare a raccontarci la povertà come una condizione negativa, nulla ci dicono rispetto alla capacità di produrre innovazione, che, come rilevato da W. Benjamin (2003), ha la capacità di far nascere dalle ceneri delle rovine del passato una nuova e positiva forma istituzionale, “a che cosa è mai indotto il barbaro dalla povertà di esperienza? È indotto a ricominciare daccapo; a iniziare dal nuovo, a farcela con il poco, a costruire a partire dal poco ed inoltre a non guardare né a destra né a sinistra” (p. 540).
Ma ciò che più conta è che dalla condizione di povertà emerge l’amore: che viene fuori dalla solidarietà, dalla cura verso gli altri, dalla costituzione di comunità e capacità di cooperare; sono queste attitudini alla vita, per i poveri, delle vere e proprie condizioni per la sopravvivenza. Secondo il pensiero neoperaista, nonostante la povertà sia continuamente definita in funzione della privazione materiale di un bene o un servizio, i poveri essenzialmente non sono mai ridotti allo stato di nuda vita, essi sono sempre dotati di una qualche inventiva, di una qualche capacità di produrre. Come già in parte affermato, l’essenza della povertà non è la mancanza, ma il potere. “quando ci uniamo insieme, quando formiamo un corpo comune che è più potente di ciascun corpo preso singolarmente stiamo costruendo una nuova soggettività comune. Il punto di partenza che le pratiche dei poveri ci permettono di scoprire è che l’amore è un processo di produzione del comune di produzione di soggettività. Questo processo non è soltanto un mezzo per produrre dei beni materiali o altre necessità, ma un fine in sé” (Hardt e Negri, 2009, p.185).
L’amore è dunque il concetto che ci offrirà la possibilità di comprendere la forza e la produttività di cui i commons sono carichi. Come già osservato, ma vale la pena ribadirlo, “L’amore è il modo per sfuggire alla solitudine dell’individualismo ma non, come il discorso dominante ci suggerisce, per isolarci di nuovo nella vita privata, in coppia o in famiglia. Per apprezzare la valenza politica dell’amore al centro della produzione del comune e della produzione sociale dobbiamo rompere con le principali accezioni del termine ricorrendo ad alcune antiche figure dell’amore” (ibidem, p.11).
Sono sempre di più coloro i quali sostengono che di amore debbano essere i poeti a parlare, mentre i più dovrebbero farsi avvolgere dall’abbraccio che la poesia è capace di scatenare. Io credo invece che l’amore sia un concetto filosoficamente, politicamente ed in misura anche maggiore, economicamente, essenziale; pertanto, non più demandabile solo ai poeti.
Il fatto di aver trascurato l’amore è una delle cause principali della debolezza del pensiero contemporaneo. È un nonsense lasciare l’amore ai preti, ai poeti e agli psicoanalisti. È quindi necessario sgomberato il campo dai fraintendimenti che hanno, purtroppo, squalificato l’amore nei confronti della filosofia e della politica e, quindi, ridefinire il concetto in modo da poterlo mettere in evidenza, nella giusta maniera, al fine di scoprire che gli economisti, malgrado il loro algido rigore intellettuale, spesso parlano di amore. E se non fossero così inibiti potrebbero insegnarci molto a riguardo.
Nella fase storica attuale, che possiamo definire, della produzione biopolitica, la ricchezza sociale è inseparabile dalla produzione, e questa, inoltre, non è esterna alla produzione economica; la produzione economica non è, infatti, confinata alla sfera del privato o alla sfera della riproduzione. L’amore, in quanto generatore delle reti affettive, degli schemi della cooperazione e della soggettività è di fatti una potenza economica. Questo modo di concepire l’amore definisce quindi un’azione, un evento biopolitico, capace di pianificazione e realizzazione per volontà comune fra le singolarità; svanisce l’amore esclusivamente spontaneo o agito passivamente entro un evento che pare giungere misticamente da chissà dove.
Questa forza produttiva dell’amore è in primo luogo forza produttiva di un nuovo essere “quando ci impegniamo nella produzione di soggettività, che è un atto d’amore, non creiamo semplicemente nuovi oggetti o nuovi soggetti nel mondo. Stiamo producendo un nuovo mondo, una nuova socialità” (ibidem, p. 185).
«L’amore è corrotto quando viene sottomesso all’identità e, cioè, quando diventa, giustificato dall’angusta interpretazione del dettato evangelico che invita ad amare il prossimo, fine a sé stesso»
Questa potenza ontologica ha rappresentato un campo di battaglia per molti filosofi (Vattimo, 1981). Spinoza, per esempio, ci spiega che l’amore con la sua abituale precisione geometrica, è gioia, vale a dire consapevolezza della crescita della potenza di pensare e di agire unita alla consapevolezza di una causa esterna Comune (Negri, 2006).
Naturalmente anche l’amore è caratterizzato da ambivalenze ed è suscettibile di corruzione, noi conosciamo benissimo questo aspetto della vicenda, dal momento che è proprio questo il tipo di amore che viene fatto passare nei discorsi quotidiani, cioè quello più carico di corruzione. L’amore è corrotto quando viene sottomesso all’identità e, cioè, quando diventa, giustificato dall’angusta interpretazione del dettato evangelico che invita ad amare il prossimo, fine a sé stesso.
Questo finto amore può al massimo essere amore dell’immediatamente più prossimo, di chi è più simile a noi. In questo senso va inteso l’amore in famiglia, che, dal momento in cui si consuma esclusivamente nelle mura domestiche, esclude chi è fuori, è rappresentativo di una delle forme più potenti di amore identitario. Ma ancora, l’amore per la razza, o per il patriottismo o la nazione, sono altri esempi di pressioni esercitate sull’amore affinché questo si proietti verso chi è simile a noi, e quindi di nuovo si assiste ad una esclusione di chi è fuori, di chi viene percepito in modo diverso.
Da questo punto di vista il nazionalismo, il populismo ed i vari fondamentalismi religiosi non sono fondati, come si è abituati a credere, sull’odio ma sull’amore, una forma orripilante e corrotta di amore. La strategia per combattere queste distorsioni è quella di far prevalere una interpretazione espansiva del dettato evangelico dell’amore del prossimo. Il prossimo non va inteso dunque come colui più vicino o più simile a noi, ma al contrario come l’altro: “il prossimo è quindi solo […] un vicario […] l’amore […] è in verità indirizzato all’insieme di tutti coloro (uomini e cose) che potrebbero occupare questo posto, è indirizzato cioè in definitiva a tutto il mondo” (Rosenzweig, 1998, p. 234-235).
L’amore è corrotto anche quando è chiuso in un processo di unificazione attraverso cui tutti tentiamo a somigliare, fino a sembrare identici. In questo senso vi è da smontare il simulacro dominante dell’amore romantico, quotidianamente venduto da Hollywood, quell’amore che si manifesta nell’unità coatta della coppia. Il matrimonio e la famiglia stringono la coppia, la conseguenza è la corruzione del Comune.
Per dare una giusta conclusione, se pur parziale, alle osservazioni sull’amore, mi farò aiutare da H. Arendt (1993), la quale osservando la necessità che abbiamo di condividere con altri un mondo comune ci insegna: i) che se non fossimo una molteplicità di singolarità non avremmo alcun bisogno di comunicare e di interagire; e ii) che mentre l’uno se ne sta diametralmente opposto ai molti, il comune è costitutivamente compatibile con i molti.
La costituzione di un mondo comune, da questa prospettiva di analisi, è frutto, quindi, dell’azione delle singolarità. L’amore è dunque incontro e sperimentazione tra singolarità nel Comune che produce nuovo Comune e nuove singolarità. Occorre, quindi, andare oltre il potere costituente di cui l’amore è portatore ed enfatizzare anche un aspetto più propriamente politico dell’amore, cioè il potere di composizione che questo detiene. L’amore compone le singolarità come un tema musicale, non come una unità, ma come una rete di relazioni sociali. La riunificazione dell’aspetto costituente con quello della composizione delle singolarità è fondamentale per intendere l’amore come atto materiale e politico.
«Il movimento dei commons partenopeo dimostra […] di portare avanti questa marcia per la libertà attraverso il consolidamento di istituzioni sociali e politiche del Comune»
L’amore va quindi assunto, secondo M. Hardt e A. Negri, come motore dell’associazione e come potenza del Comune in un duplice senso: “l’amore è sia la potenza che costituisce il comune sia la potenza esercitata dal comune.” (2009, p. 193). Ma ancora, è il movimento che conduce alla libertà, entro il quale “la composizione delle singolarità non approda a un’unità compatta e a un’identità senza differenza, ma all’autonomia di ogni singolo partecipante alla rete della comunicazione e della cooperazione” (ibidem). Solo l’amore possiede la potenza di liberare i poveri da una condizione miserevole e di solitudine.
Il movimento dei commons partenopeo dimostra, in questo senso, di portare avanti questa marcia per la libertà attraverso il consolidamento di istituzioni sociali e politiche del Comune.
Pubblicato originariamente su commonsnapoli. Ringraziamo l’autore per la gentile concessione
Immagine di copertina e nell’articolo da commons napoli