MONDO
«Israele è un regime d’apartheid». Il report della Ong B’Tselem
Cambio di paradigma della più importante organizzazione israeliana di tutela dei diritti umani, B’Tselem: una prospettiva che apre nuovi percorsi di lotta e di solidarietà internazionale per la popolazione palestinese
«Israele non è una democrazia con un’occupazione militare temporanea adiacente ad essa. È un unico regime tra il fiume Giordano e il Mare Mediterraneo, e dobbiamo considerarlo per quello che è: un regime di apartheid» Un’affermazione del genere, sicuramente forte e acuta, diventa un giro di boa fondamentale quando viene espressa con rigore giuridico dalla più importante Ong israeliana di tutela dei diritti umani, cioè B’Tselem. Si può ipotizzare che sarà un giro di boa non privo conseguenze nel breve e medio periodo.
B’Tselem è una Ong israeliana nata nel 1989, in piena Prima Intifada e focalizzata sulla denuncia di violazioni a diritti umani compiute da Israele nei Territori Occupati Palestinesi. Svolge un lavoro fondamentale in tante zone della Cisgiordania, dalla difesa legale alla raccolta di testimonianze e denunce, dalla mappatura di checkpoint e sistemi di chiusura, fino alla formazione all’utilizzo di mezzi multimediali come strumento di difesa. Per il suo lavoro è ovviamente sempre sottoposta a gogna mediatica in Israele, ma proprio per questo cerca di essere totalmente libera da pregiudizi, indipendente e rigorosa nella scelta delle sue posizioni pubbliche.
Il 12 gennaio ha pubblicato un report, in cui analizza in modo dettagliato il “sistema” costruito negli anni dallo stato israeliano. Il documento dimostra come Israele non possa essere considerato un paese democratico ma uno in cui vige un apartheid di fatto finalizzato alla «supremazia ebraica». Tale regime non è plateale come quello sudafricano – non ci sono panchine solo per ebrei – ma altrettanto pervasivo della vita delle persone che vivono «dal Giordano al Mediterraneo».
La definizione dell’ambito geografico è fondamentale per misurare l’entità della passo compiuto da BTselem, perché implica che la condizione di apartheid non è solo un “accidente temporale” dovuto all’occupazione militare in Cisgiordania, ma è l’essenza stessa dello stato di Israele, che si manifesta in forme differenti a seconda di dove ci si trova rispetto alla Linea Verde, cioè la linea che demarcava i confini tra Israele e Cisgiordania prima della guerra del 1967.
Orly Noy, giornalista del portale indipendente 972mag.com e membro del board di B’Tselem scrive che “apartheid” è «il termine da usare perché è la descrizione di un regime con chiare caratteristiche, che ha come principio organizzativo promuovere e perpetuare la superiorità di un gruppo sull’altro. […] Apartheid è la divisione di esseri umani che vivono sotto lo stesso regime in rigide gerarchie che regolano la distribuzione di risorse pubbliche e la garanzia – o la negazione – di diritti. Israele non avrà panchine solo per ebrei, ma ha strade solo per ebrei in luoghi come Hebron. Questa logica organizzativa ha creato una realtà in cui gli ebrei israeliani godono di uno spazio contiguo di libertà di movimento su entrambi i lati della Linea Verde – con l’eccezione della prigione ad aria aperta creata per i palestinesi a Gaza. La stessa logica intrappola invece i palestinesi in sottocategorie di Area A, B, e C in Cisgiordania, Gerusalemme Est, Gaza e il così chiamato “Israele vero e proprio”».
Foto di Dennis Jarvis da Flickr
Ancora Noy dice che la posizione di B’Tselem non cerca di cancellare le differenze esistenti tra le realtà della vita in Cisgiordania, Gaza Gerusalemme Est e le città palestinesi dentro Israele. Al contrario «cerca di collocarle nel contesto più ampio che Israele cerca di nascondere: in tutti questi luoghi Israele è il sovrano de facto e in ciascuno di questi, in varie forme, impone un regime di supremazia ebraica». Nel paper infatti viene ribadito che «lo strumento chiave che Israele utilizza per implementare il principio della supremazia ebraica è la costruzione dello spazio, dal punto di vista geografico, demografico e politico».
B’Tselem individua quattro aree nelle quali si incardina il sistema di apartheid: la proprietà della terra, la partecipazione politica, la cittadinanza e la libertà di movimento. Per ciascuna di esse effettua una attenta analisi che si muove in due linee temporali. Include leggi o giurisprudenza recente come la “legge dello stato nazione”, che discrimina fortemente la popolazione palestinese che vive in Israele, ma anche esamina fatti storicamente caratterizzanti lo stato sionista, quali la sottrazione sistematica della terra alla popolazione non ebraica.
Il report di B’Tselem determina un vero e proprio cambio di paradigma, è una lente di lettura della realtà radicalmente differente che ovviamente sta producendo l’eco politico e mediatico che ci si poteva aspettare, a diversi livelli. Proviamo a immaginare una serie di conseguenze politiche nel breve e medio termine che verranno prodotte dal documento.
Per quanto riguarda Israele, la conseguenza più immediata è una forte messa in discussione della narrazione della sinistra sionista (coagulata attorno alla coalizione Peace Now), che ha sempre criticato l’occupazione come un fatto temporaneo che “corrompeva” uno Stato invece democratico fondato su valori e ideali sani. In questa lettura eliminare le colonie in West Bank sarebbe sufficiente a ritornare ai tempi antichi e ritrovare la supposta democraticità dello stato sionista.
Da parte palestinese il posizionamento di B’Tselem determina un significativo sostegno a chi ormai da tempo riconosce l’inadeguatezza di una lotta incardinata su rivendicazioni statali/nazionalistiche. Se l’apartheid è ovunque, la lotta non deve avere frontiere né crearne di nuove ma essere a tutto campo perché il processo di liberazione sia reale. Non dimentichiamo che B’Tselem gode di notevole stima da parte della società civile palestinese grazie al suo lavoro sul campo: questo suo posizionamento non passerà inosservato.
Infine questo cambio di paradigma determina conseguenze importanti dal punto di vista internazionale. Anzitutto automaticamente è un sostegno alla campagna Bds (Boycott Disinvestment and Sanctions), che si è sempre fondata su una lettura della situazione in Palestina/Israele basata sull’unicum tra il Mediterraneo e il Giordano e che per aver usato la parola boicottaggio e apartheid è sempre stata oggetto di attacchi in ogni angolo del mondo.
In secondo luogo impone degli spunti di riflessione ai soggetti politici esterni ma coinvolti nel conflitto. Se Israele è uno stato di apartheid, perché non si agisce come si fece con il Sudafrica? L’Unione Europea farà qualche mossa in merito o ancora una volta vedrà far prevalere gli interessi economici? Sarà interessante misurare l’impatto di questa posizione negli ambienti liberal degli Stati Uniti e in Nord Europa nei quali la ong israeliana gode di stima diffusa.
Non da ultimo il documento dell’Ong israeliana potrebbe aiutare anche alcuni percorsi di solidarietà a “svecchiarsi” e immaginare nuove prospettive di supporto politico.
Di certo il percorso di liberazione del popolo palestinese dovrà essere scelto e autodeterminato dai soggetti vittime dell’oppressione, tuttavia scegliere quale narrazione dare al nostro sostegno, quali relazioni intrecciare e in quale prospettiva dipende da noi e dalla lettura che diamo della situazione sul campo.
Rimane l’amarezza per la lettura del conflitto da parte dei media italiani. A parte “il Manifesto” nessuno ne ha dato notizia, mentre in altri paesi europei è stata ripresa e discussa ovunque. Forse siamo troppo impegnati a parlare della “distribuzione modello” dei vaccini Covid-19 in Israele, peccato che quest’ultima non coinvolga la popolazione palestinese e sia pertanto un’ulteriore conferma dello stato di apartheid denunciato da B’Tselem.
Immagine di copertina di wanderlasss da Flickr