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OPINIONI

Impero, vent’anni

In vista della conferenza “Impero vent’anni dopo” ripubblichiamo l’articolo in cui i due autori del libro interrogano le loro tesi nella crisi della globalizzazione

Vent’anni fa, quando è stato pubblicato il nostro libro Impero, i processi economici e culturali della globalizzazione erano al centro della scena: tutti potevano vedere che stava emergendo qualcosa come un nuovo ordine mondiale. Oggi la globalizzazione è ancora una volta una questione centrale, ma ora i commentatori di tutto lo spettro politico ne stanno eseguendo l’autopsia. Gli analisti politici dell’establishment, in particolare in Europa e in Nord America, lamentano il declino dell’ordine liberale internazionale e la morte della Pax Americana. Nuove forze reazionarie invocano il ritorno della sovranità nazionale, mettendo in crisi i patti commerciali pronosticando guerre commerciali, denunciando istituzioni sovranazionali ed élites cosmopolite, mentre alimentano il fuoco del razzismo e della violenza contro i migranti. Anche a sinistra alcuni si fanno forieri di una rinnovata sovranità nazionale che possa servire come arma di difesa contro le predazioni del neoliberalismo, delle corporation multinazionali e delle élites globali.

Nonostante simili pronostici, velleitari e angosciati, la globalizzazione non è morta e nemmeno in declino, ma è solo più difficile da interpretare. È vero che l’ordine globale e le strutture di comando globale che lo costituiscono sono ovunque in crisi, ma le varie crisi non impediscono, paradossalmente, il mantenimento del dominio delle strutture globali. L’ordine mondiale che sta emergendo, come il capitale stesso, funziona attraverso le crisi e se ne nutre[1]. Il fatto che i processi di globalizzazione siano oggi meno leggibili rende ancora più urgente indagare le tendenze degli ultimi vent’anni sia nella diversificata costituzione della governance globale, che include i poteri degli Stati-nazione ma si estende ben oltre di essi, sia le strutture globali della produzione e riproduzione capitalistiche.

Interpretare le strutture primarie di governo e sfruttamento in un contesto globale è la chiave per riconoscere e promuovere le potenziali forze di rivolta e liberazione. L’ordine globale che sta emergendo e le reti di capitale costituiscono senza dubbio un’operazione offensiva, contro la quale dovremmo sostenere le azioni di resistenza; ma queste dovrebbero anche essere riconosciute come risposte alle minacce e alle richieste trasmesse dalla lunga storia di internazionalismi rivoluzionari e di lotte di liberazione. Così come l’Impero di oggi si è formato in risposta ai movimenti dal basso delle moltitudini, così, potenzialmente, potrebbe ricadere su di loro, purché queste moltitudini siano in grado di comporre le loro forze in efficaci contropoteri e tracciare il cammino verso una forma alternativa di organizzazione sociale. I movimenti sociali e politici di oggi, sotto molti aspetti, si stanno già muovendo in questa direzione.

Sfere fuori sincrono

Immaginate che le crisi dell’Impero in corso si stiano dando all’interno di due sfere indipendenti che ruotano l’una dentro l’altra – le reti planetarie di produzione e riproduzione sociali e la costituzione di una governance globale – che sono sempre di più fuori sincrono. La sfera interna, il dominio planetario di produzione sociale e riproduzione, è costituita da reti di comunicazione sempre più complesse e densamente interconnesse, infrastrutture materiali e immateriali, linee di trasporto aereo, navale e terrestre, cavi transoceanici e sistemi satellitari, reti sociali e finanziarie e molteplici interazioni tra ecosistemi, umani e di altre specie. Le tradizionali forme di produzione economica localizzate, come l’agricoltura e l’estrazione mineraria, continuano a darsi nella sfera planetaria; ma vengono progressivamente assorbite, messe in moto e, in molti casi, minacciate da questi circuiti internazionali. Anche il lavoro è trascinato all’interno della rete planetaria dei mercati, delle infrastrutture, delle leggi e dei regimi di confine, ai quali è vincolato. I processi di valorizzazione e sfruttamento sono governati da una catena di montaggio globale molto differenziata, ma tuttavia integrata. Infine, le istituzioni della riproduzione sociale e i circuiti del metabolismo ecologico possono anche rimanere locali, ma anch’essi dipendono – e spesso sono minacciati da – sistemi dinamici sempre più estesi.

Questi sistemi planetari sussumono, sia in termini reali e formali, diverse pratiche della produzione e della riproduzione sociali, attraverso diversi spazi e temporalità. Il fatto che questa sfera sia così eterogenea, composta da confini e gerarchie che proliferano su vari livelli – in ogni metropoli, Stato-nazione, regione, continente – non deve impedirci di riconoscerlo come un coerente, benché estremamente differenziato, tutto: un solo, denso, insieme planetario[2]. Queste interconnessioni diventano più chiare, forse, quando ci confrontiamo con la nostra vulnerabilità condivisa: di fronte alla devastazione nucleare o al catastrofico climate change, l’intera rete degli esseri viventi e delle tecnologie viene minacciata, con conseguenze su tutti e tutto.

Attorno a questa sfera della produzione e riproduzione sociale, c’è una seconda sfera che la racchiude, composta da sistemi politici e giuridici intrecciati su diversi livelli: governi nazionali, accordi giuridici internazionali, istituzioni sovranazionali, rete di imprese, zone economiche speciali e molto altro. Questo non è uno Stato globale. Mentre cadono le pretese alla sovranità nazionale, quello che emerge sempre di più sono invece regimi di governance transnazionali. Queste strutture sovrapposte compongono una costituzione mista, che analizzeremo in dettaglio successivamente. Sulla superfice di questa sfera, le redini del governo sono principalmente nelle mani del mondo inferiore – capitani d’industria, baroni finanziari, élites politiche e magnati dei media.

Con l’avanzare della controrivoluzione neoliberale, le due sfere si sono sempre di più disarticolate. Ruotano su assi separati e occasionalmente si scontrano l’una con l’altra. Mentre i progetti riformisti del XX secolo come le politiche del New Deal – o, a livello internazionale, il sistema Bretton Woods sotto l’egemonia degli Stati Uniti – auspicavano un “liberalismo incorporato” per stabilizzare le relazioni tra le due sfere, per favorire lo sviluppo capitalistico e per mantenere le gerarchie su tutti i livelli del sistema globale, la controrivoluzione neoliberale ha creato una sfera di governance senza relazioni strutturali stabili con la sfera della produzione sociale e della riproduzione[3]. La governance imperiale neoliberale non cerca una simile mediazione ma solo di governare e catturare valore dalla sfera interna. Il fatto che i circuiti produttivi e riproduttivi della sfera interna siano sempre più autonomi non impedisce alla sfera della governance neoliberale di esercitare il suo comando: può misurare il valore ivi prodotto attraverso meccanismi monetari e, attraverso vari strumenti di finanza e di debito, estrarne il maggior valore possibile sotto forma di rendita. Sebbene ciò comporti inevitabilmente il proliferare di crisi economiche e finanziarie, questi non sono segni di un collasso imminente ma sono, invece, meccanismi di governo.

Le fortune dell’egemonia statunitense

Tuttavia, Il fatto che le due sfere siano sempre più fuori sincrono è solo un aspetto. È necessario osservare più da vicino la composizione di ogni sfera, per misurarne i poteri e stimarne le prospettive. Cominciamo facendo un passo indietro per mappare come le strutture dell’ordine globale siano cambiate negli ultimi vent’anni, guardando alle moltitudini che resistono e lo sfidano.

All’inizio degli anni ’90, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e quando le relazioni economiche, politiche e culturali hanno cominciato a estendersi in direzioni inedite oltre la capacità dei poteri sovrani nazionali, il Presidente degli Stati Uniti proclamò l’alba di un nuovo ordine mondiale. All’epoca, la maggior parte dei sostenitori e dei critici davano allo stesso modo per scontato che gli Stati Uniti, usciti “vittoriosi” dalla Guerra Fredda come unica superpotenza rimasta, avrebbero esercitato il loro impareggiabile potere hard e soft, assumendosi sempre più responsabilità mentre esercitavano un crescente controllo unilaterale sulle questioni globali. Dieci anni dopo, mentre le vittoriose truppe americane entravano a Baghdad, sembrava che il nuovo ordine mondiale annunciato da Bush Senior avesse trovato una realizzazione concreta nell’operato di Bush Junior. Le occupazioni americane in Iraq e in Afghanistan promettevano di “rifare il Medio Oriente” creando allo stesso tempo pure economie neoliberali dalle ceneri dell’invasione. Mentre i neoconservatori flettevano i muscoli, i critici denunciavano un nuovo imperialismo americano.

Dal punto di vista attuale, è ovvio che il potere unilaterale degli Stati Uniti era già limitato, e che le ambizioni imperialistiche di Washington erano vane. Quell’imperialismo era messo in crisi non dalla virtù illuminata dei suoi leader o dalla rettitudine repubblicana del suo spirito nazionale ma semplicemente dall’insufficienza della sua forza economica, politica e militare. Gli Stati Uniti potevano rovesciare i regimi talebano e ba’thista (mentre provocavano, invece, tragiche distruzioni), ma non potevano raggiungere l’egemonia stabile che si richiedeva a un vero potere imperialistico. Ora, dopo decenni di fallimenti in Afghanistan e in Iraq, dopo aver portato avanti la “guerra al terrorismo”, pochi possono avere ancora molta fiducia nei benefici di un sistema globale a guida americana o nella sua capacità di creare un ordine stabile[4]. A partire dalle elezioni di Trump i commentatori si sono interrogati a più riprese sulle possibilità di sopravvivenza dell’ordine liberale internazionale, quando, in realtà, la Pax Americana e il momento in cui gli Stati Uniti avrebbero potuto assicurare un ordine globale istituzionale, sono svaniti molto prima che Trump irrompesse sulla scena[5].

Questa nuova situazione non riguarda solo gli Stati Uniti: nessuno Stato-nazione è oggi in grado di organizzare l’ordine globale e mantenerne il controllo in maniera unilaterale. Coloro che diagnosticano il tramonto dell’egemonia globale statunitense – Giovanni Arrighi è stato uno dei primi e il più perspicace – di solito proiettano su un altro Stato il ruolo di successore egemonico. Questi interpreti pensano che come lo scettro dell’egemonia globale è passato all’inizio del XX secolo dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, così accadrà anche oggi: una volta spenta la stella degli Stati Uniti, un altro Stato sorgerà – e la Cina è il primo candidato della lista[6]. Al contrario, i commentatori istituzionali liberali si aggrappano alla convinzione che, nonostante il disordine internazionale creato da Trump, la stella degli Stati Uniti brilli ancora sul mondo e che parlare di un relativo declino dei suoi poteri militari, economici e politici sia esagerato. Per loro, gli Stati Uniti rimangono l’unico contendente per l’egemonia globale[7]. C’è un fondo di verità in queste osservazioni, ma il punto più importante è che il ruolo degli Stati Uniti, tanto quanto l’emergere di potenze come la Cina, devono essere intese non nei termini di un’egemonia unipolare ma invece come parte dell’intensa competizione tra Stati-nazione sui gradini della costituzione mista dell’Impero. Il fatto che nessun Stato-nazione sia capace di assumere il ruolo egemonico nell’ordine globale che sta emergendo non è sintomo di caos e disordine, ma rivela invece la comparsa di una struttura di potere globale nuova – e, certo, di una nuova forma di sovranità.

La costituzione mista dell’Impero

Quando Polibio salpò dalla Grecia nel II secolo a.C., trovò nel cuore dell’impero romano una struttura di potere inedita. I primi pensatori – Erodoto e Platone, in particolare – sostenevano l’esistenza di tre forme fondamentali di governo, definite geometricamente: il governo di uno, la monarchia; il governo dei pochi, l’aristocrazia; e il governo dei molti, la democrazia (a ognuno corrisponde anche una forma negativa: la tirannia, l’oligarchia e l’oclocrazia). Erodoto e Platone hanno analizzato le virtù relative di ciascuna costituzione e intendevano la storia politica nei termini di un passaggio dall’una all’altra. La novità rappresentata da Roma, secondo Polibio, era la sua costituzione mista: non un’alternanza delle forme di governo ma una composizione di tutte e tre[8].

Vent’anni fa abbiamo chiamato l’ordine contemporaneo che stava emergendo “Impero” per indicare questa costituzione mista di governance globale. L’Impero non è uno stato globale e non crea nemmeno una struttura di governo unica e centralizzata[9]. Sebbene gli schemi convenzionali usati in precedenza per cogliere le divisioni globali – primo e terzo mondo, centro e periferia, Est e Ovest, Nord e Sud – hanno perso molto del loro potere esplicativo, la globalizzazione di oggi non è un semplice processo di omogeneizzazione; implica, in egual misura, processi di omogeneizzazione e di eterogeneizzazione. Più che creare uno spazio liscio, la comparsa dell’Impero comporta la proliferazione dei confini e delle gerarchie a ogni scala geografica, dallo spazio delle singole metropoli a quello dei grandi continenti.

Qui possiamo solo delineare alcuni dei cambiamenti più drammatici nella costituzione imperiale negli ultimi vent’anni. Sul livello monarchico, la trasformazione più impressionante è stata lo svuotamento del centro. Negli anni ‘90, sebbene la loro stella fosse si fosse spenta, gli Stati Uniti occupavano ancora posizioni centrali nei settori chiave del potere. La bomba nucleare, il dollaro e la rete – Washington, Wall Street e Hollywood/Silicon Valley – erano in grado di esercitare una forza monarchica e quindi permettevano di mantenere in questi settori qualcosa come il “governo dell’uno”. La superiorità statunitense nel campo dell’hard e soft power continua ancora, ma su fondamenta sempre più traballanti e con limiti sempre più evidenti. In primo luogo, il formidabile arsenale degli Stati Uniti – le sue armi nucleari, i droni, i sistemi di sorveglianza e i suoi sofisticati apparati tecnologici, insieme alle sue basi militari e agli eserciti permanenti – è ancora significativamente superiore (oltre che più costoso) rispetto a quello di altre nazioni. Ma la sconfitta delle forze americane in Vietnam e i fallimenti in Afghanistan e Iraq hanno chiarito che, nonostante la sua crescente capacità di distruzione, le capacità monarchiche della macchina militare statunitense sono oggi molto più deboli.

In secondo luogo, la monarchia del dollaro, l’egemonia finanziaria e monetaria degli Stati Uniti, che vent’anni fa sembrava solida, si è progressivamente indebolita. Come per il potere militare, anche in questo settore il trono era già instabile, a partire almeno dalla dissociazione del dollaro dal sistema aureo. Secondo Timothy Geithner, a partire dagli anni ’90, il sistema finanziario e monetario degli Stati Uniti ha “sfidato la gravità”[10]. Queste fondamenta traballanti del potere monetario e finanziario sono state confermate dalla crisi finanziaria del 2008, che ha nuovamente messo in discussione la capacità degli Stati Uniti di svolgere un ruolo monarchico[11]. Infine, la posizione monarchica degli Stati Uniti è diminuita nel campo dell’industria culturale e della tecnologia digitale. Le imprese statunitensi predominano ancora nei mercati mondiali, ma ciò funziona sempre meno come soft power esercitato dagli Stati Uniti per l’egemonia globale. Le corporation, anche se hanno sede negli Stati Uniti, operano sempre di più su scala planetaria e contribuiscono solo in modo contradditorio all’immagine globale del paese. In tutti e tre i settori, quindi, gli Stati Uniti dominano ancora rispetto agli altri Stati-nazione e i pilastri del loro potere monarchico tengono ancora, ma mostrano sempre di più delle crepe. Ciò non vuol dire che un pretendente al trono possa reclamare il proprio posto: quello che sta crescendo a livello monarchico è un vero e proprio vuoto.

Il livello aristocratico dell’Impero, al contrario, sta affrontando sfide burrascose prodotte da poteri che emergono e declinano. Il “governo dei pochi” sul sistema globale è esercitato su tre terreni primari, da corporation, Stati-nazione dominanti e istituzioni sovranazionali. Una competizione intensa caratterizza le relazioni tra attori all’interno di ciascuno di questi terreni e tra di essi: le corporation contro gli Stati-nazione, per esempio, o gli Stati-nazione contro le istituzioni sovranazionali. Negli ultimi vent’anni, le posizioni relative all’interno delle gerarchie globali su ognuno di questi terreno si sono dislocate. Mentre le ricchezze della Cina sono aumentate, quelle degli altri paesi appartenenti ai BRICS che sembravano destinate a crescere hanno vacillato, almeno per il momento. All’apice delle valutazioni di borsa, General Motors e General Electric sono state soppiantate da Apple e Alibaba. Queste tendenze alla competizione tra corporation sono estremamente importanti e meriterebbero un’analisi dettagliata, ma il nostro principale interesse qui è di riconoscere che, nonostante la cacofonia che risulta dai loro conflitti, le varie forze aristocratiche stanno in realtà suonano la stessa musica. O, per cambiare metafora, sono tutti cavalieri che, nonostante le battaglie che conducono tra di loro, vivono al servizio di un codice cavalleresco condiviso e all’ordine sociale al quale esso corrisponde.

La cosa più importante a questo livello aristocratico dell’Impero è la misura in cui, nonostante le apparenze, i suoi contorni generali rimangono invariati. Da questa prospettiva, il tanto sbandierato ritorno dello Stato-nazione – insieme alla retorica nazionalista, alle minacce di guerre commerciali e alle politiche protezionistiche – dovrebbe essere inteso non come una frattura del sistema globale, ma piuttosto come varie manovre tattiche nella competizione tra poteri aristocratici. “America first!”, “Prima l’Italia!” e “Brexit!” sono le grida lamentose di chi teme di essere deposto dalle proprie posizioni di privilegio nel sistema globale. Come i contadini conservatori francesi che, secondo la descrizione di Marx, si erano mobilitati a partire dalle memorie della perduta gloria napoleonica (e che desideravano fare di nuovo grande la Francia), i nazionalisti reazionari di oggi non puntano tanto alla separazione dall’ordine globale ma piuttosto a risalire i gradini della gerarchia globale per raggiungere la posizione che spetta loro. In modo simile, i conflitti tra gli Stati-nazione dominanti e l’infrastruttura sovranazionale – pensate a Trump contro il “globalismo” nel suo discorso dell’Assemblea Generale delle Nazioni Uniti del 2018 – costituiscono una manovra per ottenere una posizione più dominante all’interno del sistema globale, piuttosto che un attacco contro di esso. Le élites che guidano gli stati-nazione dominanti e le istituzioni sovranazionali sono tutte mosse dai dettati dell’ideologia neoliberale irrevocabilmente dedicata alla costruzione e al mantenimento dell’ordine globale capitalistico[12].

Infine, il terzo e più ampio livello della costituzione mista, “il governo dei molti”, per forza di cose quello più caotico e meno leggibile, è composto da una vasta gamma di forze. Esso include l’intera panoplia degli Stati-nazione subordinati e delle imprese capitalistiche, insieme alle infrastrutture che le costituiscono; i social media e le televisioni; le organizzazioni non governative che sostengono i progetti di Stati e imprese, spesso riparando al danno che hanno fatto; associazioni religiose che sono esse stesse una forza politica; persino le milizie che combattono gli Stati, o che pretendono di aver creato Stati propri. Questo livello della costituzione mista può essere chiamato “democratico” solo nel senso deteriore del termine, in quanto non include movimenti anti-sistema o forze che possano costituire una minaccia seria al funzionamento dell’Impero. Invece, l’immensa gamma di forze che inseriamo qui, anche quando resistono ai poteri monarchici e aristocratici e li sfidano, alla fine servono a sostenere la costituzione imperiale nel suo complesso. Foucault ha magistralmente riconosciuto come figure che all’apparenza resistevano o si opponevano potevano alla fine servire a rinforzare il potere, così come la figura del delinquente fortifica il regime disciplinare[13]. Non intendiamo dire con questo, naturalmente, che tutti i tentativi di resistenza siano vani e saranno inevitabilmente cooptati dall’Impero, senza lasciare alcuna speranza per un’alternativa (nemmeno Foucault intendeva dire una cosa del genere). I movimenti di cui ora parleremo ci mostrano con chiarezza la possibilità di un’alternativa e di un’efficace resistenza.

Nuovi internazionalismi

Concentrarsi sulla globalizzazione dall’alto, però, procura una visione distorta, perché vi è al centro una risposta – e un tentativo di contenere – le forze della globalizzazione dal basso. L’internazionalismo rivoluzionario è stato per tutta la modernità il primo motore delle forze e dei processi della globalizzazione capitalistica. Tutte le rivoluzioni moderne – da Port-au-Prince a Shanghai, da Parigi all’Havana – sono state in un senso profondo internazionaliste, come lo sono state le correnti più ispiratrici delle pratiche politiche proletarie, dei movimenti anticoloniali e femministi e tutte le forme di lotta di liberazione. Leggere dal basso in questo modo ha permesso ad autori come Giovanni Arrighi e Frederic Jameson di riconoscere che lo sviluppo della globalizzazione neoliberale a partire dagli anni ‘70 è stata davvero una risposta alla confluenza o accumulazione degli anni ‘60 delle ribellioni operaie, delle lotte di liberazione e dei movimenti rivoluzionari in tutto il mondo[14]. Riconoscere le strutture di potere come una risposta non ha solo una funzione analitica ma ne ha anche una politica. Le forze più potenti per contestare e andare oltre il dominio dell’Impero assumeranno necessariamente la forma di altri internazionalismi. È quindi tanto più importante cercare di identificare e coltivare i nuovi internazionalismi che emergono oggi.

Un modo per riconoscere l’internazionalismo in azione è tracciare lo sviluppo di cicli internazionali di lotta: anche se ogni lotta può concentrarsi intensamente su condizioni locali e nazionali, nel momento in cui la fiaccola passa da un luogo all’altro il movimento acquista un significato globale. Le insurrezioni del 2010-2011 nate in Tunisia e in Egitto hanno dato il via a un ciclo, quando gli attivisti – prima in altri paesi del Nord Africa e nel Medio Oriente, poi in Spagna, Grecia e negli Stati Uniti, poi ancora in Turchia, Brasile e Hong Kong – hanno costruito accampamenti nelle piazze delle città e tradotto le richieste di democrazia nel loro proprio linguaggio politico. In modo analogo, NiUnaMenos, la lotta femminista contro la violenza sessuale e il patriarcato nata in Argentina, riecheggiando le lotte delle donne in Polonia per i diritti riproduttivi, è stata tradotta in modo innovativo nelle Americhe e al di là dell’Atlantico in Italia e Spagna. Si sta formando una nuova internazionale femminista, basata su nuove forme di sciopero politico[15].

Su scala molto più ampia, ma ancor meno leggibile, la migrazione costituisce una grande forza di internazionalismo e un’insurrezione continua contro i regimi di frontiera degli Stati-nazione e le gerarchie spaziali del sistema globale. Gli impressionanti pellegrinaggi verso e attraverso l’Europa nell’estate del 2015 a piedi, in treno, con ogni mezzo possibile – ora passati all’insidiosa traversata del Mediterraneo – hanno messo in pericolo i regimi di confine dell’Europa. In modo analogo, le straordinarie carovane dell’America Centrale di bambini e famiglie che attraversano il Messico verso il confine con gli Stati Uniti nell’autunno 2018 sono servite a rendere pubblica la crisi in corso del regime di confine con gli Stati Uniti[16]. Ma questi eventi estremamente mediatizzati sono solo i picchi di una gamma variegata di migrazioni globali, non solo da sud a nord, ma in ogni direzione: dalla Nigeria al Sudafrica, dalla Bolivia all’Argentina, dal Myanmar al Bangladesh, e dalla Cina rurale alla Cina urbana. Si tratta, certamente, di un insolito tipo di insurrezione internazionalista – da vicino, è difficile riconoscerla come politica. La stragrande maggioranza dei migranti potrebbe non essere in grado di articolare la natura politica della propria fuga, per non parlare di concepire le loro azioni come parte di una lotta internazionalista; infatti, i loro viaggi sono fortemente individualizzati. Strutture organizzative esplicite come le carovane sono rare anche all’interno di un unico flusso migratorio, per non parlare tra i vari movimenti globali. Non c’è un comitato centrale, nessuna piattaforma, nessuna dichiarazione di principi. Eppure, le linee di fuga dei migranti costituiscono un potere internazionalista.

Che siano spinti da motivi ufficialmente riconosciuti, come la fuga dalla guerra o dalla persecuzione, o per motivi delegittimati dalle autorità, come la semplice ricerca di fortuna, i migranti affermano la libertà di movimento, che può servire come base per tutte le altre libertà[17]. Occorre fare un passo indietro per tracciare il disegno del mosaico, per apprezzare il significato politico delle migrazioni globali come un‘insorgenza in corso. Siate certi che le autorità al potere riconoscono la minaccia: il potere dell’insorgenza è confermato dalle crudeli e costose strategie di contro-insurrezione lanciate contro i migranti, dai campi di concentramento in Libia, sostenuti dall’UE, alle politiche barbare al confine degli Stati Uniti. L’insorgenza dei migranti, nel semplice atto di attraversarli, minaccia di far crollare e rompe i vari muri che segmentano il sistema globale.

Il capitale globale e il comune

L’analisi della costituzione mista della governance globale deve essere completata dall’indagine dell’altra sfera, quella della produzione e riproduzione – perché, anche se fuori sincrono, ogni sfera richiede il sostegno dell’altra. Come il capitale nazionale aveva bisogno dello Stato-nazione per garantire i suoi interessi collettivi e a lungo termine, così anche il capitale globale richiede oggi una complessa struttura di governance globale. La sfera delle relazioni capitalistiche, come quella della governance, è composta da uno straordinario insieme di elementi eterogenei, conflittuali e instabili che agiscono su differenti livelli: singole imprese capitalistiche in competizione l’una con l’altra; capitali nazionali, anch’essi spesso in conflitto; varie forme di lavoro salariato, non salariato e precario – tanto quanto elementi non capitalistici, che sono sempre stati parte delle società capitalistiche. Come per l’altra sfera, rilevare l’eterogeneità degli elementi non dovrebbe impedirci di riconoscere il disegno complessivo[18].

Delineiamo qui brevemente alcune direzioni chiave nello sviluppo del capitale seguendo alcune analisi critiche, sia accademiche che militanti, che si sono date negli ultimi vent’anni. (Infatti, la messa in questione sempre più diffusa del dominio capitalistico è stata accompagnata da un fiorire di analisi marxiste e anticapitalistiche.) Oltre a rivelare le nuove e, in molti casi, più severe forme di dominio e sfruttamento capitalistici, un primo mandato della critica dell’economia politica consiste nel cercare semi di resistenza e libertà all’interno dei circuiti di produzione e riproduzione capitalistica. Per fare questo, ci concentriamo innanzitutto sui modi in cui i movimenti contro la società capitalistica e il suo regime disciplinare hanno funzionato come motori dello sviluppo capitalistico. È una storia di cooptazione e cattura, ma anche, e soprattutto, un indice della potenza della rivolta: dove si dà il potere per far avanzare il capitale c’è anche il potenziale per rovesciarlo. Esaminiamo i modi in cui il capitale, perseguendo il proprio sviluppo, crea armi che possono eventualmente essere usate contro esso stesso[19].

Quello che colpisce di più nelle analisi degli sviluppi capitalistici recenti è il ruolo centrale giocato dal comune nelle sue varie forme, dalle risorse naturali alla produzione culturale, dai dati biometrici alla cooperazione sociale. Il comune è sempre di più centrale nella produzione e riproduzione sociale capitalistica – il valore che il capitale accumula risiede, sempre di più, nel comune – eppure disegna anche un potenziale per un’autonomia sociale dal capitale, un potenziale di rivolta. Descriviamo brevemente tre settori chiave che emergono all’interno delle analisi del capitale, in cui il comune svolge questo ruolo centrale e, allo stesso tempo, paradossale: l’estrattivo, il bio-politico e l’eco-sistemico.

Molte analisi recenti sulla produzione e riproduzione capitalistiche si concentrano attorno al concetto di estrazione, inteso nel senso più ampio del termine. Sottolineano non solo l’espansione delle tradizionali pratiche estrattive – gas, petrolio, minerali, agricoltura monoculturale – in cui il valore è un certo senso attinto direttamente dalla terra, ma anche i modi di accumulazione ottenuti attraverso la privatizzazione della ricchezza pubblica e delle infrastrutture (trasporti e sistemi di comunicazione, patrimonio culturale) come anche nuove forme di estrazione in cui i valori umani e sociali – inclusi il sapere, i dati, la cura, i circuiti della cooperazione sociale – sono appropriati e accumulati. “Non è solo quando le operazioni di capitale saccheggiano la materialità della Terra e della biosfera”, scrivono Sandro Mezzadra e Brett Neilson, “ma anche quando incontrano e attingono a forme e pratiche di cooperazione umana e di socialità esterne ad esse che possiamo affermare che si tratta di estrazione”[20].

La metafora del data-mining fornisce una lente utile per vedere come le tradizionali operazioni estrattive si sono trasferite nei settori sociali. L’accumulazione attraverso le piattaforme dei social media, per esempio, può implicare non solo la raccolta e l’elaborazione dei dati forniti dagli utenti, ma anche la creazione di mezzi algoritmici per capitalizzare l’intelligenza, il sapere e le relazioni sociali che racchiudono[21]. Piattaforme come Uber e Airbnb hanno in maniera analoga trasformato pratiche di “sharing” dall’offerta di un bene ad altri per uso comune in un mezzo di estrazione di valore. Anche la finanza funziona attraverso il proprio modo di estrazione. In parte, naturalmente, gli strumenti finanziari sono strumenti speculativi e creano valori puramente “fittizi”, ma soprattutto la finanza e le relazioni di debito sono mezzi per estrarre valori che sono prodotti socialmente, fuori dalla gestione diretta del capitale finanziario. Insieme ad altri, identifichiamo questo sviluppo all’interno degli schemi capitalistici dell’accumulazione come il passaggio dal profitto alla rendita: dove il capitale industriale crea profitto in gran parte gestendo il processo di produzione e organizzando forme di cooperazione, la finanza estrae rendite sulla ricchezza prodotta non sotto la sua gestione diretta ma attraverso forme di cooperazione produttiva che le sono esterne[22].

Queste analisi dell’estrazione risuonano fortemente con ciò che David Harvey definisce giustamente accumulazione per spossessamento. Questi processi operano primariamente attraverso nuove enclosures dei beni comuni e attraverso l’estrazione della ricchezza, che risiede o nella terra o nelle infrastrutture pubbliche[23]. Infine, condannando lo sfruttamento di ogni forma di sfruttamento e la distruzione sociale ed ecologica che essi provocano, sottolineiamo che ogni forma di estrazione attinge a valori prodotti esternamente alla sua diretta sfera di gestione. L’estrattivismo saccheggia le varie forme del comune-ecologico, sociale e biopolitico[24]. Questo processo di saccheggio punta verso un potenziale che risiede all’interno del comune, sul quale ritorneremo[25].

Una seconda serie di analisi sottolinea il ruolo del comune nelle relazioni biopolitiche, che riguarda forme di produzione intellettuale e la generazione di affetti e cura, che abbraccia il mondo produttivo e quello riproduttivo. Gli studi sul capitalismo cognitivo analizzano in generale il ruolo del sapere, dell’intelligenza e della scienza nella produzione contemporanea, enfatizzando fino a che punto il “general intellect” – vale a dire i saperi accumulati in una società che sono diventati in un certo senso comune – è diventato direttamente produttore di valore[26]. Altri si concentrano sul lavoro digitale e sulla produzione di valore mediante le reti digitali e le piattaforme, che in alcuni casi si basano sul valore generato dall’attenzione degli utenti[27]. Insieme all’intelligenza e all’attenzione, anche gli affetti sono sempre di più messi a lavoro nella società capitalistica, il più delle volte secondo gerarchie di genere consolidate. Lavori che richiedono un ampio apporto di produzione affettiva – personale infermieristico, assistenti domestici, personale amministrativo, lavoratori domestici salariati, insegnanti delle scuole primarie, camerieri – sono pagati poco, estremamente precari e, di conseguenza, sono prevalentemente svolti da donne. La produzione degli affetti è in oltre centrale per il settore non retribuito della riproduzione sociale, compreso il lavoro domestico, che continua a essere caratterizzato da una divisione del lavoro sulle linee del genere[28].

In queste analisi riconosciamo nuove e intensificate forme di sfruttamento e di dominazione, insieme a nuove forme di controllo biopolitico e alla colonizzazione e mercificazione di altri settori dell’esistenza umana. Oggi, come mostrano le ricerche, le forze biopolitiche produttive sono racchiuse in rapporti di proprietà privata, nella fatica del lavoro salariato o subordinate e ricattate mentre il valore che producono continua a essere espropriato e accumulato. Ma anche qui dobbiamo riconoscere la natura sociale del comune, in quanto intelligenza, sapere, attenzione, affetto e cura sono tutte immediatamente capacità sociali, definite dalle azioni collettive e dalla loro interdipendenza. In queste risorse di sapere condiviso, di intelligenza collettiva, di relazioni di affetto e cura de-mercificate e, infine, nei circuiti della cooperazione sociale si costruiscono grandi riserve biopolitiche del comune, che detengono il potenziale per diventare autonome dal controllo capitalistico.

Un terzo terreno di analisi si rivolge al comune in modo ancora più diretto, indagando la molteplicità di modi in cui lo sviluppo del capitale distrugge la terra e il suo ecosistema. Le analisi sul cambiamento climatico, in particolare, mostrano come la storia dello sviluppo capitalistico sia intimamente legata all’estrazione dei combustibili fossili. Molti autori lo sottolineano affermando che le azioni umane causano il climate change o che siamo entrati nell’era dell’Antropocene, come se la specie in quanto insieme fosse in maniera equa responsabile per le decisioni che hanno determinato la situazione attuale – affermazione che nasconde il fatto che i veri responsabili sono una classe relativamente piccola di capitalisti nei paesi dominanti. Come emerge chiaramente da queste ricerche, una precondizione necessaria per ogni progetto di preservazione del benessere della terra a lungo termine è la sfida e il superamento del primato del dominio capitalistico[29]. Il fatto che il comune sia la posta in gioco in questo settore è cosa immediatamente riconoscibile, dal momento che gli ambiti della vita che erano una volta condivisi – la terra, i mari, l’atmosfera – sono chiusi o deteriorati. Anche se i poveri soffriranno di più e per primi per gli effetti del cambiamento climatico, alla fine soccomberemo tutti. Tuttavia, il comune è centrale non solo per quello che abbiamo perso, ma anche per le alternative che potremmo costruire. Le proteste indigene contro la distruzione capitalistica mostrano chiaramente la necessità per gli umani di costruire una nuova relazione con la terra, caratterizzata da relazioni di interdipendenza e cura – per fare della terra un bene comune[30].

Quello che emerge in tutte queste analisi del capitale contemporaneo è il potere del comune in tutte le sue forme, dalla terra e dall’acqua ai circuiti metropolitani di cooperazione sociale, dai saperi condivisi e dall’intelligenza alle relazioni affettive e alla riproduzione sociale. Il capitale è diventato sempre di più un apparato di cattura che saccheggia il comune, estraendo il valore lì prodotto e creando una pluralità di forme di sofferenza e di distruzione. Ma tutti questi settori del comune, in particolar modo quando si mobilitano e si riuniscono in relazioni di interdipendenza, hanno il potenziale per l’autonomia – il potenziale per creare relazioni sociali al di là del dominio capitalistico.

Classe – moltitudine – classe apice uno

La molteplicità sta diventando l’orizzonte esclusivo della nostra immaginazione politica. I movimenti più interessanti degli ultimi decenni, da Cochabamba a Standing Rock, da Ferguson a Città del Capo, dal Cairo a Madrid, sono stati animati dalle moltitudini. La leaderlessness [l’essere senza leader, ndt] è un’etichetta che viene spesso usata per parlare di queste mobilitazioni, in particolar modo dai media: e, in effetti, i movimenti rifiutano le tradizionali forme di leadership centralizzata e provano a creare nuove forme democratiche di espressione. Ma invece che descriverli come senza leader, è più produttivo intenderli come una moltitudine di lotte – produttivo perché ci permette di cogliere sia le loro virtù sia le sfide che affrontano. Questi movimenti hanno raggiunto risultati importanti, hanno spesso alluso ad un mondo alternativo, che sia migliore, ma sono stati in genere di breve durata – molti di loro sono stati sconfitti e alcuni hanno assistito a un ribaltamento brutale delle loro vittorie. C’è bisogno di qualcosa di più e – come affermano molti militanti – è necessario pensare in modo creativo e originale l’organizzazione politica. Non abbiamo alcun interesse a dare lezioni a questi movimenti sulla necessità di abbandonare la loro molteplicità per costruire un soggetto politico unificato, sia questo un consiglio direttivo centralizzato, un partito o “un popolo”. È improbabile che un ritorno alle tradizionali forme di organizzazione si traduca in movimenti più duraturi o efficaci – e, in ogni caso, quelle forme tradizionali sono state esplicitamente rifiutate dalle sensibilità democratiche degli stessi attivisti. Inoltre non crediamo, per dirlo in termini astratti, che solo “l’Uno” possa decidere. La domanda più importante per noi è: come può una molteplicità agire politicamente, con sufficiente potere per realizzare una reale trasformazione sociale?

Può essere forse utile fare un passo indietro a vent’anni fa e avvicinarsi alla situazione contemporanea da quel punto di vista. Per esplorare il potenziale dei movimenti di oggi tracciamo due passaggi storici e teorici: dalla classe alla moltitudine e dalla moltitudine alla classe. Questo movimento potrebbe a prima vista sembrare quello di un pendolo, un semplice viaggio di andata e ritorno, ma va, invece, inteso come un modo per segnare un avanzamento teorico e politico, in quanto la “classe” nella fase di partenza non è la stessa all’arrivo: il passaggio attraverso la moltitudine ne trasforma il significato. La formula generale di organizzazione che proponiamo, quindi, è C-M-C’, classe-moltitudine-classe apice uno[31]. Come nella formula di Marx, l’importanza è nella trasformazione che si dà al centro del processo. La classe apice uno deve essere una classe moltitudinaria, una classe intersezionale.

Da classe a moltitudine

Il passaggio dalla classe alla moltitudine designa, in parte, l’idea generale che si è sviluppata negli ultimi anni secondo cui la classe operaia deve essere intesa nei termini della molteplicità, sia all’interno sia all’esterno del suo orizzonte – questo passaggio corrisponde allo svuotamento delle pretese di rappresentare la classe operaia da parte dei partiti tradizionali e delle istituzioni sindacali. Come formazione empirica, naturalmente, la classe operaia non ha mai smesso di esistere. Ma da quando la sua composizione interna è cambiata – con nuove forme di lavoro, nuove condizioni lavorative e relazioni salariali – sono necessarie nuove ricerche sulla composizione di classe. In particolare queste dovrebbero esplorare i poteri della cooperazione sociale e del comune. Inoltre, le differenze tra le popolazioni lavoratrici, che sono sempre esistite, rifiutano ora sempre più una rappresentazione unitaria. Le differenze tra i settori lavorativi – per esempio, tra lavoro salariato e non, tra lavoro stabile e precario, tra lavoratori in regola e non – insieme alle differenze di genere, razza e nazionalità, che in qualche misura si cartografano su queste differenze di status lavorativo – chiedono di trovare forme di espressione. A quest’altezza, qualsiasi indagine della composizione di classe – e qualsiasi proposta di progetti politici di classe – deve essere incorporata nell’analisi intersezionale. Questa non è una classe, si potrebbe dire, se per classe si intende un soggetto che è internamente unificato, o che può essere rappresentato come un tutto unificato: è una moltitudine, un’irriducibile molteplicità.

Allo stesso tempo, il passaggio da classe a moltitudine indica che le lotte della classe operaia, e quelle anticapitalistiche in generale, devono essere messe insieme su una base paritaria con altre lotte su altri assi di dominazione: femminista, antirazzista, decoloniale, queer, anti-abilista e altri ancora (i teorici della molteplicità non sono spaventati dagli insiemi aperti e dalle liste senza fine). In questo senso, il concetto di moltitudine è strettamente alleato – e, anzi, in profondo debito – con l’analisi e la pratica intersezionale che emerge dalla pratica teorica del femminismo black statunitense. L’intersezionalità, al livello più elementare, è una teoria politica della molteplicità, che punta a contrastare le tradizionali strutture mono-assiali delle analisi politiche, riconoscendo la natura interdipendente di razza, classe, sesso, genere e gerarchie nazionali. Questo significa, in primo luogo, che nessuna struttura di dominazione è primaria rispetto ad altre (o che le altre siano a essa riducibili), ma sono, invece, relativamente autonome, cioè hanno un pari significato e si costituiscono a vicenda. In secondo luogo, tanto le strutture di dominazione sono caratterizzate dalla molteplicità quanto lo sono le soggettività che sono in relazione con esse. Dire questo non implica né un rifiuto dell’identità o una concezione cumulativa e addizionale di molte identità; piuttosto richiede un ripensamento della soggettività nella prospettiva della molteplicità[32]. L’appello a moltitudini intersezionali non è solamente un appello per una maggiore inclusione ma piuttosto, come scrive Jennifer Nash, “un progetto di anti-subordinazione” – cioè, una strategia combattiva e rivoluzionaria che si dà simultaneamente su molteplici fronti[33].

A questo punto, può essere utile considerare il passaggio da classe a moltitudine attraverso il concetto di precarietà, secondo due significati. Il primo, sviluppato principalmente da teorici e attivisti europei, è concepito in termini di salario e rapporti di lavoro[34]. La precarietà in questo senso segna un contrasto con i contratti di lavoro stabili che sono servito come ideale regolativo nell’economia fordista della metà del XX secolo – un ideale regolativo che in realtà è esistito solamente per un numero limitato (e generalmente maschile) di lavoratori industriali nei paesi dominanti. I contratti di lavoro garantiti e le leggi che proteggono i diritti dei lavoratori sono stati progressivamente erosi e i lavoratori sono stati costretti ad accettare contratti di lavoro informale e a breve termine. Questi contratti di lavoro sono sempre stati razzializzati e genderizzati, certo: ma tutti i settori della forza lavoro sono colpiti da questa tendenza, anche se in modi e misure differenti. La precarizzazione del lavoro è un’arma potente del grande arsenale del neoliberalismo.

L’altro significato di precarietà, sviluppata da autori statunitensi, fornisce un utile complemento e ancora serve come parte di un’interpretazione – e di sfida – del neoliberalismo, ma a partire da una prospettiva molto più ampia. La precarietà, scrive Judith Butler, “designa quella condizione politicamente indotta per cui determinate persone soffrono più di altre per la perdita delle reti economiche e sociali di sostegno, diventando differenzialmente esposte all’offesa, alla violenza e alla morte”[35]. La precarietà lavorativa è certamente una parte del mix, ma la nozione di vita precaria aspira a capire come i cambiamenti giuridici, economici e governamentali hanno aumentato l’insicurezza di un ampio insieme di popolazioni già subordinate – donne, persone trans, gay e lesbiche, persone di colore, migranti, disabili e altre. Vi è quindi una nozione di precarietà che parla il linguaggio della classe operaia e un’altra che promuove una visione intersezionale. Mettetele insieme e avrete una buona base per teorizzare la moltitudine.

Non intendiamo questo movimento da classe a moltitudine (o dal popolo alla moltitudine) come un mandato politico. Esso non sarebbe necessario dal momento che si tratta già di un fatto compiuto che si è manifestato negli ultimi vent’anni in diversi paesi e contesti sociali. Capiamo che molti considerano il passaggio storico dalla classe alla moltitudine come un declino e una perdita, a partire dalla diminuzione del potere e dell’appartenenza ai sindacati istituzionali e ai partiti della classe operaia (e, infatti, non tutte le molteplicità sono politicamente progressiste; le folle e le masse hanno la stessa probabilità di essere reazionarie). Ma dovremmo anche riconoscere tutto quello che è stato ottenuto in questo processo. Al livello dell’analisi, dovrebbe essere ovvio che la molteplicità delle strutture di dominio che si costituiscono vicendevolmente offre una lente superiore per cogliere la nostra realtà sociale, e questo richiede di integrare la nostra breve indagine sul governo capitalistico con altrettante analisi sulle strutture istituzionali di razza, genere e gerarchie sessuali. Ma è ancora più cruciale a livello pratico: non ci sarà un progetto di politiche di classe oggi che non sia anche femminista, antirazzista e queer.

Ripensare la classe

Teorizzare la molteplicità, o anche riconoscere le molteplicità esistenti, non basta – soprattutto se per molteplicità si intende semplicemente la frattura e la separazione. Per durare ed essere politicamente effettiva è necessaria l’organizzazione. E quando si tratta di molteplicità la necessità è ancora più forte. Per rispondere alla nostra domanda iniziale – come può una molteplicità decidere e agire politicamente? – dire semplicemente che deve organizzarsi non è molto d’aiuto. Il passo successivo, quindi, richiede un ritorno al concetto di classe – ma qui la classe è concepita in modo diverso – per esplorare più in profondità cosa può diventare una moltitudine e come può agire politicamente. Un’obiezione ovvia alla proposta del secondo movimento, da moltitudine a classe, è che sgretola tutti i risultati ottenuti nel movimento precedente, da una concezione politica unificata basata su un asse unico di dominio, quello determinato dal capitale, a una molteplicità, che coinvolge anche il patriarcato, la supremazia bianca e altri assi. Il nostro obiettivo, però, è di sviluppare una concezione della classe che non si riferisca solamente alla classe operaia ma che sia essa stessa una molteplicità, una formazione politica che mantenga le promesse della moltitudine.

Innanzitutto può essere utile riferirsi ad autori che usano il concetto di classe al di là del suo riferimento alla classe operaia, per prendere in considerazione il dominio e la lotta che riguarda la razza e il genere. Achille Mbembe, per esempio, analizza i modi di controllo contemporanei impiegati contro i migranti africani diretti in Europa nei termini di una “classe razziale”:

L’Europa ha deciso non solo di militarizzare le sue frontiere ma di estenderle… [i suoi confini] sono ora dislocati lungo tutti i percorsi mobili e tortuosi che chi migra intraprende, rilocalizzati per tenere il passo con le loro traiettorie. In realtà è il corpo dell’Africano, di ogni Africano preso individualmente, e di tutti gli Africani in quanto classe razziale che costituisce ormai la frontiera dell’Europa. Questo nuovo tipo di corpo umano non è solamente il corpo-pelle e il corpo esecrabile del razzismo epidermico, quello della segregazione. È anche il corpo-frontiera, quello che traccia il limite tra quelli che sono dei nostri e quelli che non lo sono, e che possiamo maltrattare impunemente[36].

Nel nuovo regime globale di mobilità, sostiene Mbembe, gli africani saranno trasformati in “una classe razziale stigmatizzata”. Per lui, il concetto di classe qui non è, o non è solo, una categoria socio-economica. Serve invece come mezzo per pensare la differenza razziale collettiva che non si basa solo sul colore della pelle; questa classe razziale nasce nelle strutture e istituzioni razziste europee.

Nei riferimenti di Mbembe riecheggiano le femministe degli anni ’70 come Christine Delphy, che ha utilizzato il concetto di “classe sessuale” per capire la dominazione patriarcale e per designare una base per la lotta femminista. Alle altre femministe che le hanno contestato l’uso del concetto, Delphy ha risposto che il concetto di classe potrebbe cogliere meglio di ogni altro come i soggetti sociali subordinati sono creati dalle relazioni di dominio. Da questa prospettiva, scrive Delphy, “non possiamo considerare ogni gruppo separatamente l’uno dall’altro, in quanto sono uniti da un rapporto di dominazione… I gruppi non sono… costituiti prima del loro essere in rapporto. È invece il loro rapporto che li costituisce in quanto tali”[37]. Qui, dunque, le relazioni di dominio precedono soggetti sociali e li costituiscono. Nell’uso di Delphy, ancora una volta, la classe non si riferisce esclusivamente allo status economico, ma implica invece una procedura analitica che può essere utilizzata rispetto a qualsiasi asse di dominio.

Il nostro interesse per le analisi di Mbembe e di Delphy è, in primo luogo, per evidenziare questo punto – che il concetto di classe può essere utilizzato per cogliere gli effetti dell’assoggettamento creato dalle relazioni di dominio, non solo rispetto al capitale ma anche rispetto alla supremazia bianca e al patriarcato, negli interessi non solo della classe operaia ma anche della classe razziale, della classe sessuale e di altre. In secondo luogo, è importante sottolineare che il concetto di classe viene qui utilizzato non solo come rivendicazione descrittiva, ma come un appello politico a coloro che sono sottoposti a gerarchie patriarcali o razziali per lottare insieme, come una classe[38]. Infine, e questo è il punto più difficile da affrontare: riconoscere una pluralità di classi dominate e che lottano in parallelo è un passo avanti, ma non è sufficiente. La nozione di “classe moltitudinaria” o di “classe intersezionale” che cerchiamo richiede un ulteriore passaggio: un’articolazione interna di queste diverse soggettività – classe operaia, classe razziale, classe sessuale – in lotta. Le analisi intersezionali in genere affrontano la necessità di articolare tra loro le soggettività subordinate nei termini di solidarietà e coalizione. Questa mossa spesso ripropone una strategia addizionale: classe operaia, più femminista, più antirazzista, più LGBTQ, più…. In altre parole, anche quando l’analisi intersezionale rifiuta nozioni addizionali di identità, una logica addizionale può essere ancora alla base degli immaginari degli attivisti. La debolezza di questo approccio è che i legami di solidarietà rimangono esterni. Ciò di cui c’è bisogno sono legami interni di solidarietà – vale a dire un diverso modo di articolazione, che vada oltre le concezioni tradizionali della coalizione.

Illustriamo questa condizione chiave – le relazioni interne di solidarietà nella classe moltitudinaria – con tre esempi teorici. Il primo, Rosa Luxemburg: dopo il fallimento dell’insurrezione del 1905 in Russia, Luxemburg ha criticato il proletariato tedesco e il suo partito per le loro espressioni di simpatia e il sostegno per i cugini russi, tinte di accondiscendenza o ammirazione. Luxemburg, naturalmente, non chiedeva che i lavoratori tedeschi si disimpegnassero o che prestassero meno attenzione alle lotte russe – esattamente il contrario. Il problema per lei è che simili espressioni di “solidarietà di classe internazionale” ponevano solo una relazione esterna: i rivoluzionari tedeschi dovevano invece riconoscere che gli eventi russi erano un loro problema e che erano interni alla loro lotta, “un capitolo della loro storia sociale e politica”[39].

Un secondo esempio teorico: Iris Young all’inizio degli anni ‘80 ha criticato i socialisti maschi che si dichiarano solidali con il movimento femminista. “In generale”, scrive, “i socialisti non considerano la lotta contro l’oppressione delle donne un aspetto centrale della lotta contro il capitalismo stesso”[40]. Si noti che Young non si rivolge ai socialisti maschi misogini e antifemministi, che erano molti, ma piuttosto ai compagni maschi che offrono solidarietà alle femministe, o che vedono la lotta femminista come alleata ma separata dalla propria. Come Luxemburg, Young accusa il fatto che una simile solidarietà non sia sufficiente. Young esorta i socialisti maschi, infatti, a riconoscere la lotta femminista contro il patriarcato come un capitolo della loro storia sociale e politica. Non si può essere veramente anticapitalisti senza essere anche femministi perché, essendo il capitale e il patriarcato reciprocamente costitutivi, l’uno non può essere sconfitto senza che venga sconfitto anche l’altro.

Un terzo esempio: Keeanga-Yamahtta Taylor propone un ragionamento simile rivolgendosi agli attivisti antirazzisti negli Stati Uniti che non si concentrano anche sul dominio di classe. Troppo spesso, sostiene, c’è una sorta di segregazione delle lotte, per cui le lotte anticapitalistiche sono ritenute compito dei bianchi, mentre le persone di colore devono condurre lotte antirazziste. “Nessuna seria corrente socialista negli ultimi cento anni”, scrive Taylor, “ha mai preteso che i lavoratori neri o latino-americani mettessero le loro lotte in secondo piano mentre viene condotta prima qualche altra lotta di classe. Questo assunto si basa sull’idea sbagliata che la classe operaia sia bianca e maschile e quindi incapace di affrontare questioni di razza, classe e genere. In realtà, la classe operaia americana è donna, migrante, nera, bianca, bianca, latino/a e altro ancora. Le questioni dei migranti, le questioni di genere e gli antirazzismi sono questioni della classe operaia”[41]. Non si tratta di accettare la partecipazione di alleati o di esprimere solidarietà; la lotta contro la supremazia bianca e quella contro il capitale devono essere intese come interne l’una all’altra.

L’obiezione a questo punto potrebbe essere: vero, hanno tutti bisogno di lottare insieme perché sono tutti precari nei due sensi discussi in precedenza, ma una simile proiezione dell’identico non è utile, perché i modi della precarietà e del dominio sono diversi. Dobbiamo mantenere la concezione del molteplice – la dominazione capitalistica non è la stessa cosa di quella di genere o di razza, e non si può sussumere l’una all’altra. Invece di una riduzione all’identico, questa proposta richiede un’articolazione tra le soggettività in lotta. Questo è il motivo per cui la classe – una classe moltitudinaria – piuttosto che la coalizione ci sembra il concetto appropriato. Ma questa è un’idea di classe che non è composta solo da una molteplicità – e che è fondata su forme di cooperazione sociale e sul comune – ma è anche articolata da legami interni di solidarietà e intersezione tra le lotte, che riconoscono ognuna che le altre sono “un capitolo della propria storia sociale e politica”. Questo è la sua forma di articolazione, il suo modo di assemblarsi. Questo è il motivo per cui chiamiamo questa nozione trasformata “classe apice uno”, di modo che invece di classe-moltitudine-classe, l’intero movimento che stiamo cercando di articolare è classe-moltitudine-classe apice uno: C-M-C’. Questo serve almeno come risposta teorica iniziale alla nostra domanda precedente: una molteplicità può agire politicamente? Sì, può farlo come classe apice uno, come una molteplicità articolata internamente egualmente orientata alla lotta contro il capitale, il patriarcato, la supremazia bianca e altri assi di dominio. Certo, è solo una risposta formale e concettuale, ma forse può offrire un quadro di riferimento per pensare e perseguire quel progetto politico.

Elogio dell’alter-globalizzazione

Il 1° gennaio 1994, giorno dell’entrata in vigore del NAFTA, l’Esercito zapatista di liberazione nazionale dette vita a un’insurrezione in Chiapas, Messico; il 30 novembre 1999, i manifestanti di Seattle hanno bloccato le riunioni del World Trade Organization; il 25 gennaio 2001, il World Social Forum è stato inaugurato a Porto Alegre, Brasile, in contrapposizione con il World Economic Forum a Davos, Svizzera; e il 21 luglio 2001, moltitudini hanno inondato le strade di Genova per protestare contro il vertice del G8. Il ciclo internazionale di lotte di alter-globalizzazione che si è sviluppato nelle Americhe e in Europa ha avuto numerosi difetti: la sua natura nomadica e le pratiche di “summit-hopping” in molti casi hanno eclissato le attività di organizzazione locale e duratura; questi movimenti stati spesso criticati, soprattutto dagli attivisti, per non aver sviluppato a sufficienza le caratteristiche intersezionali che abbiamo appena delineato; e la stagione delle lotte è stata relativamente breve, in parte a causa delle loro stesse debolezze organizzative. Si dovrebbe tenere presente, naturalmente, che i movimenti sono stati bloccati anche dai severi regimi di sicurezza in vigore dopo l’11 settembre; gli attivisti hanno dovuto spostare la loro attenzione dall’alter-globalizzazione ai movimenti contro la guerra.

La straordinaria virtù di queste proteste era la loro pratica teorica. I movimenti hanno costruito una visione critica globale e sono stati in grado, attraverso i loro eventi organizzati, di rendere leggibile il significato politico del campo relativamente oscuro delle istituzioni economiche globali. Più che un movimento, quindi, potrebbero essere intesi come una vasta indagine collettiva di co-ricerca sulla natura dell’ordine globale che stava emergendo. Gli attivisti sapevano che le grandi multinazionali e che gli Stati nazionali dominanti, gli Stati Uniti in primo luogo, avevano un enorme potere; ma hanno anche intuito che l’ordine globale era qualcosa di più – e che era qui, a livello globale, che le strutture contemporanee di dominio dovevano essere comprese. Ogni evento ha illuminato un altro nodo della rete emergente della struttura di potere globale: il WTO, la Banca Mondiale, l’IMF, il G8, gli accordi commerciali e così via. Il ciclo dei movimenti di alter-globalizzazione è stato quindi un enorme progetto pedagogico per coloro che vi hanno partecipato – e per chiunque altro fosse disposto a imparare.

Da allora, nonostante l’ululare degli ideologi della sovranità nazionale, le forze del dominio e di controllo dell’ordine globale non si sono affatto indebolite – anche se le posizioni relative dei vari poteri all’interno della sua costituzione mista si sono trasformate. Quelle forze si invece soltanto ritirate dalla vista e sono diventate meno leggibili, come se avessero scoperto una pozione di invisibilità. Oggi abbiamo bisogno di un ciclo internazionale di lotte che abbiano l’intelligenza di indagare le strutture dell’ordine globale dominante. A volte, dopo tutto, il lavoro teorico svolto nei movimenti sociali ci insegna molto di più di quello scritto nelle biblioteche. Invertire la loro invisibilità è il primo passo per poter sfidare e poi rovesciare le strutture dell’Impero.

Traduzione a cura di Clara Mogno e Tania Rispoli, per il sito di Euronomade (pubblicata nel mese di dicembre del 2019)

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Questo articolo è stato pubblicato su New Left Review 120, nov – dec 2019. La versione in inglese è consultabile qui

Immagine di copertina di Sigal Photos (pubblicate con il consenso dell’autore). Galleria di foto di David Sigal, Minneapolis, 26 maggio 2020.

[1] Per Deleuze e Guattari la natura schizofrenica della macchina capitalistica è in parte dimostrata dal fatto che «la rottura fa parte del funzionamento stesso». Si veda G. Deleuze e F. Guattari, L’Anti-Œdipe, Paris, Editions de Minuit, 1972; L’anti-Edipo, trad. it di A. Fontana, Torino, Einaudi, p. 40.

[2] Sulla proliferazione di divisioni, gerarchie e confini nello spazio planetario si veda Sandro Mezzadra e Brett Neilson, Border as Method, or, the Multiplication of Labor, Durham, Duke University Press, 2013; trad, it di G. Roggero, Confini e frontiere. la moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Bologna, il Mulino, 2014.

[3] Sul “liberalismo integrato” si veda John Gerard Ruggie, ‘International Regimes, Transactions and Change: Embedded Liberalism in the Postwar Economic Order’, International Organization, vol. 36, no. 2, 1982; si veda anche David Singh Grewal’s update, ‘Three Theses on the Current Crisis of International Liberalism’, Indiana Journal of Global Legal Studies, vol. 25, no. 2, 2018.

[4] Edward Luce esprime quello che è diventato quasi il senso comune universale: “È difficile sopravvalutare i danni che la guerra in Iraq ha arrecato al soft power americano e alla credibilità della missione democratica dell’Occidente”. The Retreat of Western Liberalism, Boston 2017, p. 81.

[5] Le pagine di Foreign Affairs offrono un’ampia dimostrazione dell’angoscia sofferta dai principali sostenitori dell’ordine internazionale liberale nell’era di Trump. Si vedano per esempio Joseph Nye, ‘Will the Liberal Order Survive? The History of an Idea’ eRobin Niblett, ‘Liberalism in Retreat: The Demise of a Dream’, entrambi in Foreign Affairs, vol. 96, no. 1, 2017; e John Ikenberry, ‘The Plot Against American Foreign Policy: Can the Liberal Order Survive?’, Foreign Affairs, vol. 96, no. 3, 2017.

[6] Sulla prospettiva di un passaggio di egemonia dagli Stati Uniti alla Cina si veda Giovanni Arrighi, Adam Smith in Beijing, London and New York 2007; trad. it di P. Anelli, Adam Smith a Pechino, Milano, Feltrinelli, 2008.

[7] Jake Sullivan può sostituire il coro: “Gli Stati Uniti sono l’unico paese con la portata e la determinazione sufficienti, e anche qualcos’altro: una volontà storica di scambiare benefici a breve termine per un’influenza a lungo termine”. Si veda ‘The World After Trump: How the System Can Endure’, Foreign Affairs, vol. 97, no. 2, 2018, p. 19.

[8] Si veda Polibio, Storie, a cura di D. Musti, Milano, BUR, 2001.

[9] Questi teorici hanno sostenuto in diversi momenti dell’ultimo secolo che per garantire la sopravvivenza del capitale e del suo sistema globale, è necessaria una sorta di Stato globale. Karl Polanyi, ad esempio, scrivendo durante la seconda guerra mondiale, riteneva che “l’unica alternativa a questa disastrosa condizione di cose era l’istituzione di un ordine internazionale dotato di un potere organizzato che avrebbe trasceso la sovranità nazionale”; K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Torino 2010, Einaudi, p. 28. Polanyi e altri che sostengono questo argomento hanno ragione nel dire che una qualche struttura di governance globale è necessaria, ma non riconoscono che nuove forme diverse dallo Stato, come l’Impero, possono sostenere il sistema capitalistico.

[10] Timothy Geithner, Stress Test: Reflections on Financial Crises, New York 2014, p. 105.

[11] “Nell’arco di cinque anni [dal 2003 al 2008], sia la politica estera che la politica economica degli Stati Uniti, lo Stato più potente del mondo, avevano subito un umiliante fallimento”: Adam Tooze, Crashed, New York 2018, p. 3. Tuttavia, Tooze sostiene che è troppo presto per parlare di un crollo dell’ordine mondiale perché i suoi due pilastri primari, la forza militare e il controllo finanziario, sono ancora in piedi. Ciò che è finito è “qualsiasi pretesa da parte della democrazia americana di fornire un modello politico”: si veda “Is This Is The End of the American Century?”, lrb, 4 aprile 2019, p. 7.

[12] Quinn Slobodian, concentrandosi su quella che egli chiama la Scuola di Ginevra e il suo ruolo nella formazione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, sottolinea che l’ideologia neoliberale e il globalismo sono completamente intrecciati: Globalists: The End of Empire and the Birth of Neoliberalism, Cambridge ma 2018.

[13] Si veda Michel Foucault, Surveiller et punir, Paris, Gallimard, 1975; trad. it di A. Tarchetti, Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1976.

[14] “Possiamo anche vedere la globalizzazione”, scrive Jameson, “o questa terza fase del capitalismo, come l’altro lato o volto di quell’immenso movimento di decolonizzazione e liberazione che ha avuto luogo in tutto il mondo negli anni Sessanta”. F. Jameson, ‘The Aesthetics of Singularity’, nlr 92, March–April 2015, p. 129.

[15] Abbiamo analizzato il ciclo di lotta del 2011 in Declaration, New York 2012. Sulla parziale rinascita del Tricontinentalismo, si veda Anne Garland Mahler, From the Tricontinental to the Global South, Durham nc 2018, p. 240. Si NiUnaMenos e l’inizio di un nuovo femminismo internazionalista si veda Verónica Gago, ‘La internacional feminista’, Página12, 15 febbraio 2019.

[16] Si veda Martina Tazzioli, Glenda Garelli and Nicholas De Genova, eds, ‘Rethinking Migration and Autonomy from Within the “Crises”’, South Atlantic Quarterly, vol. 117, no. 2, April 2018, pp. 239–65. Sulle carovane che attraversano il Messico come forma di ribellione contro i regimi di confine, si veda Amarela Varela, ‘No es una caravana de migrantes, sino un nuevo movimiento social qua camina por una vida vivible’, El Diario, 4 November 2018.

[17] Si veda Sandro Mezzadra, ‘The Right to Escape’, Ephemera, vol. 4, no. 3, August 2004, pp. 267–75.

[18] Jamie Peck e Nik Theodore sottolineano l’eterogeneità all’interno del sistema capitalistico globale, evidenziando “il carattere necessariamente variegato di programmi e progetti di neoliberalizzazione, il cui sviluppo spaziale disomogeneo è costitutivo e non una stazione di passaggio su un percorso di completezza”. ‘Still Neoliberalism?’, South Atlantic Quarterly, vol. 118, no. 2, April 2019, p. 246. See also Jamie Peck and Nik Theodore, ‘Variegated Capitalism’, Progress in Human Geography, vol. 31, no. 6, December 2007, pp. 731–72.

[19] Luc Boltanski ed Eva Chiapello sono spesso citati a proposito del recupero delle rivolte degli anni ‘60 all’interno del regime capitalistico: Le nouvel esprit du capitalisme, Paris, Gallimard, 1999; trad. it di M. Schianchi, Il nuovo spirito del capitalismo, Udine, Mimesis, 2014. Siamo più debitori della proposta di Mario Tronti secondo cui le rivolte popolari precedono e prefigurano gli sviluppi del capitale: si veda Operai e capitale, Torino, Einaudi, 1966, seconda edizione 1971. Marx ha ripetutamente sottolineato che le armi più potenti per la ribellione sono offerte dallo stesso sviluppo capitalistico. La rivoluzione non si realizzerà attraverso un ritorno alle forme sociali del passato, ha scritto, ma “sulla conquista dell’era capitalistica, sulla cooperazione e sul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso”, K. Marx, Il Capitale, Roma, Editori Riuniti, 1970, Libro primo (3), sez. VII, cap.24, paragrafo 7, p. 223.

[20] Mezzadra and Neilson’s The Politics of Operations: Excavating Contemporary Capitalism, Durham nc 2019, è l’analisi più completa che conosciamo della nozione ampliata di estrazione, soprattutto in relazione alla logistica e alla finanza. Si veda in particolare pp. 133–67; quote p. 138.

[21] Si veda per esempio Matteo Pasquinelli, ‘Google’s PageRank Algorithm: A Diagram of Cognitive Capitalism and the Rentier of the Common Intellect’, in Konrad Becker and Felix Stalder, eds, Deep Search: The Politics of Search Beyond Google, New Jersey 2009, pp. 152–62.

[22] Si veda tra gli altri Carlo Vercellone, ‘Wages, Rent and Profit’, disponibile online su generationonline.org; and Hardt and Negri, Commonwealth, Cambridge ma 2009; trad. it di A. Pandolfi, Comune, Milano, Rizzoli, 2010.

[23] Si veda il capitolo IV di David Harvey, La guerra perpetua, il Saggiatore, Milano 2006, pp. 116-150.

[24] Silvia Federici, sottolineando i modi in cui il comune è in gioco nei processi di accumulazione primitiva, mette in evidenza l’importante questione secondo cui la violenza dell’accumulazione primitiva ha sempre incluso la violenza contro le donne. “Come le recinzioni espropriarono i contadini dalle terre comunali, così la caccia alle streghe espropriò le donne dal proprio corpo, “liberato” in questo modo da qualsiasi impedimento a funzionare come una macchina per la produzione della forza-lavoro. Con la barbarie dei roghi, con l’instaurazione di un vero e proprio regime di terrore, si sono erette attorno ai corpi delle donne barriere più impenetrabili di quelle che negli stessi anni recingevano le terre in comune.”: S. Federici, Caliban and the Witch, New York 2004; trad. it di L. Vicinelli, Calibano e la strega, Udine, Mimesis, 2015, epub, pp. 443-444/819, trad. ita modificata.

[25] Queste diverse relazioni estrattiviste potrebbero essere concepite in termini di sussunzione formale della società sotto il capitale per comprendere fino a che punto la società costituisce un “fuori” rispetto al capitale: le relazioni sociali e la cooperazione sociale che generano valore sono portate sotto il controllo della gestione capitalistica, ma sono comunque esterne ad essa e, quindi, sussunte solo formalmente.

[26] Si veda Carlo Vercellone, ‘From Formal Subsumption to General Intellect: Elements for a Marxist Reading of the Thesis of Cognitive Capitalism’, Historical Materialism, vol. 15, no. 1, January 2007, pp. 13–36.

[27] Si veda Christian Fuchs, ‘Dallas Smythe Today—The Audience Commodity, the Digital Labour Debate, Marxist Political Economy and Critical Theory’, TripleC, vol. 10, no. 2, May 2012, pp. 692–740.

[28] Sulla divisione dei sessi nel lavoro salariato e sulla riproduzione sociale si veda Kathi Weeks, The Problem with Work, Durham nc 2011.

[29] Si veda Andreas Malm, Fossil Capital, London and New York 2016; Jason Moore, Capitalism in the Web of Life, London and New York 2015; Naomi Klein, This Changes Everything, London 2014; John Bellamy Foster, Brett Clark and Richard York, The Ecological Rift, New York 2010.

[30] I “protettori dell’acqua” alle proteste del 2016 Standing Rock Dakota Access Pipeline del 2016 hanno espresso la necessità di tali relazioni di interdipendenza. Si veda Arthur Manuel and Grand Chief Ronald Derrickson, The Reconciliation Manifesto, North Carolina 2017; and Teresa Shewry, ed., ‘Environmental Activism Across the Pacific’, South Atlantic Quarterly, vol. 116, no. 1, January 2017.

[31] Siamo in debito con l’analisi di Joshua Clover sulla progressione storica della progressione riot-sciopero-riot’ in Riot, Strike, Riot, Londra e New York 2016, e intendiamo questa discussione come parte di un dialogo in corso. una trad. ita modificata.gerisconono)e aggressivottop.24, paragrafo 7, p. 223re diversificazione che suona meglioe”on, icani di

[32] Su questo esiste un’enorme letteratura, poiché l’intersezionalità è diventata un concetto chiave in una varietà di campi accademici e discussioni politiche. Vedi i testi fondamentali di Kimberlé Crenshaw, ‘Mapping the Margins’, Stanford Law Review, vol. 43, no. 6, 1991, and ‘Demarginalizing the Intersection of Race and Sex’, University of Chicago Legal Forum, no. 140, 1989. Sui dibattiti contemporanei si veda il perspicace Jennifer Nash’s Black Feminism Reimagined: After Intersectionality, Durham nc 2019.

[33] Nash, Black Feminism Reimagined, p. 24.

[34] Si veda per esempio Patrick Cingolani, Révolutions précaires, Paris 2014.

[35] Judith Butler, Judith Butler, Notes Toward a Performative Theory of Assembly, Cambridge ma 2015; trad.it di F. Zappino, L’alleanza dei corpi, Milano, Nottetempo, 2017, p. 57.

[36] Achille Mbembe, ‘Vu d’Europe, l’Afrique n’est qu’un grand Bantoustan’, Jeune Afrique, no. 3024, December 2018, pp. 62–3.

[37] Christine Delphy, L’ennemi principal, vol. 1, Paris 1998, p. 29. Shulamith Firestone analizza in modo analogo il sistema delle classi sessuali, considerando la classe sessuale come parallela alla classe economica, ma più profonda nelle relazioni sociali: “come assicurare l’eliminazione delle classi economiche richiede la rivolta della classe inferiore (il proletariato) e, nella dittatura temporanea, il loro sequestro dei mezzi di produzione, così assicurare l’eliminazione delle classi sessuali richiede la rivolta della classe inferiore (donne) e il sequestro del controllo della riproduzione”: The Dialectic of Sex, New York 1970, p. 11.

[38] Lisa Disch interpreta l’analisi di Delphy sul genere come classe sociale non solo come una descrizione, ma “come un’interpretazione, una grandine o una chiamata. Delphy sollecita coloro che sono sottoposti dal patriarcato a identificarsi come “donne”, a prendere la loro oppressione non meno seriamente di quella dei “lavoratori”, e a partecipare alla lotta contro l’oppressione alle proprie condizioni”. ‘Christine Delphy’s Constructivist Materialism’, South Atlantic Quarterly, vol. 114, no. 4, October 2015, p. 834.

[39] Rosa Luxemburg, The Mass Strike, New York 1971, p. 74.

[40] Iris Young, ‘Beyond the Unhappy Marriage: A Critique of the Dual Systems Theory’, in Lydia Sargent, ed., Women and Revolution: A Discussion of the Unhappy Marriage of Marxism and Feminism, Boston 1981, pp. 43–69.

[41] Keeanga-Yamahtta Taylor, From #BlackLivesMatter to Black Liberation, Chicago 2016, p. 216.