EUROPA
Indipendenza della Catalogna: entusiasmi e dubbi dopo un mese di mobilitazioni
Un’analisi lontana da qualsiasi lettura semplicistica, tanto di tipo celebrativo, quanto di carattere denigratorio. Un punto di vista cresciuto dentro tutte le piazze più importanti di queste lunghe settimane.
Lo scorso sabato, 21 ottobre 2017, il consiglio dei ministri del governo spagnolo, guidato da Rajoy, ha deciso di applicare l´articolo 155 della Costituzione Spagnola, che commissaria la Generalitat (la regione autonoma) catalana, con lo scopo di esautorare il governo catalano di Puigdemont, impedirgli una dichiarazione unilaterale di indipendenza e convocare nuove elezioni nell´arco di sei mesi. Il commissariamento è una sospensione dell’autonomia, la sostituzione del governo catalano con membri di nomina centrale e come conseguenze pratiche ha anche il controllo di polizia, televisioni locali ed educazione, in ottica repressiva e per porre freno alla popaganda independentista. Una situazione che ricorda la Turchia di Erdogan. Il senato spagnolo è chiamato ad approvare ufficialmente l’uso del 155 il prossimo venerdì, ma l’esito positivo della votazione è scontato. In senato infatti il Partito Popolare (PP) di Rajoy ha la maggioranza assoluta, a differenza della camera, dove l’appoggio esterno dei socialisti del PSOE e del partito di destra Ciudadanos, è necessario al mantenimento del governo.
Con l’applicazione del 155, Rajoy si assume per la prima volta delle responsabilità politiche in maniera diretta, senza nascondersi dietro l’azione del potere giudiziale. Si tratta di una misura drastica, mai adottata dalla nascita della Spagna post-franchista, e questo rende l’idea di quanto sia teso il contesto.
Tutto ciò avviene dopo un mese caldissimo, in cui la Spagna è scivolata in una crisi istituzionale e politica che ha prodotto fratture insanabili. Sono passati, infatti, poco più di 30 giorni da quel 20 settembre, primo grande momento di mobilitazione, in cui 14 funzionari dell’amministrazione catalana sono stati arrestati, colpevoli di applicare le misure organizzative verso il referendum del primo di ottobre, che era stato appena dichiarato illegale dal Tribunale Costituzionale. Quel giorno migliaia di catalani scesero in piazza contro la repressione del governo spagnolo. Repressione che si palesò brutalmente, manu militari, il giorno del referendum, con l’invasione della Catalogna da parte della polizia nazionale e a cui si contrappose la resistenza degna dei catalani in difesa dei seggi. Dal primo ottobre in poi si è giocata una partita a scacchi e l’articolo 155 è l’ultima mossa di Rajoy.
Nel mentre ci sono stati: il 3 ottobre un enorme sciopero generale, che ha bloccato totalmente la Catalogna; il 10 la dichiarazione unilaterale di indipendenza, subito congelata dal presidente catalano Puigdemont per facilitare l’apertura di un dialogo e l’intervento della comunità europea; varie manifestazioni a favore del dialogo (in Catalogna e nel resto della Spagna); un corteo “unionista” a Barcellona l’8 Ottobre, con rigurgiti fascisti. Infine, la giustizia spagnola, ancora una volta appoggiando Rajoy incondizionatamente, getta benzina sul fuoco e il 16 ottobre arriva ad arrestare per “sedizione” Jordi Sánchez e Jordi Cuixard, presidenti rispettivamente di Omnium Cultural e dell’Assemblea Nacional Catalana (ANC), ritenuti responsabili delle proteste del 20 settembre. In realtà, queste due associazioni sono sì indipendentiste, ma l’attività che svolgono è soprattutto culturale. Omnium in particolare è un’organizzazione fondata nel 1961 da figure dell’imprenditoria catalana ed è storicamente molto prossima al partito di centro destra di Puigdemont, il PDeCat. L’ANC, invece, è molto più recente, nasce nel 2012 e si posiziona vicino al partito di sinistra Esquerra Republicana Catalana, alleato del PdeCat al governo. Queste associazioni hanno però un grosso riconoscimento nel movimento indipendentista e gli arresti hanno portato a convocare subito la manifestazione di sabato 21, con 500mila partecipanti, che ha ovviamente esteso le rivendicazioni: dalla libertà per “i Jordis” all’opposizione al commissariamento appena dichiarato da Rajoy.
Nel seguito, più che immaginare scenari, vorremmo descrivere il contesto politico, ancora in evoluzione. Lo facciamo dalla nostra prospettiva di persone che stanno dentro la mobilitazione in maniera assolutamente interessata, mantenendo comunque uno spirito di osservazione e strumenti di analisi che abbiamo maturato in contesti totalmente diversi, in Italia, nelle lotte universitarie e nei movimenti anticrisi.
La prima cosa che vorremmo mettere in luce è la duplicità del movimento catalano. Dal giorno del referendum, con la repressione brutale ai seggi, le richieste della piazza sono due, apparentemente distinte ma in definitiva politicamente sovrapposte: “no alla repressione” e “indipendenza”. Questa sovrapposizione di contenuti è il cuore della questione catalana e va analizzata perché dà forza al movimiento, ma è anche un’arma a doppio taglio. È importante perché sposta il movimento independentista su posizioni antifasciste – o più propriamente antifranchiste – permettendo il coinvoglimento di quei catalani non propriamente nazionalisti ma che hanno a cuore la libertà, il diritto a decidere e che vedono nella lotta catalana una possibilità di uscita dal regime spagnolo post-franchista. D’altra parte, però, rafforza la polarizzazione del dibattito, facilitando l’azione repressiva stessa del governo Rajoy, che ha come unico scopo dichiarato l’unità della Spagna e solo implicitamente, ma ovviamente, la conservazione dello status quo reazionario.
In questa dicotomia sguazzano gli ignavi. I socialisti del PSOE che, non avendo nessuna alternativa politica da proporre, si deresponsabilizzano, lasciano carta bianca alla repressione e diventano strenui difensori dell’unità di Spagna, della legalità e della Costituzione che fino a qualche mese fa erano, almeno a parole, pronti a riformare.
L’Unione Europea, invece, non vuole un’altra crisi al suo interno perché non è in grado di proporsi come mediatore, relega il problema alla politica interna della Spagna e, soprattutto, rifiuta di configurarsi come una federazione politica fra popoli. Come scrive perfettamente Bascetta sul Manifesto del 5 ottobre: «Se l’Europa fosse, infatti, quell’entità politica federale che ne ispirò il progetto originario, essa potrebbe ben sostituire come principio unitario e riequilibratore gli Stati nazionali, lasciando liberi ampi spazi di autogoverno territoriale. Come sappiamo, è tutto il contrario di questo e cioè una Unione tenuta in ostaggio da Stati nazionali estremamente gelosi delle proprie prerogative politiche e integrata soprattutto dagli interessi comuni delle oligarchie economiche».
Dall´altro lato, in questa polarizzazione si hanno rigurgiti fascisti in tutta Spagna: come già accennato, la manifestazione “per l´unita nazionale” del 7 ottobre a Barcellona, descritta dai media nazionali come una grande richiesta di pace e unità, è stata in realtà una sfilata di bandiere della Spagna franchista, saluti romani e fascisti arrivati in massa da tutta la Spagna. Il PP stesso deve guardarsi alla sua destra e il pugno duro gli serve a confermarsi come unico erede del franchismo ed egemone a destra, e quindi evitare il crescere di movimenti analoghi a Lega e Front Nacional, che in Spagna ancora non esistono perché ideologicamente incorporati dentro il PP stesso.
Le richieste di dialogo sono arrivate invece in maniera organica solo da parte di Podemos e delle sue confluenze. Podemos ad ora è l’unico partito con una vera posizione terza, incentrata sulla proposta di un referendum concordato, capace di rompere la contrapposizione giocata intorno alle parole d’ordine “indipendenza” e “unità”. Però questa posizione rimane debole: in Catalogna Podemos è accusato di ambiguità dagli indipendentisti, in Spagna è dipinto come “amico dei golpisiti catalani”. Il PSOE, soprattutto, non ha nessun interesse a considerarlo come interlocutore in ottica anti-Rajoy, perché significherebbe aprirsi a possibili alleanze e spostare il suo asse a sinistra, cosa ormai impossibile per la formazione politica di Sanchez come tutti i partiti socialisti europei.
Un’altra cosa importante da notare rispetto alla propaganda è la tendenza nei media Catalani a minimizzare le manifestazioni di solidarietà che si sono avute nel resto della Spagna (spesso riconducibili alla base di Podemos). Questo non è paradossale, se si legge nell’ottica interna del rafforzamento di un discorso non solo anti-PP, ma piuttosto anti-spagnolo, che astoricizza l’indipendentismo, ossia lo rende indipendente dalla fase politica spagnola contingente.
Al di la dei partiti, però, il grande attore dell’ultimo mese è sicuramente il movimento di massa catalano. A costo di essere ripetitivi, ribadiamo quanto la partecipazione sia straordinaria e variegata. Non ci risultano altri movimenti tanto partecipati e trasversali nella recente storia europea. La partecipazione alta si registra in ogni momento, dalle assemblee di quartiere alle grandi manifestazioni.
È una trasversalità che però rimane confinata nel, seppur ampio, dominio della classe media catalana, che, va sottolineato, è tra le più ricche d’Europa. Ci si trova dunque di fronte a una composizione bianca e catalano parlante, per niente meticcia, che molto spesso lascia fuori i numerosissimi migranti di prima e seconda generazione, provenienti principalmente dall’America Latina e dall’Andalusia. È proprio a questo tipo di soggettività che provano a rivolgersi i partiti spagnoli di destra, in particolare Ciudadanos, che ha registrato i migliori risultati nelle zone storicamente meta di immigrazione dal resto della Spagna.
Questa strutturazione del movimento è fondamentalmente il frutto della strategia dei due tempi assunta da tutti i partiti indipendentisti, tra cui gli anticapitalisti della CUP: strategia che vede posticipare a una fase post-indipendenza qualsiasi discorso legato al tipo di Paese che si vuole costruire. Comunque, è un movimento prevalentemente democratico e progressista che anche nell’ala più a destra ripudia, almeno in linea di principio, contenuti xenofobi ed omofobi. Proprio questa caratteristica rende inappopriato qualsiasi accostamento all’indipendentismo della Lega o al Brexit, che pure va di moda in un certo giornalettismo italiano.
Se c’è un risultato molto importante che questo movimento sta ottenendo, almeno sul livello discorsivo, è quello di sancire l’importanza della legittimità sociale sulla legalità formale. È finalmente chiaro che il diritto non è una proprietà naturale e astorica, ma il prodotto di rapporti di forza e dinamiche di potere. Le persone sanno, ad esempio, che non importa che il referendum dell’1-O sia illegale per il Tribunale Costituzionale, perché ciò che lo dichiara tale è un impianto costituzionale figlio di un processo che non è mai stato di rottura nei confronti della dittatura franchista. Il referendum deve celebrarsi perché è la gente che lo reclama, e questo lo rende legittimo. Proprio il presidente Puigdemont, nel suo discorso del 1 ottobre scorso dedica molto spazio a questo punto: «è vero che le costituzioni si instaurano in un quadro democratico, ma c’è ancora molta democrazia fuori dalle costituzioni». Si tratta di una questione molto importante se si pensa che anche partiti come Podemos sono sempre rimasti cristallizzati su un piano legalitaro, talvolta giustizialista, che ora risulta essere superato.
Tuttavia, se l’antilegalitarsimo è assunto sul piano discorsivo, non lo è affatto su quello delle pratiche. Regna un feticismo della non violenza, sterile ed ideologica, condensata nel motto «som gent de pau» (siamo gente pacifica). Se da un lato questo serve a preservare l’unità e la trasversalità della partecipazione, dall’altro ne limita il suo potenziale di rottura e dunque l’agire costituente. Non vogliamo assolutamente dire che l’alternativa sia, all’opposto, il feticismo della violenza, piuttosto ci interroghiamo sulla consapevolezza che il movimento ha della sua forza. È capitato più volte che la paranoia di cariche da parte della polizia nazionale o della presenza di infiltrati, abbia avuto come risultato l’abbandono dei luoghi dove si svolgevano le contestazioni (fossero questi la sede del PP, del governo o della Guardia Civil), invece che (ad esempio) l’assunzione di una pratica legittima di resistenza passiva.
In generale, a nostro avviso, il movimento fatica ad aquisire una capacità decisionale. Non è ancora riuscito a inserirsi dal basso nella dinamica degli eventi, che al contrario resta confinata nell’autonomia del politico, orchestrata cioè dai partiti e dai leader istituzionali. Sono costoro che, attraverso l’uso di media, social network e canali Whatsapp o Telegram, convocano gli eventi di mobilitazione e, soprattutto, li annullano quando questi tendono a eccedere l’organizzazione precostituita. Controllano un movimento che non riesce a diventare pienamente autonomo, ovvero in grado di imporre una propria direzione, che vada oltre la linea che per adesso resta imposta dall’alto. Le piazze, dunque, non sono spazi di democrazia in grado di costituirsi come istituzioni autonome, ma tendono a essere luoghi di rappresentazione a sostegno della rappresentanza.
Tuttavia, sembra esserci un profondo senso di accettazione nei confronti di questa organizzazione, per cui è complicato dare un giudizio politico netto. Le persone spesso sono contente di questo modo di procedere e non provano a esporsi più di tanto. La fiducia verso il leader e le istituzioni è uno dei tratti peculiari della composizione che è scesa in piazza in questo mese. In questo senso, leggiamo i frequentissimi applausi ai mossos (la polizia catana), eletti a difensori della patria contro il nemico straniero. Sono questi elementi che suggeriscono come una parte delle istituzioni catalane stia approfittando di questo movimento per crearsi una nuova immagine e un nuovo consenso.
In conclusione, siamo di fronte a un movimento partecipatissimo, che sa parlare alla gente di tutte le età, e con biografie politiche molto differenti. Un fenomento che oggi costituisce la principale opposizione al governo del PP e a quello che in Spagna si chiama “regime del ‘78”. Un movimento che però, nella sua parte di destra come in quella di sinistra, ha deciso di anteporre la questione nazionale a quella sociale.
Risulta molto complicato con i nostri strumenti dare una catalogazione del movimento catalano dell’ultimo mese. È qualcosa che somiglia molto poco alle mobilitazioni anticrisi a cui abbiamo assistito durante gli ultimi anni nel Sud Europa. Spesso, invece, si intravede una situazione in cui le persone scendono in piazza per appoggiare il proprio partito di riferimento, in una lotta per un nuovo quadro giuridico dove avere maggiori spazi di agibilità.
Come sempre, però, la situazione è in continuo divenire e ciò che scriviamo va riferito esclusivamente a questo primo mese di mobilitazione. I prossimi giorni saranno decisivi, dato che giovedì il parlamento catalano si riunirà e con buona probabilità proclamerà l’indipendenza e/o convocherà elezioni autonomiche, giocando d’anticipo sull’applicazione del 155, depotenziandone gli effetti.
In entrambi i casi, la discussione sul “tipo di Catalogna che vogliamo” è sempre meno procastinabili, e questo costituisce un terreno fertile per la riproposizione di istanze sociali. La risposta repressiva da parte dello Stato spagnolo, che quasi certamente ci sarà, richiederà una nuova forma organizzativa del movimento, cosí come un ripensamento totale delle pratiche. Insomma, ci troviamo ancora una volta di fronte un mutamento dello scenario che prefigura una nuova ricchezza del possibile.
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