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In viaggio con Emanuele

SPECIALE L/IVRE-7. Ripubblichiamo la riflessione del nostro amatissimo Antonello Sotgia da poco scomparso. “Emanuele Giordana in Viaggio all’Eden ripercorre l’andare dei molti che come lui nei primi ‘70 del secolo corso si spingono verso Kathmandu. Un percorso di formazione che, messo a reagire con quello che oggi in quei territori succede, interroga tutti noi”

Emanuele Giordana da sempre per me una voce della radio diventa ora un libro. Complice il ritrovamento di un «quadernetto» di appunti, racconta in Viaggio all’Eden il suo andare nei primi ’70 verso Kathmandu. Sono in molti a ridosso del ’68 in Europa a mettersi su quella strada, a puntare verso quell’Eden che aveva dato il titolo alla prima guida breviario dei freak italiani. Attenzione! Quel quadernetto dimenticato non è tuttavia un diario.

Dai riferimenti che veniamo a conoscere dal libro, in quelle pagine ci sono solo secche informazioni. È solo un brogliaccio. Mischia tra loro prezzi di biglietti, raffronta valute, traccia itinerari, ricorda nomi di alberghi, registra orari impossibili di improbabili mezzi di trasporto, elenca bar dove raccattare notizie, elabora la top ten delle sostanze “locali”. Mai indicazioni personali, impressioni, racconti. Nulla.

Piuttosto notizie raccolte sul posto o uscite dalla bocca di precedenti viaggiatori. D’aggiornare e trasmettere, magari con il semplice passa parola, a chi si incontra lungo la strada o a chi deciderà un domani di mettersi in viaggio. Parole per un discorso collettivo. Generazionale prima ancora che personale.  Parole che servono a ritrovare una comunità mondiale che fu capace di riconoscersi  in un luogo del mondo che, al contrario, sembrava far di tutto proprio in quel periodo per pensarsi diviso in blocchi.

Quando si tratta di viaggi lo scrivere in diretta non è mai diario. È resoconto. Il diario esce fuori dalla penna più tardi. Quando metti a reagire quel viaggio, che allora avevi caricato soprattutto con i tuoi sogni, con quello che è successo dopo. A te. A quei territori che hai attraversato.

Emanuele decide di farlo a distanza di 40 anni spesi «quale viaggiatore di lungo corso» nel lavoro di analisi e informazione giornalistica. Racconta quello che vede oggi e ha vissuto ieri proprio lì dove quel suo «grande viaggio» si è svolto. È questa la condizione temporale essenziale per cercare di comprendere quella parte di mondo che la guerra (le guerre) ha (hanno) trasformato. È questo il tempo per pensare al futuro. Lo puoi fare solo tornando al tempo della tua formazione che sai bene resterà per sempre appiccicata ai luoghi, prossimi o lontanissimi, che hai toccato.

Solo chi ha attraversato l’Afghanistan in tempi, in verità mai stati troppo lunghi, di pace riesce a spiegarci ora come la presenza militare occidentale in quel paese serva esclusivamente a sorvegliare e tenere in piedi la decina delle loro loro basi militari; che «andare via da quella sporca guerra sarebbe forse l’unico modo per farla finire».

Lui, Emanuele, si rimprovera di non essere stato capace di «aver gridato abbastanza» il fatto che anche noi italiani abbiamo contribuito a drogare con la guerra l’economia di quel paese. L’Afghanistan è un fallimento. Sarebbe anche un fallimento personale non riconoscerlo.

Viene alla mente il soggiorno, in quegli stessi anni in quel paese, di Alighiero Boetti, l’artista degli splendidi arazzi, quei filati multicolori che mischiano tra tra loro le parole del mondo. Ma questa è solo una nostra nostalgia.

Il libro non concede nulla né a nostalgia né a quella sorta di reducismo che in altri autori è il «viaggio di formazione». Chiede, non solo a quella parte che ha fatto quest’esperienze, ma a a tutta quella generazione, la sua (la mia), che cosa resta di quello che avrebbe voluto fare in quegli stessi anni o, almeno, dire quali sono gli occhiali che hanno inforcato per guardare al mondo.

L’invito al confronto, al mettere insieme le esperienze anche tra loro più disperate, per Emanuele deve iniziare dall’ esperienze più significative proprie di quella stagione in cui negli anni ’70 una di queste era certo percorrere la «mitica rotta che partiva da Milano per arrivare fino all’Eden, a Kathmandu.»

Lui si rende disponibile. Con questo libro si mette in gioco. Fa di quel racconto che intreccia con i suoi viaggi successivi, che hanno motivazioni diverse: dal reportage giornalistico per il manifesto, alla condivisone di un amore travolgente, al lavoro di cooperazione, alle parole della radio, una vera e propria autobiografia scientifica che non nasconde d’aver provato e provare emozioni.

Nel libro c’è posto quindi ancor prima delle persone, e non potrebbe essere altrimenti, per i luoghi e per la forma che prendono di volta in volta. Emanuele riesce sempre a farci vedere tutto, a scomporre e ricomporre immagini. Ha camminato dentro la città mondo. Continua meticciandosi sempre con quello che incontra.  A iniziare dalle forme del raccontarsi.

Trova le parole per trasmetterci, come fossero le fotografie di Ugo Mulas (quelle pubblicate sull’Espresso formato lenzuolo), il significato dei bar di Milano. Non il Giamaica degli artisti (allora troppo caro per i giovani capelloni), ma le latterie, quelle dove i servizi d’ordine del movimento studentesco e dei gruppi riuscivano a mettere in fuga quei balordi che osavano chiedere «il pizzo» e nel frattempo si raccontavano il mondo.

Intreccia   e ritrova a Kabul i fili dei telai accarezzati da Alighiero Boetti dalla terrazza del suo One Hotel. Forse non si è mai incontrato con l’artista torinese, ma di cui certo ne condivide la lezione. Alighiero Boetti trova nell’arte la possibilità di mettere in relazione mondi diversi salvaguardando le rispettive differenze.  Emanuele fa lo stesso. Anche lui ricerca fili che la ferocia delle guerre tendono a strappare con continua insistenza. Ci lavora a lungo.

Lo fa partendo proprio dal chiedersi che cosa provocasse molti ribelli dei ’70 a spingersi in «un paese senza mare, coperto di montagne e deserti rocciosi, con paesaggi mozzafiato, ma nemmeno un albero sotto cui riposare o un prato verde (entrambi vere rarità) con cui rinfrescare almeno la vista». Trova la risposta nel successivo lavoro di reporter che gli è servito nei decenni seguenti a dipanare le fila su cui è avvolto quel territorio: «nonostante tutto gli afgani ridevano, ridono ancora. Di te, del mondo, di se stessi».

Ancora: l’India e lo scempio (oggi) di Goa, poi Kathmandu nella città degli hippy e dei maoisti dove il viaggio finiva, i passaggi per Matala e le sue grotte una sorta di periferia del viaggio, i primi spinelli e la mistica dell’andare in oriente, il tè al latte, Istanbul che guarda (guardava?) a due orizzonti, russi, talebani, italiani anche in divisa.

Emanuele Giordana non giudica né nasconde come molti di quei viaggiatori non siano più tornati, acchiappati dall’ombra del lato oscuro delle sostanze. Parla dei corpi abbandonati nei loculi abitativi di paesi sbrindellati al tavolo da disegno in altrettante divisioni rispondenti alla geopolitica. Lo fa con rispetto, sa che anche questi sono vittime: loro, le loro famiglie, i loro compagni. Sa bene come per noi questa sia una ferita che non riusciremo mai a richiudere.

Sono queste le domande, non le risposte, che Emanuele pone a «chi aveva vent’anni allora, a chi quel viaggio non ha mai fatto e a chi ancora vorrebbe farlo». Tocca a noi, suoi coetanei, prendere ora parola. Non per dire dove abbiamo cominciato, ma per dire dove siamo ora.

“Viaggio all’Eden” verrà presentato a Esc sabato 23 dicembre in occasione del L/Ivre

ne discutono Emanuele Giordana e Giulio Battiston