ITALIA
Interrogativi, riflessioni, scambio di idee in vista dello Sciopero femminista globale dell’8 marzo
Pubblichiamo un contributo di Lea Melandri, un intervento durante un’assemblea pubblica organizzata da Non una di meno Milano presso la Casa delle donne
«Il tema su cui desidero porre l’attenzione è cosa intendiamo per “fare politica” e, in particolare, come affrontare lo sciopero dell’8 marzo, inteso come “una giornata senza di noi», sovvertimento di quell’ordine dato come “naturale”, che ha visto per secoli le donne custodi della famiglia, della continuità della specie, e oggi sovraccaricate di un doppio lavoro, fuori e dentro la casa.
So che ognuna di noi ha altri luoghi, realtà collettive, dove si possono fare analisi, approfondimenti, studi –penso per esempio, nel mio caso, ai seminari “Il corpo e la polis” che facciamo da anni alla Libera Università delle Donne-, ma forse si potrebbe dare a queste riflessioni, che avvengono “a lato”, maggiore circolazione, capire che ricadute possono avere nelle iniziative pubbliche.
La mia adesione a NUDM, è stata immediata. Come ho detto e scritto più volte, vi ho visto, tra le tante riprese del movimento delle donne, quella che è andata più vicino alle intuizioni e alle esigenze radicali poste dal femminismo degli anni ’70. Potrei riassumerle nello slogan «Modificazione di sé e modificazione del mondo». Si trattava di una grande ambizione, di una sfida: partire dalla soggettività – singolarità incarnata, sessuata, vissuto, esperienza personale, sentimenti, affetti, formazioni inconsce- per trovare lì, nel luogo considerato il più lontano dalla politica, attraverso un processo di liberazione da modelli interiorizzati, le consapevolezze nuove con cui cambiare l’ordine esistente, i suoi poteri, saperi e linguaggi. Pensavamo che la “lenta modificazione di sé”, legata all’autocoscienza e alla pratica dell’inconscio, dovesse essere il punto di partenza per mettere in discussione “i cento ordini del discorso” che avevamo fino allora saccheggiato.
Molto importante fu per me allora il gruppo “sessualità e simbolico”, “sessualità e scrittura”, creato insieme ad altre femministe. L’intento era di riflettere sui nostri documenti, sulle scritture auto coscienziali, ma anche sulle “scritture del cassetto” per riconoscere il posto che hanno i sentimenti e l’affettività nei nostri giudizi, mentre erano stati visti fino allora solo come miseria o peccato femminile. Non aver riconosciuto che l’interezza dell’umano è fatta di pensiero e corpo, ragione e sentimenti, coscienza e inconscio, è stata la miopia di tutte le sinistre, comprese quelle rivoluzionarie, il motivo per cui non dovremmo meravigliarci se sono sempre le destre a pescare cinicamente nelle “viscere della storia”. Basta guardare a quello che sta succedendo oggi, non solo nel nostro Paese.
Nell’unica pubblicazione rimasta di quel gruppo – “A zig zag”, speciale, Milano 1978- si legge:
“Sconvolgere i modi di pensare e di esprimersi acquisiti senza che si avesse la libertà di scegliere, imparare a leggere impietosamente, dentro i nostri scritti, la scrittura dell’inconscio”
L’idea era di dover creare una “nuova lingua”, quel “salvifico bilinguismo”, che è il ragionare con la memoria profonda di sé, la “lingua intima dell’infanzia” e, contemporaneamente, con le “parole di fuori”, i linguaggi della vita sociale, del lavoro, delle istituzioni. Era una rivoluzione per la scuola, per l’università, ma anche per l’agire politico, la “militanza”, che rischia ogni volta di chiudere il cerchio intorno a una ristretta avanguardia, isolandola, come è successo con i gruppi della sinistra extraparlamentare negli anni ’70: le “fortezze nel deserto”, come le definì Elvio Fachinelli.
La mia prima domanda parte da quello che è stato il filo conduttore di tutto il mio percorso femminista, e prima ancora della pratica non autoritaria nella scuola: la necessità di uscire da ogni dualismo per cercare nessi, che ci sono sempre stati, tra un polo e l’altro. Tra tutte le dualità che abbiamo ereditato dalla nostra cultura, oltre alle “differenze di genere”, c’è la contrapposizione tra sé e mondo, sentimenti e ragione, inconscio e coscienza, tra “soggetto politico” e “singolarità” incarnata, vista cioè nella sua interezza e con tutto il carico di storia che si porta dentro.
I rapporti di dominio sono inscritti nelle istituzioni della sfera pubblica, ma anche “nell’oscurità dei corpi” (Pierre Bourdieu). Nel primo caso è più facile vederli, nell’altro bisogna stanarli, portarli alla coscienza.
NUDM è sicuramente un “soggetto politico”, e molto di più: è un soggetto rivoluzionario, un riferimento per altri movimenti, per le sue analisi, obiettivi e pratiche politiche:
– ha messo a tema il dominio, lo sfruttamento, l’alienazione, in tutte le sue forme: classe, sesso, ‘razza’, genere, ambiente, ecc.;
-si pone il problema dei “nessi”, o intersezionalità, tra forme diverse di violenza;
-dice di voler “trasformare il mondo”, la società, neoliberista e patriarcale, di battersi contro tutti i governi che legittimano queste forme di dominio.
Quello che sembra essere sparito, rispetto al femminismo degli anni ’70, è invece il “sé”.
La mia domanda perciò è questa: che cosa significa oggi per NUDM, una generazione molto lontana dalla mia, tenere conto della soggettività? Come si colloca il “partire da sé” all’interno delle analisi di temi e obiettivi, messi al centro della giornata dell’8 marzo, elencati dettagliatamente negli appelli alla mobilitazione della rete italiana, ma anche in quelli di altri Paesi?
È una domanda che viene ancora una volta dalla mia esperienza, dalla mia tenace inclinazione a vedere le “permanenze” più che i cambiamenti. Nel ’68, appena arrivata dalla provincia, non sono state le manifestazioni, che un po’ mi spaventavano, ad aprire il cerchio del privato, a spingermi verso un impegno sociale e politico. È stato ascoltare in una assemblea il racconto dell’insegnante che aveva avviato nelle sua classe una pratica non autoritaria –niente voti, bocciature, punizione, ecc-, e riconoscere improvvisamente nella sua scelta coraggiosa bisogni che mi portavo dentro inconsapevolmente. Primo fra tutti, quello di ripensare il mio percorso scolastico di figlia di contadini poverissimi, quanto della mia sofferenza fosse rimasta “il fuori tema”, intraducibile nelle lingue colte. Scoprivo che si poteva insegnare in modo diverso, mettere al centro della cultura la vita, l’esperienza dei singoli col suo carico di storia non registrata.
Sono rimasta dell’idea che l’identificazione sia il veicolo di ogni pratica dell’accomunamento, come possibilità di coinvolgere più persone. Oltretutto, se lo sciopero dell’8 marzo riguarda non solo il lavoro produttivo ma anche quelli che sono stati i ruoli femminili tradizionali –sessualità, maternità, cura dei figli e della famiglia, lavoro domestico non visto come tale, ecc.-, non mi sembra che si possa prescindere dal modo con cui le donne hanno, sia pure forzatamente, fatto propri quei modelli,dati come “naturali”, quanto vi siano ancora legate, come potere di indispensabilità all’altro, un potere sostitutivo di una diversa realizzazione di sé.
Sulla “presa di coscienza” resta molto lavoro da fare.
Nel documento-appello di NUDM nazionale colpisce la radicalità con cui viene nominata la violenza in tutti i suoi aspetti: femminicidi, stupri, molestie, ma anche precarietà, discriminazione salariale, sessismo, razzismo, omofobia nelle politiche dei governi. Si parla del Ddl Pillon, del decreto sicurezza, della campagna contro l’educazione di genere nelle scuole, del reddito autodeterminazione. Un elenco dettagliato di obiettivi ma da cui restano in ombra le connessioni, che pure ci sono.
Solo verso la metà si accenna al fatto che lo “sciopero femminista”, per la sua articolazione personale e politica, comporta la ridefinizione di quello che è stato finora lo sciopero sindacale, legato al lavoro produttivo. Quanto alla “soggettività”, la parola compare solo verso il fondo, là dove si parla di “sciopero dei generi e dai generi”, ed è riferita alla “liberazione di tutte le soggettività e diritto di autodeterminazione sui propri corpi”, con riferimento esplicito alle violenze contro le persone trans e intersex.
Come si colloca in questo quadro oggettivamente così complesso e dettagliato l’esperienza, il vissuto personale, che, come sappiamo non si modifica con la stessa velocità della ragione storica? Con un discorso così disincarnato e spersonalizzato è difficile creare identificazione e coinvolgimento fuori dalla cerchia ristretta di NUDM.
Una domanda simile e conseguente riguarda l’“intersezionalità”. La “specificità della violenza sulle donne” – come dice Veronica Gago: – è già intersecata con altre forme di dominio e quindi di lotta. Il problema caso mai, dice sempre Veronica Gago, è di “produrre connessioni” e inventare un linguaggio “per dire cosa significa politicamente questa trasformazione radicale”.
Ora, se per “connessioni” non si intende solo “alleanze”, condivisione di momenti di lotta –NUDM è già presente nelle manifestazioni contro il razzismo, per l’integrazione dei migranti, contro i muri e nazionalismi, etc.-,anche in questo caso è importante chiedersi cosa vuol dire cercarle nella soggettività, nell’esperienza che una donna fa del suo essere al medesimo tempo appartenente a un sesso, a un genere, a una classe, a una cultura. La multiposizionalità, vista attraverso le storie personali, si rivela complessa e piena di contraddizioni. Potremo scoprire che la consapevolezza di una violenza o ingiustizia si accompagna spesso alla rimozione dell’altra: nel mio caso, figlia femmina di contadini mezzadri sfruttati all’epoca come servi della gleba, al centro è venuta prima la sessualità e solo molto più tardi, quando ho incontrato i movimenti antiautoritari nel ’68 a Milano, la questione di classe. Tenerle insieme e capire come si intersecano è stato difficile anche sul piano politico, quando si è cercato di interrogare e ridefinire il conflitto di classe e il materialismo storico – mi riferisco ai gruppi extraparlamentari- sulla base della specificità del rapporto di potere tra i sessi, riportato alla sessualità, alla maternità, alle relazioni intime, a una violenza non traducibile in termini economici.
Se a Marx va il merito di aver portato allo scoperto il rimosso economico –il profitto- e a Freud il rimosso della famiglia borghese, la sessualità, al femminismo va riconosciuto quel salto della coscienza storica che scoprire la politicità della vita personale, cioè di tutto ciò che è stato considerato da sempre “non politico”.
Non è un caso che la violenza al centro delle pratiche dell’autocoscienza e dell’inconscio sia stata, prima ancora che quella manifesta, la violenza invisibile, l’interiorizzazione della visione maschile del mondo da parte delle donne stesse.
Oggi lo slogan “modificazione di sé e modificazione del mondo” è l’utopia che possiamo pensare realizzabile, purché non si perda ancora una volta di vista il “sé” come luogo a cui è necessario sempre tornare e dare parola.
*Nell’immagine di copertina, il flash-mob dell’8 febbraio a Milano, lancio nazionale di Non una di meno verso lo sciopero dell’8 marzo