cult
CULT
Industry: nessuna alternativa per chi entra nell’arena
Prodotta da BBC e HBO, la serie britannica creata dagli ex operatori finanziari Mickey Down e Konrad Kay è il racconto di formazione di quattro neolaureati nella giungla del mercato degli investimenti londinese, in un gioco a somma zero fatto di potere, desiderio e discriminazione.
Che la proverbiale gavetta sia una dinamica ineludibile nella costruzione di una coscienza professionale, in un rapporto più o meno dialettico tra ambizione ed esperienza, tempo emotivo e piano di realtà, è cosa difficile da mettere in discussione: essere allievi, apprendisti, stagisti o assistenti, prescindendo per un momento dagli abusi economici che oggi quasi sempre comporta, resta parte integrante del divenire di un sapere e alla necessità di incontrare (e tollerare) maestri si lega indissolubilmente la sensazione di arrivare a fare proprio un posto nel mondo degli adulti. Ma cosa accade se il sistema che dovrebbe accogliere e guidare i beginner del caso ha ormai dissolto, o quasi, il valore verticale (non per forza a senso unico) della trasmissione e invita i nuovi arrivati a dover anzitutto dimostrare di essere indispensabili, in una giungla senza regole e con intermediari molto subdoli, spesso mettendosi gli uni contro gli altri in nome di un risultato quantitativo che, quand’anche porti a un riconoscimento, quasi mai corrisponderà davvero a un’assunzione di responsabilità?
La domanda è retorica, forse, ma non così tanto, se guardando Industry, la serie targata BBC/HBO che segue la vita di quattro neolaureati tra gli uffici di Pierpoint & Co., un istituto bancario londinese specializzato in investimenti milionari, ci rendiamo conto del gioco a somma zero che il motore del capitale introduce in qualsiasi percorso relazionale da cui si debba risultare “migliori” e “più produttivi” degli altri. Perché è proprio questo che accade e viene chiesto ai giovani protagonisti della vicenda: Harper Stern, una ragazza nera newyorkese con in tasca una laurea (ma sarà una vera laurea?) conseguita in una poco nota università americana, che sbarca nella City carica di ambizioni e di segreti; Robert Spearing, il prestigio di un titolo a Oxford ma un’infanzia nella provincia scozzese, lontano dall’ambiente altolocato che ha imparato a solcare con la sua fisicità testosteronica, capace dunque di sublimare in se stesso, spingendola fino al punto di rottura, una doppia identità fatta di vestiti elegantissimi e after violenti tra coca e ketamina; l’etoniano Gus Sackey, puro talento e carisma, innamorato di un collega sposato, destinato ad autosabotare il proprio genio con la sfrontatezza con cui si pone fin dal colloquio d’ammissione iniziale, quando mette a confronto Margaret Thatcher e Gesù Cristo: «Una è il motivo per cui siamo tutti qui, l’altro è un falegname»; e infine Yasmin Kara-Hanani, una giovane dell’upper class di Notting Hill, invischiata in una relazione tossica con un coetaneo indolente, che a dispetto della sua intelligenza tende a interpretare il suo percorso come una naturale via crucis, tanto da cominciare a farsi spazio nel nuovo luogo di lavoro portando il pranzo a colleghi e capi, molto spesso misogini, quasi sempre ostili perché insopportabilmente spaventati da lei.
Accanto a critiche molto lusinghiere, alcuni recensori hanno guardato alla serie creata dagli ex operatori finanziari Mickey Down e Konrad Kay con una certa sufficienza, preoccupandosi di “smascherare” presunte somiglianze strutturali con altre serie tv ora vicine per cornice narrativa – le dinamiche relazionali in ambienti professionali senza troppi scrupoli, a partire da quello finanziario – ora per il taglio young adult delle proprie peripezie. Argomenti legittimi, ma che sottovalutano pesantemente la virulenza contagiosa e per nulla consolatoria che pervade ogni momento di Industry, a partire dall’episodio pilota diretto da Lena Dunham, che inquadra al primo colpo la posta in gioco di un sistema che, anche quando non lo chiede esplicitamente, aliena l’individuo verso lidi di sottile autodistruzione. Basti seguire la fulminante peripezia di un quinto neolaureato, Hari Dhar, tutta racchiusa nei primi 50 minuti di stagione, per comprendere come il sistema possa affondare le proprie mani non solo nella nostra autostima intellettuale, nella nostra gestione dell’ansia o della pressione psicologica, ma nella biologia stessa delle nostre ore di sonno, delle nostre abitudini di vita, nel bisogno di gonfiare artificialmente la nostra riserva di energie per poter essere all’altezza dell’ambiente che deve confermarci, o promuoverci.
Pur nella sua accurata costruzione, Industry utilizza l’ambiente dell’investment banking per dire di una cultura del lavoro e della formazione che prescinde il contesto finanziario e non si preoccupa dunque di spiegare in dettaglio i molti numeri che compaiono o vengono citati in ogni episodio. È interessante al contrario che lo spettatore abbia spesso la sensazione di sapere, di quel mondo, tanto quanto i giovani protagonisti che vi fanno ingresso, osservando deflagrare i loro comportamenti tra situazioni improbabili, clamorosi fallimenti o giri a vuoto, retroscena al cardiopalma. Se c’è un punto di forza che Industry riesce a registrare è proprio la sua lucidità nell’investire i corpi di un fondamentale primato, all’interno del gioco di potere che il capitale immaginiamo proietti soprattutto sul nostro equilibrio mentale. I corpi di Harper, Robert, Gus e Yasmin sono soggetti in plateale ricerca di piacere, corpi desideranti oltre la sfera della morale, corpi capaci di inscrivere in se stessi la prossemica del controllo e del dionisiaco, ma evidentemente esposti alle contraddizioni e alla solitudine di un sistema fondato sul capestro della performatività e sui suoi abusi, di cui anche gli adulti sono da tempo preda o prigionieri senza soluzione.
Non può essere altrimenti in un contesto che alimenta e lascia prosperare, incontrollata, la dialettica tra discriminazione e privilegio: per una recluta, l’ago della bilancia tra queste due esperienze si connette automaticamente al proprio “volontarismo magico”, tanto nel sopportare quanto nel dimostrare, nell’arco di tempo concesso prima di essere inclusi o tagliati fuori. Ed è in questo codice non scritto, non ufficiale, che si inscrive anche una delle più interessanti relazioni della serie, quella tra Harper e il suo superiore di origine asiatica Eric: è proprio Eric, mentore squalesco, protettivo ma intrinsecamente violento, a ricordare alla ragazza quanto sia il buon tipo di immigrata di cui Londra ha bisogno. È una premessa implicita comune a tutti i giovani personaggi della serie: c’è qualcosa della loro vita e della loro esperienza che li rende candidati ideali al successo, ma che contemporaneamente conferisce al potere tutti gli strumenti per “coltivarli” e, dunque, arrivare a discriminarli, masticarli, espellerli. A quale prezzo e con quali conseguenze, giocare questa partita? Lo lascia intendere molto bene l’esito della prima stagione, stratificato e prismatico, dove al colloquio finale che deciderà la sorte dei protagonisti si sovrappone il tentativo di un colpo di mano a Pierpoint & Co., guidata da due donne che puntano alla restaurazione di un clima di regole intrinsecamente legato alla dimensione della responsabilità. Una retorica insufficiente a scardinare i principi dell’arena, proprio perché incapace di soppesare la forza dei legami ambigui in un contesto privo di solidarietà, e dunque destinata a un finale tutt’altro che catartico, dove, per citare Margaret Thatcher, there is no alternative. Confermata per una seconda stagione, Industry non sembra tuttavia volersi accontentare di questo coraggioso, e desolante, punto di arrivo.