approfondimenti
OPINIONI
Insegnamenti da trarre dalle cose di Francia
Dalla complessa vicenda delle elezioni anticipate francesi vinte dal NFP e dal difficile processo di costruzione di un nuovo governo si possono trarre utili insegnamenti per noi. La destra lo ha già fatto, a sinistra è ancora un campo aperto
Non è vero che «nessuno ha vinto in Francia», come mente l’esorcista fallito Jupiter-Macron e come farfugliano a pappagallo Meloni e gli opinionisti italiani: ha vinto il Nuovo Fronte Popolare senza maggioranza assoluta e dunque si apre una fase prolungata di incertezza.
Possiamo imparare qualcosa, in Italia e in Europa, dagli eventi francesi di questi giorni, come abbiamo fatto nel 1789 e nel 1871 e nel 1936, e gestirlo da sinistra, prima che la destra ne faccia uno spauracchio e cerchi di usarlo per consolidare il proprio potere con qualche santa alleanza del trono sovrano e dell’altare occidentale?
Primo insegnamento
In ogni repubblica esistono due umori, quello dei grandi che desiderano comandare e opprimere il populo e quello del populo che desidera non essere comandato né oppresso dai grandi: stavolta in Francia il popolo ha fatto valere la sua mala contentezza per mandare al diavolo l’arroganza tecnocratica di Macron, contro cui si era lungamente mobilitato e, visto che c’era, ha bloccato quella parte di insoddisfazione che era stata captata e deviata dalla destra razzista e identitaria.
Lo ha fatto lavorando congiuntamente con due leve: un programma sociale radicale di rottura in politica interna e di compromesso su quella estera e l’uso accorto di un marchingegno costituzionale, la desistenza. Lo ha fatto in tempi di record, stendendo un programma di massima che raccoglieva le rivendicazioni elaborate nel corso di anni di mobilitazioni e di lotte e rispondendo con il Nouveau Front Populaire a una richiesta dal basso dei corpi e delle menti che si sono raccolti a République la sera stessa delle elezioni europee e non se ne sono schiodate per tutta la durata dello scioglimento e del primo turno. Anche la désistence è stato il prodotto di una mobilitazione dal basso. Che fine avrebbero fatto i riluttanti al ritiro?
Come la desistenza implicita nel meccanismo del doppio turno, così il regime semi-presidenziale prevede varie peculiarità sulla nomina del primo ministro. Per ora Macron ha preso tempo, confermando l’uscente Attal per tutta l’estate olimpica, ma prima o poi dovrà scegliere in base ai risultati elettorali, per non rischiare la bocciatura delle leggi (non è più in grado di usare il 49/3 per scavalcare il Parlamento) e una mozione di censura.
Nel frattempo spera che il Nuovo Fronte Popolare si divida e isoli France insoumise. Per ora, tuttavia, non ha messo abbastanza sul piatto per corrompere socialisti e comunisti e le prime risposte non sono state incoraggianti. Spaccerà (con il coro belante della stampa italiana) come un successo l’esclusione dalla carica di premier di Mélenchon (che da tempo si era autoescluso), ma Faure o Glucksmann sanno benissimo che senza gli Insoumis non vanno da nessuna parte. Stiamo a vedere. Comunque è probabile che il Fronte incassi qualcosa dalla battaglia condotta da ben prima delle elezioni europee e nazionale, dato che tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascono dalla disunione fra popolo e grandi – ovvero tra Fronte, Ensemble macroniano e Rassemblement facho, sotto l’egemonia del primo.
Secondo insegnamento
Ovvero quello prontamente recepita dalla destra italiana, molto attenta ai mezzi del potere e che se ne frega dei contenuti sociali, se non per creare allarmismo. Il NFP ha vinto grazie al doppio turno e alle possibilità di desistenza o alleanza che offre a forze eterogenee in partenza. Allora sopprimiamo il doppio turno in Italia, dove c’è (nei Comuni sopra i 10mila abitanti, in cui infatti hanno perso di brutto) e tutto quel pasticcio del premierato riduciamolo a una legge ordinaria, una legge che (guardandosi assolutamente dal doppio turno) introduca un bel premio di maggioranza per chi arriva in testa con basso quorum eleggendo simultaneamente premier e maggioranza parlamentare blindata. Già oggi Meloni governa con il 28% della votante metà del corpo elettorale, allargato al 44% con altri due partiti decerebrati che accettano la sua egemonia (che cioè senza di lei non riuscirebbero a far nulla) e questo le basta per sostenere di rappresentare il popolo e la nazione, lagnandosi nel contempo che in Italia c’è la dittatura delle minoranze! Figuriamoci domani se dovesse essere eletta direttamente dal 35% sempre della metà o meno degli eventi diritto, con gli oppositori che ovviamente non riuscirebbero a mettersi d’accordo in tempo per uno schieramento unitario alternativo.
Con il doppio turno sul premierato la situazione sarebbe diversa: di fronte ai numeri di un primo turno le opposizioni potrebbero – miracolosamente ma forse neppure allora – mettersi insieme, come avrebbero dovuto fare Letta e Conte nel settembre 2022. Dunque, per precauzione, niente doppio turno e soppressione perfino dei residui collegi uninominali (un terzo del totale) nel vigente Rosatellum, che potrebbero indurre a tentazioni di alleanze o desistenze. Un bel rialzo della soglia di sbarramento favorirebbe la dispersione e mancata rappresentanza di quella quota ostinata della sinistra-sinistra che si esibirebbe nella costruzione di unioni e partiti tanto tanto alternativi.
Questa soppressione legalizzata della rappresentatività del voto in nome della stabilità governativa sarebbe introdotta con legge ordinaria immediatamente operativa e facilmente conseguibile con i numeri parlamentari attuali, molto più decisiva di una riforma costituzionale pasticciata, con i suoi tempi lunghi e un’incerta verifica referendaria senza quorum. La liquidazione dei ballottaggi nelle comunali completerebbe l’espulsione dalla sinistra anche dai gangli delle amministrazioni locali.
Inutile dire che le opposizioni dovrebbero, per prima cosa, bloccare queste manovre, battendosi per una nuova legge elettorale per collegi a doppio turno generalizzati, per il mantenimento dei ballottaggi nei comuni e la loro estensione alle Regioni, dove oggi vengono eletto Presidenti (pomposamente soprannominati “governatori”) con maggioranze relative intorno al 40% e poteri considerevoli in materia di sanità, scuola, ecc. probabilmente accresciuti, in modo squilibrato, dall’autonomia differenziata.
Terzo insegnamento
Quello che dovrebbe apprendere la sinistra italiana – omettiamone la definizione – a parte qualche idea elementare in materia di legislazione e tattica elettorale è che le battaglie politiche e, quando ci toccherà, referendum ed elezioni, si vincono su programmi politici radicali e radicati in lotte e scadenze di piazza, come è avvenuto da ultimo nella battaglia francese per le pensioni. Cioè, insisto, con idee e messa in gioco dei corpi, non con photo opportunities di leader schierati su sfondi malauguranti come il Palazzaccio. Niente contro i leader, ma per carità non quelli, leader un minimo rodati in lotte che ancora non ci sono state, non testimoni di una stagione di sconfitte o di inerzia. Quindi le foto alla fine, se proprio è necessario, non all’inizio.
Un programma – il programma che serve in un Paese con i più bassi salari e la più alta età di pensionamento in Europa – non può essere di aggiustamenti, ma di rottura, se vuoi portare la gente in piazza e in sciopero, non a convegni e “tavoli”.
I sindacati francesi hanno ripetutamente scioperato per le pensioni (non quattro ore come noi per la Fornero) e stanno nei picchetti politici che assediano le istituzioni e a fianco dei cortèges de tête che “vivacizzano” le manifestazioni. Questo ruolo, che pure in passato non fu ignoto ai sindacati italiani, non mi pare uno scenario consueto.
Anche la campagna, meritoriamente intrapresa da Schlein malgrado molteplici resistenze, per ottenere il salario minimo (su un livello deplorevolmente fermo a cifre pre-inflazione e lontanissimo dai minimi effettivi già in vigore in Europa, per non parlare di quelli rivendicati dal NFP) richiede scioperi di settore e generali, non solo proposte di legge, battaglie parlamentari e passaggi nel cimitero degli elefanti del CNNL del mancato Nobel Brunetta. Quei 1.600 € sono per noi un miraggio, ma senza miraggi non si traversa il deserto. E il fenomeno del lavoro povero non riguarda solo chi sta sotto i 9 € ma tutti i minimi contrattuali di settore: senza salari alti di punta non si alzano i minimi.
Lo stesso vale per le pensioni. Troppi cedimenti ci sono stati, non solo sull’età – i 67 anni sono formali, se si osserva l’età dei morti (o meglio assassinati) sul lavoro, che spesso arrivano a 70 anni – ma anche su aspetti sostanziali correlativi: il tutto contributivo per gli ultimi decenni (laddove in Francia, anche dopo la riforma Macron che porta a 64 anni, il retributivo ha molto più spazio, i regimi speciali, la garanzia pensionistica per precari e intermittenti, il pieno recupero dell’inflazione da anni tagliato.
Cosa si propone per trascinare in piazza i giovani che non avranno nessuna pensione o quasi alla scadenza dei 70 o 75 anni? E per tutti quanti hanno di fatto rinunciato a curarsi per la privatizzazione della sanità e le liste d’attesa per esami diagnostici e interventi urgenti? Certo, non mancano “piattaforme” rivendicative, ma non si vede nessun movimento che faccia paura a governo e padroni e li induca a concessioni per mantenere la pace sociale. Al contrario, si moltiplicano i divieti, l’aggravio di pene e di sanzioni amministrative non oppugnabili in giudizio per chi manifesta, occupa le case, invade le strade e ostacola il traffico e le opere pubbliche “strategiche”.
Gli ecologisti e i lavoratori della logistica sono state le prime vittime ma presto toccherà a tutte le categorie che hanno motivo di protestare. La regolamentazione “civica” degli scioperi, a differenza di Francia, Germania e Inghilterra, frammenta e strozza l’azione sindacale, sin dall’epoca dei governi di centro-sinistra.
Inutile fare la lista della spesa (ci stanno pure la patrimoniale e la Bossi-Fini con tutta la sia macchina carceraria e di sfruttamento dei migranti clandestini) per spiegare cosa vuol dire un programma di rottura delle compatibilità economiche e della legalità repressiva. In Francia, che ha pressappoco gli stessi problemi di debito dell’Italia, lo fanno, qui perché no? O – a essere meno pessimisti – quando si comincia?
A Parigi si scandisce, in italiano, «siamo tutti antifascisti». Diamo anche noi un contenuto sociale a questa corretta protesta contro il fascismo del terzo millennio, che minaccia la Francia e da noi son già due anni, ma guarda, che si è installato al governo.
L’immagine di copertina è di Ilaria Turini
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